1 / Il racconto della crisi del lavoro (anche il nostro), a Taranto e in tutto il Sud. Intervista a Giuseppe De Tomaso

RACCONTARE IL LAVORO - TESTIMONI/1: Giuseppe De Tomaso, direttore "La Gazzetta del Mezzogiorno"

 

Comincia da Taranto il nostro giro per l'Italia, in quelle realtà dove più pesanti sono stati gli effetti della crisi del lavoro. Incontreremo quei giornalisti che, sul territorio, ogni giorno "raccontano il lavoro".

Taranto, il sito siderurgico più grande d’Europa, è la metafora del sottosviluppo del Mezzogiorno.
Le politiche economiche di stampo assistenzialistico hanno prodotto diseconomie e marcato ulteriormente il divario economico e sociale tra il Nord e il Sud del Paese. Lo Stato, a Taranto con l’Ilva, e nel resto del Meridione sempre con interventi di sostegno calati dall’alto, si è imposto nel mondo del lavoro senza tenere conto delle vocazioni dei territori e delle persone.

Una strategia che si è rivelata fallimentare, di cui da qualche tempo è iniziata la computa dei danni. L’area ionica resta la più ferita, per la quale è impossibile stimare le risorse necessarie per risanarla e convertirla, non solo da un punto di vista ambientale ma anche occupazionale, sociale e umano.
Il Sud non ha bisogno di soldi distribuiti a pioggia ma di un netto capovolgimento delle politiche economiche che riservino l’iniziativa economica alle persone, selezionate per la capacità, la genialità e il coraggio di assumersi il rischio d’impresa. La libertà d’impresa, l’innovazione, la legalità sono dunque i fattori che potrebbero fare da rampa di lancio per il Mezzogiorno.

È il racconto del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Giuseppe De Tomaso, di un Sud che ha tanto sofferto la crisi più che in altre parti del Paese dal 2008, ma che non rinuncia a rialzarsi. Un racconto che non fa sconti, non solo alla politica, ma anche al mondo del giornalismo, al quale addebita di non aver saputo affrontare la sfida che internet imponeva, di cui egli è protagonista con la testata tra le più importanti del Mezzogiorno.

Un recente censimento della Fondazione Ugo La Malfa delle imprese medie meridionali rileva che su un totale di 3334 imprese nazionali solo 263 sono nel sud. Nel 2008, prima che iniziasse la crisi, erano 360. Cento non ce l’hanno fatta, hanno resistito quelle che hanno puntato sui mercati stranieri.

Campania, Puglia e Abruzzo sono le regioni che hanno saputo meglio resistere alla crisi. Ma anche in Puglia si contano i decessi. Il settore dell’agroalimentare si è salvato perché ha saputo investire sull’innovazione tecnologica, leva fondamentale per affrontare il mercato dell’export. Per lo stesso motivo ce l’ha fatta a Grottaglie il settore aerospaziale, ma il resto dell’economia ionica è sprofondata insieme al settore siderurgico.

Direttore De Tomaso, Taranto è l’area più depressa ma per il resto del Mezzogiorno non va meglio. Come si devono ricercare le cause?
“L’area ionica ha avuto un modello industriale d’ispirazione illuministica che prevede la creazione di occupazione tramite insediamenti industriali di Stato. Ma le imprese non si possono creare tramite decreto. Il punto di equilibrio economico di un’attività economica può ricercarlo l’imprenditore che opera sul mercato. La politica ha pensato di fare impresa nel Mezzogiorno tramite i fondi europei, erogati secondo logiche elettorali, che non c’entrano con i principi che regolano l’economia.

