D come 'Donna': quale immagine trasmettiamo noi giornalisti?

D come ‘Donna’. La stessa iniziale di Dono. Destino. Devozione. Dedizione; ma anche di delitto, dolore, danno: ricordate il motto falsamente goliardico-automobilistico e ferocemente maschilista “chi dice donna, dice danno”? Con le parole si può giocare. Ma con le parole - si sa, eppure lo si dimentica troppo spesso - si può pure offendere, ferire. Fino a uccidere. Simbolicamente. E materialmente: come la conta in crescita esponenziale delle vittime di “femminicidio” di questa ennesima estate italiana rovente - e non solo sul fronte degli incendi dolosi, o su quello meteo dell’anticiclone dal significativo nome di Lucifero - dimostra. Ampiamente.

Forse, è giunto il tempo (ineludibile) di andare oltre i numeri, i resoconti notarili, le statistiche (negli ultimi dieci anni sono state assassinate in Italia 1740 donne, fonte Istat, con una media di una vittima ogni due-tre giorni): per tornare al senso profondo delle parole, del linguaggio - sempre più oltraggioso, violento, volgare, irrispettoso, sessista - che dai vecchi e nuovi media (e dai social) rispecchia, veicola e forma mentalità, pensiero, opinione pubblica. Comportamenti.

Cominciamo, magari, dal termine “femminicidio”. Che sarebbe meglio sostituire più correttamente (e non solo per ragioni etimologiche) con il vocabolo ginecidio, peraltro assonante con “genocidio”, sia pure di genere: strage silenziosa consumata per l’80% dei casi tra le mura di casa, che uccidono più della criminalità organizzata, in un contesto che magari non nomina le donne ma non ha remore né reticenze nell’insulto facile, nel turpiloquio a sfondo sessuale, nell’uso di stereotipi denigratori.

Che responsabilità hanno i mezzi di comunicazione in questo scenario? Quale immagine di donna rappresentano ogni giorno? E come raccontano in ambito giornalistico l’invisibile “backlash” (contraccolpo, ritorno indietro) che da decenni il secondo sesso sta vivendo silenziosamente sul piano sociale, lavorativo, culturale, affettivo?

Rispondere a queste domande, da giornalisti con un “supplemento d’anima”, è un dovere etico. Come quello che sentì Elena Gianini Belotti negli anni ’70 quando pubblicò il libro-culto “Dalla parte delle bambine”, non a caso ripreso ai giorni nostri da Loredana Lipperini con il libro “Ancora dalla parte delle bambine”. Questione di Sguardi differenti, sottolinea un libro collettaneo edito da Mammeonline e ora finalista al Premio Maria Teresa di Lascia 2017, che vuole fornire - appunto - un’informazione corretta su tutte le “bufale”, le mistificazioni e i luoghi comuni che colpiscono non soltanto le donne, ma anche quelle vittime secondarie e dimenticate che sono i loro figli.

Il tempo stringe. Ma per realizzare una vera (e necessaria) rivoluzione culturale che debelli la misoginia (e il conseguente sperpero di vite umane) serve una mobilitazione radicale. Che riparta (anche) dal senso delle parole: come avverrà, ad esempio, l’8 settembre nel seminario organizzato a Roma da Cesv e Caritas italiana su “L’informazione da fabbrica della paura a strumento di pace”. Un opportuno corso di aggiornamento per giornalisti (5 crediti, gratuiti, iscrizione entro il 6 settembre attraverso la piattaforma Sigef) sulla necessità di una corretta informazione su tutti i conflitti, interni o esterni, che dilaniano il mondo. Vicino e lontano. Perché la “guerra tra sessi” in atto in Italia non è da meno.

E i giornalisti possono contribuire a corresponsabilizzare uomini e donne sul terreno del dialogo: generativo di un incontro che è l’unico vero antidoto allo scontro.

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Ultima modifica: Mer 16 Ago 2017