Ancora un commento sulla Rai e sulla concessione del servizio pubblico, dopo il confronto nella Commissione di Vigilanza.

Ho già in precedenza in questo sito, a questo link, espresso le mie opinioni sullo schema di Decreto governativo per il rinnovo della concessione, che era stato trasmesso al Parlamento il 10 marzo scorso per il prescritto parere, che è obbligatorio ma non vincolante. L’11 aprile la Commissione parlamentare di vigilanza, rispettando i termini, dopo una serie di audizioni e di dibattiti interni, ha approvato le sue osservazioni. Il Movimento 5 stelle ha votato con la maggioranza. Relatore, il deputato del Partito Democratico Vinicio Peluffo. Le decisioni del Governo sul testo definitivo dovrebbero essere rapide, perché la Concessione, ripetutamente rinnovata, è in scadenza il 30 aprile.

Quelle che seguono sono le mie ulteriori osservazioni, che ovviamente si concentrano sugli aspetti a mio parere discutibili, tralasciando – quasi sempre – i temi di cui condivido l’impostazione. Ho esaminato il testo finale, tralasciando aspetti pur interessanti del dibattito parlamentare.

Pluralismo
Gli obblighi di “imparzialità, obbiettività e completezza” del servizio pubblico (art. 1, commi 4 e 6) verrebbero rafforzati con quello, inserito per primo, del “pluralismo”, anche attraverso “l’apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, generazionale, culturali e religiose...”. Tutto bene? Sì come senso generale, no se dovessimo prendere tutto alla lettera.
Se il servizio pubblico deve avere compiti di coesione sociale non può mettere sullo stesso piano – faccio esempi non proprio a caso – chi è contrario e chi è favorevole ai vaccini, oppure chi vuole esercitare la democrazia attraverso il voto singolo personale universale e chi preferisce affidarla a un algoritmo proprietario. Ovvero: c’è una responsabilità di scelta di chi comunica che non può essere soffocata dal principio che ogni idea, anche la più orribile o semplicemente peregrina, debba trovare ossequio e cittadinanza presso il servizio pubblico, che così diventa – e non escluderei che ciò a volte sia avvenuto in questi anni – strumento di disgregazione culturale e sociale.

Servizio universale
Il principio sacrosanto del servizio universale, cioè l’obbligo di fornire il servizio pubblico al 100 per cento della popolazione, viene risolto dalla Commissione parlamentare in modo davvero singolare (art. 3, comma 1, lettera a). Invece di chiedere incrementi e provvigioni per l’accesso alla rete internet, cioè al futuro della comunicazione, lo si fa per il passato, ovvero per le trasmissioni via etere (già intrinsecamente obsolete), e per di più in modo davvero singolare, cioè obbligando la RAI – e sono davvero curioso di sapere come sarà possibile – a farsi carico di antenne e decoder per la ricezione satellitare. E perché non anche delle antenne per la ricezione del digitale terrestre? Chi deciderà se un utente debba pagarsi da solo l’antenna terrestre o ricevere del tutto gratis quella satellitare con annesso decoder? Che dire comunque della evidente sperequazione tra le due situazioni?
Prima di tirare fuori dal cappello questa idea bislacca qualcuno ha fatto qualche calcolo sui costi? Ovvero: prima si impone un obbligo, e poi si impone alla RAI di studiarne i costi? Perché solo la RAI dovrebbe farsi carico di un sistema di ricezione che va a vantaggio anche dell’emittenza privata? Non sarebbe caso mai meglio inventare un sistema di incentivazione dei decoder Tivusat, in modo da abbattere la differenza dei costi tra l’impianto di ricezione satellitare e quello terrestre? E perché invece non muoversi coraggiosamente verso un servizio universale affidato alla ricezione di internet via satellite? Questa sì sarebbe una bella sfida per la nuova media company!

L’educazione
Ho già espresso valutazioni critiche verso l’idea, già contenuta nello schema governativo, che il ruolo educativo del servizio pubblico possa essere rafforzato difendendo gli spazi di “orticelli chiusi”, che finiscono per fare da foglie di fico, e a incrementare la “distrazione culturale” della maggior parte dell’offerta. Questo genere di considerazione, che considero fondamentale, spiega anche la mia sofferenza verso quei criteri di separazione contabile che permetterebbero di distinguere ciò che è pubblico, pagato dal canone, e ciò che è commerciale, pagato dalla pubblicità. Sono invece convinto che tutte le attività e le produzioni della RAI, anche di natura commerciale, abbiano obblighi di servizio pubblico, e che gli introiti commerciali compresa la pubblicità debbano essere reinvestiti in attività e produzioni di servizio pubblico, consentendo una riduzione significativa ma limitata del peso del canone sui cittadini.
Detto questo, mi risultano fastidiose certe aggiunte (art. 3, comma 1, lettera d) che vorrebbero specificare che tipo di educazione somministrare ai cittadini: persino quella finanziaria, assicurativa e previdenziale. E perché non quella su come difendersi dai terremoti? Non è certo aggiungendo specificazioni settoriali che si difende il primario ruolo educativo del servizio pubblico.