La velocità per esempio in economia è un fattore determinante. Un’idea imprenditoriale, se è realizzata in un momento successivo rispetto al suo concepimento, secondo i tempi dettati dalle lunghe istruttorie per l’erogazione delle risorse pubbliche, potrebbe rivelarsi fallimentare. Abbiamo visto utilizzare inoltre le risorse europee per finanziare concerti di star internazionali e sagre di paese. Più soldi sono stati erogati, più sottosviluppo è stato realizzato. Tutto questo ha messo a punto una macchina mangiasoldi guidata da faccendieri e furbetti. L’area ionica è crollata più delle altre perché alle criticità del suddetto modello industriale, si sono aggiunti i problemi ambientali e istituzionali dell’Ilva. Non si sa cosa ne sarà dell’Ilva. Dal suo futuro dipenderà il destino dell’intero polo siderurgico e di 11 mila persone.

Gran parte dell’apparato economico meridionale purtroppo è dipendente o assistito dallo Stato. Su venti milioni di persone attive, solo 150 mila lavorano senza alcuna provvidenza pubblica. È stato calcolato che un posto di lavoro creato con i vari contratti d’area e territoriali è costato da 800 milioni di lire a un miliardo di lire di risorse pubbliche. È facile fare i conti. Conti che devono risuonare come un allarme non solo per il Sud ma anche per il Paese e per l’Europa che erogano tali risorse”.

E allora di cosa avrebbe bisogno il nostro Paese?
“Il Governo deve smettere di fare impresa. Deve lasciare che siano gli uomini e le donne a farlo. Loro sono in possesso delle informazioni in merito al prezzo, al profitto e alla proprietà privata, le tre “P” che secondo l’economia politica determinano la riuscita di un’attività economica. Deve intervenire invece in seno all’Europa affinché sia creata un’area al Sud di “fiscalizzazione di vantaggio” per le imprese, al posto dell’erogazione di fondi a pioggia. E poi sempre all’Europa deve essere posto il problema delle “sofferenze bancarie”, che non sono solo il risultato di politiche bancarie corrotte. La crisi dal 2008 ha fatto precipitare nella povertà tante famiglie che non sono riuscite più a far fronte agli impegni intrapresi con le banche”.

La crisi ha travolto anche il settore dell’informazione. Perché non siamo riusciti a proteggerci? C’è stato un altro calcolo economico sbagliato?
“Internet ci ha lanciato una sfida globale che abbiamo affrontato in maniera quasi autolesionistica. Si è pensato di offrire gratuitamente l’ informazione tramite i siti internet delle testate giornalistiche, contando di coprire i costi del lavoro dei giornalisti con i ricavi delle pubblicità. Ma internet non ha una grande attrattività pubblicitaria, perché l‘utente internettiano è infastidito dagli spot. Quasi tutte le testate, infatti, non riescono a coprire i costi di gestione dei siti, i quali rappresentano un ulteriore aggravio per i bilanci degli editori, già molto compromessi”.

Siamo a un punto di non ritorno? Quale futuro attende la nostra professione?
“È difficile fare previsioni, le smentite sono sempre in agguato. Leggevo nei giorni scorsi su un quotidiano economico nazionale che negli Stati Uniti si registra un’inversione di tendenza, i quotidiani regionali stanno recuperando. Tuttavia credo che i giornali si specializzeranno negli approfondimenti, i social si occuperanno dell’informazione più immediata. Mi risulta che alcuni social si stanno organizzando per fare concorrenza ai siti, assumendo dei giornalisti.
Credo si renda necessario un intervento del legislatore che protegga il lettore dalle notizie false che girano nella rete. Ma non è facile, la materia è molto complessa e impopolare, alcune formazioni politiche devono il loro successo elettorale a internet. Sarebbe da loro propagandato come un provvedimento censorio.

Penso inoltre che a tutela della salvaguardia del principio della “verità” il sistema dell’informazione debba ispirarsi al principio dell’asimmetria informativa. Sarebbe una modalità per fare selezione tra chi fa informazione e chi dà delle informazioni”.

foto di copertina: Avvenire

Ultima modifica: Lun 29 Gen 2018