14 - Q come 'Qualità' dell'informazione. Che passa per la scoperta e il racconto della 'verità dei fatti'.

Che si tratti delle Ong che salvano i migranti in mare o del sindaco che va al ristorante in bermuda, anche nella rarefazione dell’informazione estiva si conferma la difficoltà – e mi riferisco alle redazioni, non ai social network – di raccontare i fatti. Per capire cosa realmente succede – cioè quali sono, i fatti - occorre sgomberare il campo da quintali di commenti, chiacchiere, substrati ideologici, sparate pregiudiziali.

Del resto, oggi sembra che i fatti non esistano più. Non nella percezione dei cittadini, che concedono la loro attenzione a quegli slogan e a quelle sparate più che alla ricerca della verità, ma neanche in quella degli operatori dell’informazione – o di parte di essi.

I tempi cambiano, e con essi l’informazione, ma a volte mi chiedo se per ritrovarne la qualità non bisognerebbe tornare all’antico, e cioè a quella parola antipatica e impopolare che è “obiettività”. Parola mai amata e spesso contestata dai più, almeno da quel 1969 in cui Umberto Eco scriveva sull’“Espresso” che l’obiettività è un “mito”, “una manifestazione di falsa coscienza, una ideologia” (l’articolo si intitolava “Il lavaggio dei lettori” ed uscì il 13 luglio 1969).

Parola però da altri apprezzata ed eletta a fattore identitario e programmatico. Solo tre anni dopo, nel 1972, Piero Ottone scriveva: «...L’informazione libera e obiettiva costituisce il contributo della stampa affinché la società italiana... migliori il sistema democratico. Nulla è più benefico della verità, anche se amara... Il giornale deve essere creduto da tutti, quali che siano i colori politici di chi lo legge» (l’articolo si intitolava “Il nostro compito” ed era l’editoriale del “Corriere della Sera” del 15 marzo 1972, il primo che Ottone firmava come direttore).
Lo stesso Eco, qualche anno dopo, sfumerà le sue posizioni e il dibattito continuerà in modo carsico nei decenni. Forse è venuto il momento di riaffrontare il tema, calandolo nel substrato culturale della post verità.

Potremmo quindi iniziare dicendoci che i fatti esistono. Come scriveva Emilio Rossi, «La realtà è ancora invincibilmente qualcosa di venerando, e come tale va spesa. Non si può ignorare l’esclamazione di Wittgenstein: “Come è straordinario che esista qualcosa”. Il fatto chiama a coinvolgimento, ma anche a onesta presa d’atto» (L’undecima musa, Rubbettino 2001, p. 90).

Allora, se vogliamo cercare la qualità dell’informazione, ripartiamo da qui, anche se sembra una cosa molto banale e poco originale: la realtà esiste, va rispettata. Compito del giornalista è ricostruire “la verità dei fatti”. Almeno quella “sostanziale”.

La parola “verità” fa paura, anche a noi giornalisti, più ancora che la parola “obiettività”. È impegnativa, pesante. Sa di filosofi incomprensibili, di religioni che dettano dogmi, nel migliore dei casi di ideali irraggiungibili. Ma non possiamo sottovalutare il fatto che la nostra democrazia, e tutti noi cittadini, abbiamo bisogno non di notizie – di queste ne abbiamo fin troppe – ma di verità. È possibile far coincidere notizie e verità? O almeno costruire le notizie in modo che siano il più possibile sovrapponibili alla verità?

Questa domanda può avere risposte di principio, ma ha soprattutto bisogno di una risposta di metodo. Nel senso che è possibile farlo, se si elabora un metodo di lavoro. Nelle scuole di giornalismo si insegnano tante cose: che i fatti vanno separati dalle opinioni, che le fonti vanno verificate e incrociate, che serve completezza e accuratezza, che bisogna essere imparziali, anche riportando diversi punti di vista... Ma poi il tempo non c’è, chi si occupa dei criteri Seo chiede titoli che rispondono più agli algoritmi che ai contenuti dell’articolo, e in più sei pagato (poco) a cottimo...

Come si fa a fare i conti con tutto questo e nello stesso tempo ad applicare un “metodo” giornalistico? Si può rendere questo metodo sostenibile anche nelle condizioni di lavoro di oggi, oppure sono queste condizioni di lavoro che vanno cambiate, se non si vuole rinunciare al metodo?

Ciò che, comunque, mi sembra chiaro, è che è questo metodo che fa la differenza rispetto ai blogger, agli influencer o al semplice cittadino che pubblica sui social i suoi mal di pancia. Un tempo era giornalista chi pubblicava, oggi pubblicano tutti. E allora qual è la differenza in base alla quale un giornalista si definisce tale? La differenza è un metodo che gli consenta di ricostruire e proporre la verità dei fatti. Senza illudersi o illudere di poterlo fare al 100%, ma con l’impegno di farlo il meglio possibile.

Detto con le parole di Emilio Rossi: «L’avvertenza che del fatto non si può dar mai resoconto assolutamente puro da qualsiasi mediazione soggettiva, non dovrebbe essere mai pretesto per relativizzare un’obbligazione fondamentale da assolvere per quanto ci riesce, come debito d’onore: stare, per intanto, al fatto come può essere percepito, col massimo di onestà cognitiva che possiamo praticare. Perché, se no, i tribunali di tutto il mondo seguitano a celebrare processi, in cerca di verità fattuali?».

Ultima modifica: Dom 10 Dic 2017