Il problema del bullismo investe anche l'etica dell'informazione. L'antidoto delle 'buone notizie'

Stavolta è toccato a Vigevano, florido centro settentrionale della provincia di Pavia. Parliamo della “civile” Lombardia, mica di un degradato e arretrato paesotto dell’entroterra meridionale d’Italia...

Ma la facile (e amara) ironia vuole solo lasciare intendere che dopo l’ultimo (l’ennesimo) efferato episodio di bullismo che ha coinvolto minorenni «di buona famiglia» ai danni di un coetaneo vittima di violenze condivise anche sui social «per passare il tempo», una riflessione collettiva diventa ormai ineludibile. E doverosa. Ben oltre il diritto/dovere di cronaca. Al di là del silenzio assordante delle istituzioni scolastiche. E anche a prescindere dalle responsabilità giudiziarie in campo: dei ragazzini carnefici, come dei loro genitori che dovranno dimostrare a quali modelli la loro patria e matria potestà si sono ispirate, nel cammino educativo.

Il problema investe anche l’etica dell’informazione: nel racconto dei fatti, probabilmente non basta registrare il fenomeno, descriverlo magari con il compiacimento di indugiare in particolari pruriginosi che, oltre a suscitare sdegno nelle persone sane, possono indurre emulazioni in quelle più fragili e borderline; né può essere più sufficiente intervistare in trenta righe il sedicente esperto di turno per aiutarci a capire il perché di simili comportamenti brutali, frutto di carenze relazionali, probabile vuoto comunicativo familiare, eventuali frustrazioni personali da insuccessi, magari scolastici, tutti serbatoi di rabbia e aggressività che possono sfociare in angherie sulle vittime di turno. In assoluta solitudine.

Il dilagare di questa preoccupante devianza con un allarmante abbassamento dell’età dei protagonisti richiede a nostro avviso una mobilitazione più vasta, e ramificata. Forse ci impone di rimboccarci le maniche per cercare buone notizie alternative a queste, che indichino all’opinione pubblica un cammino possibile (e concreto) di uscita.

Come quello percorso da 14 ragazzi liceali leccesi (nove maschi, cinque ragazze) che dal gennaio del 2016 hanno dato vita all’associazione MaBasta!, ovvero il Movimento Anti Bullismo Animato da Studenti Adolescenti: un’esperienza “virale”, nata spontaneamente nella classe I A dell'istituto Galilei-Costa della città salentina sull’onda dello sdegno per il caso della ragazzina di 12 anni di Pordenone che si è buttata di sotto tentando di uccidersi perché non ce la faceva più a sopportare le persecuzioni dei compagni.

Con una velocità esponenziale tipica della digital generation, dotata di una fantasia che talvolta sonnecchia negli adulti, e con una intraprendenza organizzativa encomiabile, i ragazzi di MaBasta, guidati da un prof illuminato, sono diventati in breve tempo un ciclone di iniziative, una benefica rete di sensibilizzazione sul tema, un punto di riferimento di ascolto e sostegno alle vittime e - soprattutto - un significativo modello dal basso di prevenzione del bullismo sin dalla più tenera età: «Perché sono proprio loro - sostengono provocatoriamente i giovani attivisti - ad avere secondo noi più bisogno di aiuto».

Lo dimostra anche – con il linguaggio simbolico della fiaba, altro utile strumenti di educazione volta al cambiamento in positivo - un librino di Maria Luisa Sgobba, presidente regionale dell’UCSI Puglia: si intitola Bullo macigno (Progedit editrice, con illustrazioni di Chiara Gobbo): una storia emblematica, in forma di filastrocca, che narra con efficace semplicità i retroscena di comportamenti infantili prepotenti, arroganti e devianti dietro i quali esiste un oggettivo e spesso ignorato disagio, che dai carnefici si trasferisce sulle vittime, in un circolo vizioso e perverso che può essere spezzato recuperando in primis, magari con un sorriso, l’uso corretto delle parole: che possono essere pietre o frecce scagliate contro bersagli mobili, o balsami per le ferite inferte dalla vita.

Due esempi, tra i tanti possibili, di “buone notizie” utili a tutelare e diffondere l’arte del convivere imparando, magari, a saper ascoltare davvero i bambini e i ragazzi, che possono «pensare grande», come sottolinea in un suo libro il maestro della comunità-laboratorio di Cenci, Franco Lorenzoni. Perché non provarci?

Ultima modifica: Ven 17 Mar 2017