Archivi digitali
È corretta l’idea di incentivare la digitalizzazione degli archivi e il loro accesso gratuito da parte del pubblico. Ma la formulazione assoluta proposta (art. 3, comma 1, lettera l) non tiene conto né dei costi della operazione né della situazione dei diritti pregressi. La formula originaria della proposta governativa è più equilibrata. Questa e altre materie devono essere oggetto di una analisi più dettagliata, in sede di contratto di servizio.

Trasmissioni per bambini
La formulazione del divieto di pubblicità nelle trasmissioni per bambini (art. 3, comma 1, lettera m) non è ancora corretta. Si applica solo ai “canali tematici per bambini” e non a ipotetici e futuri (ma necessari) “canali generalisti per bambini” o alle trasmissioni per bambini (altrettanto necessarie) nei canali generalisti ordinari, come Raiuno.
Informazione regionale
Esprimo apprezzamento verso l’idea che l’informazione regionale del servizio pubblico collabori (art. 3, comma 1, lettera o) con “l’informazione televisiva locale di qualità”. Piuttosto è da lamentare una formulazione così limitativa. Tutta la RAI dovrebbe collaborare con la comunicazione di qualità, e questo dovrebbe essere uno dei principi ispiratori anche del nuovo contratto di servizio.

Informazione istituzionale
Tra le numerose aggiunte, fin troppo dettagliate in sede di concessione ma nel complesso condivisibili, che vengono messe in coda all’art. 3, comma 1, ce n’è una banalmente corporativa alla lettera u), dove si prevede un incremento degli spazi riservati alle assemblee parlamentari, commissioni comprese, e alle istituzioni europee, con informazione dedicata nei grandi canali generalisti.
È un modo come un altro per affrettare il declino proprio dei canali generalisti, contraddicendone la natura intrinseca che va invece reinventata e rafforzata. Un modo che non giova a nessuno, nemmeno ai parlamentari che cercano una vetrina: chi è interessato a quel tipo di informazione dettagliata oggi dispone di tutti gli strumenti necessari per trovarla altrove. Invece le informazioni rilevanti devono essere presenti nei notiziari ordinari. Altrimenti, anche in questo caso come per tutto ciò che suona “educazione”, saranno i giornalisti a trovare una buona scusa per non occuparsi di informazione istituzionale. Invece devono farlo, se si vuole un rapporto corretto tra i cittadini e la politica.

Risorse e contratto di servizio
Il comma 2 bis di cui si propone l’aggiunta all’art. 6, ripreso poi in una norma transitoria finale di non evidente significato, prevede pesanti sanzioni per la RAI qualora fosse colpevole di ostruzionismo alla stipula del contratto di servizio. In realtà questo dovrebbe comportare una contrazione dei tempi, probabilmente eccessiva, e credo toglierebbe al contratto la sua natura di accordo tra le parti. Non credo affatto che la morsa della politica sia il mezzo più adatto a migliorare il servizio pubblico della comunicazione.
All’art.13, finanziamento e canone, le premesse della Commissione parlamentare che indicano l’utilità di una previsione triennale (l’AGCOMM ne ha proposti cinque) per le risorse da canone non trovano una esplicitazione testuale. Si propone invece una serie di verifiche parlamentari sulla applicazione di un contratto di servizio che è ancora tutto da scrivere. Si parla anche di “eventuale riorganizzazione e definizione delle testate giornalistiche” come di un argomento anch’esso da discutere annualmente in Parlamento, auspicabilmente a cose fatte.
All’art. 14, infine, si ripropone l’incombente insensatezza della “contabilità separata” specificando “trasmissione per trasmissione”. Che è un concetto davvero strano. Cosa è una trasmissione? Un programma? Un canale? Una emissione via internet? Un servizio online?
Ma la RAI non doveva diventare una media company?

Ultima modifica: Sab 15 Apr 2017