Elogio della diretta (come si faceva una volta). Contro i rischi della banalizzazione (di oggi).

Quando ho cominciato a fare il giornalista televisivo (nel 1991) la “diretta” era un privilegio riservato ai più esperti, ai veterani del microfono e della telecamera, a chi sapeva e poteva gestire un imprevisto, una reazione dell’intervistato, un inconveniente tecnico.

Io, all’inizio, non potevo “andare in diretta” e guardavo con ammirazione e un pizzico di invidia chi invece lo faceva ogni sera, conducendo i telegiornali o i programmi di approfondimento.
Vedevo in tv i giornalisti più esperti e famosi (italiani e stranieri) e cercavo di carpirne i segreti: insomma studiavo per diventare simile a loro!

La “diretta” era il superamento della frontiera, quella del servizio letto e riletto, aggiustato, tagliato, ben confezionato. La “diretta” era un terreno inesplorato, di conquista, pieno di ostacoli ma anche di soddisfazioni, professionali e personali. Era anche uno “stato dell’animo”, libero e consapevole.
Prima che si accendesse la lucina rossa della telecamera, dentro di me passavano come in una pellicola le frasi che avrei dovuto dire, le domande che avrei dovuto fare, gli scioglilingua che avrei dovuto snocciolare. L’adrenalina era al massimo, già nei primi trenta secondi si giocava la qualità del mio lavoro... Anche i miei ospiti si calavano nel ruolo e l’attesa del microfono, anche per loro, diventava carica di tensione positiva.

L’abitudine, si sa, rende tutto più naturale, ma confesso che sento ancora oggi il brivido del collegamento, di quando mi passano la linea e sono solo io davanti alla telecamera, senza troppe possibilità di sbagliare. Penso a cosa dire e a come dirlo, alle parole da utilizzare, ai concetti da spiegare, agli errori da evitare. Cerco sempre di valutare (prima) le conseguenze di quello che dirò (dopo).

Quello che adesso però è profondamente mutato è soprattutto il contesto, e constato che ad una progressiva evoluzione della tecnologia corrisponde anche una banalizzazione evidente della dimensione della “diretta”.
Se venticinque anni fa quel tipo di cronaca, oltre che dallo studio, era possibile solo muovendo camion e antenne (e impiegando molto personale), già all’inizio degli anni Duemila i “ponti” di collegamento si erano molto alleggeriti. Con il risultato positivo che le stesse emittenti regionali più grandi e attrezzate riuscivano spesso ad offrire una copertura totale di molti eventi (pensiamo al G8 di Genova o al terremoto in Molise), paragonabile per intensità e qualità a quella di Rai e Mediaset, ma anche con il risvolto negativo di tante improbabili “comparsate”, prive di significato e di spessore, che hanno costellato soprattutto il racconto della cronaca nera dai territori.

Figurarsi cosa è accaduto dopo, quando lo “zainetto” (che sfrutta semplicemente la tecnologia dei telefoni cellulari) è diventato alla portata di quasi tutti gli editori televisivi, anche i più piccoli. La “diretta” è diventata la regola, e il servizio ben costruito una eccezione. Le parti insomma si sono invertite, anche perché costa meno, nell’economia di un’azienda, improvvisare qualcosa in diretta piuttosto che realizzare un buon servizio con immagini e interviste.

La rivoluzione (nel senso anche di capovolgimento completo del passato) si è compiuta negli ultimi due-tre anni, con l’avvento della “diretta per tutti”. Prima Periscope e poi Facebook live (solo per citare alcune applicazioni, le più diffuse) hanno reso possibile la cronaca diretta “fatta in casa”. E se è vero che nella stragrande maggioranza dei casi quel “live” non arriva neppure a venti visualizzazioni (e quindi si perde nel mare di internet), è altrettanto vero che quella cronaca è globale e potenzialmente visibile a tutti, talvolta amplificata persino dai media tradizionali.

L’ultimo caso, che ha ispirato questa mia riflessione, è la sconcertante vicenda di Cleveland, dove un 37enne ha ucciso “a caso” un uomo e ha trasmesso l’esecuzione con il suo smartphone, prima di fuggire e poi togliersi la vita. L'auto-racconto, folle e istantaneo, di quella tragedia dimostra che è crollato pericolosamente, e forse ormai senza rimedio, l’ultimo argine che ancora proteggeva la “sacralità” della “cronaca diretta”.
C’è di più: l’incapacità (vera o presunta) del social network (in questo caso Facebook) di rimuovere in breve tempo quelle terribili scene dimostra che non c’è neppure la possibilità di un’ultima supervisione (un po’ come accadeva una volta quando il direttore si riprendeva la linea togliendola a chi non rispettava i compiti e superava i limiti).

Ecco perché in fondo rimpiango i tempi passati.
Almeno fino a quando non accadrà che chiunque prema il tasto rosso del telefonino provi almeno un po’ quel sano brivido della “diretta” di un tempo, abbia la consapevolezza di quello che sta per fare, pesi le parole da dire e scelga con cura, con molta cura, le immagini da mostrare al mondo.

Ultima modifica: Mer 19 Apr 2017