5 - E come 'Empatia' (piuttosto che 'simpatia'). Perché è un dovere per i giornalisti.

Sono soltanto due le lettere che differenziano simpatia da empatia. Eppure, gli ambiti di significato delle due parole non potrebbero essere più diversi, se non addirittura opposti, nonostante l’apparente somiglianza dei termini.

Entrambe le parole derivano dal greco: simpatia significa “patire, sentire insieme”, da syn (con, insieme) e pathos (passione, affetto), empatia, invece, significa “patire, sentire dentro”, da en (dentro) e di nuovo pathos. Tra le due, è la simpatia a godere oggi maggior favore. Anzi, pare divenuta il termine chiave del nostro rapporto con le persone, le cose, gli avvenimenti, perfino la politica.

Dal fatto che una persona, un’idea, una battaglia civile mi stia o meno simpatica dipende spesso il mio atteggiamento verso ciascuna di esse. Con la conseguenza di aver ridotto molto della nostra vita a puro flusso psicologico irrazionale che elegge o rifiuta in base a percezioni troppo rapide e superficiali, soprattutto del tutto individualistiche.

Nella simpatia prevale l’io, nell’empatia prevale l’altro. È in grado di “patire dentro”, infatti, solo chi fa posto all’altro, alle sue sofferenze, alle sue domande, alle sue verità. Chi non mette avanti se stesso, ma è capace, appunto, di far spazio a ragioni che non sono le sue e per le quali, magari, non nutre simpatia. Di fatto, come affermava Edith Stein, una delle sue più acute studiose, l’empatia è la sola possibilità per conoscere veramente il mondo.

Ne deriva un preciso avvertimento per i comunicatori: guai a fidarsi della simpatia. Non c’è da essere simpatici, ma piuttosto empatici. Non si può leggere la realtà a partire dalle simpatie che abbiamo per questa o quella situazione. Non conta bucare sui media cercando di attirare le simpatie dei nostri destinatari. Conta non affermare l’io, ma dare spazio al racconto, soffrire dentro la notizia, farle spazio, ac-coglierne le prospettive anche quando non collimano con le nostre. Il comunicatore, dunque, non può che essere profondamente empatico, vale a dire positivamente impegnato a stabilire con la realtà non una dinamica di tipo affettivo e personale, appunto di simpatia o antipatia, ma un rapporto profondo di ascolto e di comprensione.
Empatia, dunque, come sola lettura autentica della realtà, ma empatia anche come garanzia di una comunicazione veramente buona.

Non basta cogliere la verità delle cose – ed è un obiettivo già in sé altissimo –. Occorre anche farsi carico della situazione stessa dei destinatari, non con la pretesa di avere il diritto di dire tutto e subito, ma con la consapevolezza che senza empatia non c’è verità, perché non potrà essere accolta da chi deve riceverla. Davvero, direbbe l’economista americano Jeremy Rifkin, l’uomo del futuro – ma forse già del presente – non potrà che essere l’homo empathicus!

Ultima modifica: Dom 10 Dic 2017