Carcere. Cosa cambia se invece di 'cella' si dice 'camera'

Le parole nascono dalla vita e per questo si evolvono, perché la vita cambia continuamente. Vale anche il percorso inverso – le parole cambiano la vita, che anche grazie ad esse si evolve? Non ho una risposta certa, ma non possiamo negare che tutte le battaglie sociali degli ultimi decenni sono state anche battaglie di linguaggio: basti pensare al passaggio da “minorato” ad “handicappato” prima e “disabile” poi. O da “negro” a “nero”.
Ora il tema coinvolge anche il carcere. “Redattore Sociale” ha dato ampio spazio ad una direttiva emanata il 30 marzo scorso dal capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, che contiene un elenco di termini da abbandonare per sostituirli con altri più corretti.

L’obiettivo è indurre il personale delle carceri ad abbandonare un linguaggio, sia verbale che scritto, che, oltre ad essere impreciso, è “Infantilizzante”. Ecco l’elenco riportato da “Redattore Sociale”:

- Cella diventa camera di pernottamento,
- dama di compagnia (detenuto che trascorre le ore di socialità con un 41 bis che è ristretto in un’area riservata in attesa di essere trasferito in sezione) diventa compagno di socialità,
- domandina (il modulo da compilare per inoltrare richieste alla direzione o al comando) diventa modulo di richiesta,
- scopino (detenuto che lavora nella squadra impegnata nella pulizia dell’istituto) diventa addetto alle pulizie,
- piantone (detenuto incaricato di assistere un compagno con disabilità) diventa assistente alla persona,
- spesino (detenuto che raccoglie l’elenco delle spese degli altri ristretti ) diventa addetto alla spesa detenuti,
- portavitto/portapane/portapranzi diventa addetto alla distribuzione dei pasti,
- cuciniere diventa addetto alla cucina,
- casario (detenuto che nelle colonie agricole lavora il formaggio) diventa casaro,
- stagnino diventa idraulico,
- pascolante diventa pastore,
- lavorante diventa lavoratore.

A leggere l’elenco l’impressione è che in alcuni casi si tratti semplicemente di adeguare il linguaggio “di dentro” a quello “di fuori”. E in effetti, dice Consolo, «i termini in uso nelle carceri riferiti ai detenuti sono spesso avulsi da quelli comunemente adottati dalla collettività e questo è causa di una progressiva e deprecabile infantilizzazione e di isolamento del detenuto dal mondo esterno, che crea ulteriori difficoltà per il possibile reinserimento, oltre ad assumere in alcuni casi una connotazione negativa».

La battaglia per il linguaggio nelle carceri ha un alto valore simbolico, proprio perché il linguaggio nasce dal tipo di relazioni che si instaurano tra le persone, e le esprime. Ciò che si sta cercando di cambiare, dunque, è questo: la socialità, il modo di vivere dentro una realtà chiusa, ma non impermeabile al mondo esterno, in cui ci si aspetta di tornare.

Il tema coinvolge anche l’informazione, il cui linguaggio non può essere indifferente ai significati espliciti e impliciti delle parole.
La speranza è che l’impegno a cambiare il linguaggio nelle carceri sia accompagnato da un effettivo impegno a cambiare il modo di vivere in esso, perché il carcere sia sempre meno punizione e sempre più percorso di recupero. E che l’informazione sappia cogliere tutto questo.

Ultima modifica: Ven 7 Apr 2017