La giustizia riparativa. Quali prospettive? Confronto al Meeting di Rimini.

Il pubblico numeroso che giovedì 24 agosto ha partecipato al Meeting di Rimini all’incontro dedicato al tema della giustizia riparativa, è stato un segno evidente che testimonia quanto l’esperienza del diritto faccia parte del tessuto del nostro vivere quotidiano e non sia solo una prerogativa dei giuristi. «“Vogliamo giustizia” è un’espressione molto ricorrente, ma cosa significa fare giustizia per una persona che ha subito una grave perdita umana e affettiva?»:

con questa domanda Marta Cartabia, Vice Presidente della Corte Costituzionale, ha sfidato il cuore di ognuno, sottolineando come la giustizia dei tribunali sia sempre il frutto di un grandissimo cammino di civiltà. Riprendendo il tema della kermesse riminese tratto dal “Faust” di J.W. Goethe “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”, i nostri Padri ci hanno consegnato un tesoro ricchissimo nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, eppure spesso qualcosa resta incompiuto. In molti casi non basta soddisfare la mera esigenza di giustizia, che non di rado finisce per abbracciare la “logica” della vendetta, ma occorre «spezzare la catena del male» che siamo abituati a chiamare giustizia.

Carmen Velasco, giurista che in Spagna si dedica alla risoluzione dei conflitti come mediatrice, ha evidenziato il ruolo di questa figura così delicata quanto cruciale che ancora in Italia fa fatica ad affermarsi. Incontrando tanti casi di persone, senza lavoro o in crisi matrimoniale che per diversi motivi, tra tensioni e conflitti familiari, non riuscivano più a sostenere il pagamento delle rate del mutuo di casa; in dialogo con loro si è accorta che le domande tecniche del diritto non bastavano più da sole ad esaurire i loro bisogni più profondi. La missione del mediatore richiede un’altra prospettiva, che scavi nel cuore di chi si è chiamati ad assistere. Dietro ogni volto si nasconde una storia diversa e la sfida più grande è mettersi in ascolto dell’altro e guardarlo con uno sguardo capace di perforare il senso di vergogna e tutta la miseria umana, aiutandolo così a scoprire la sua unicità come persona, al di là degli errori commessi. «Questa nuova posizione mi ha reso felice e più piena come professionista» afferma con convinzione la giurista spagnola al Meeting. Spesso le sedute e gli incontri di mediazione sono usuranti da un punto di vista psicologico perché durano anche cinque ore, ma «quando sto con loro per me sparisce il senso del tempo e dello spazio ed è impressionante accorgermi che ogni uomo ha lo stesso desiderio di felicità».

«Ho incontrato molte vittime di reati in carcere a Milano, in Colombia e in Cile» ha detto il gesuita Francesco Occhetta. di nuovo sul “palcoscenico” del Meeting, dopo l’intervento sul tema del lavoro, Partendo da una breve analisi sullo status dei 195 istituti penitenziari italiani in cui transita un numero sempre più alto di detenuti, ampiamente approfondita nel suo testo “La giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione”, Occhetta propone un modello integrativo di giustizia riparativa, un prodotto culturale che rinforza i modelli classici riabilitando la vittima e la sua dignità. Si tratta di un modello biblico che attraverso un cammino di Verità ristabilisce l’alleanza tra Dio e il popolo che lo tradiva e lo tradisce ancora, perché l’uomo dimentica di essere «figlio di un dono». In questo percorso ci sono alcuni passi fondamentali da compiere come l’astensione dal giudizio e la rieducazione del colpevole, la responsabilità oggettiva della società che deve impegnarsi a bonificare la terra macchiata dal sangue dei fratelli che si distruggono. Ecco allora che il concetto di giustizia è intimamente legato alla relazione con l’altro: l’incontro con il prossimo e con la vittima da parte del reo diventa fondamentale per ripristinare l’equilibrio sociale che si spezza.

Per il secondo anno consecutivo è tornato al Meeting il missionario laico comboniano Valdeci Antônio Ferreira che ha raccontato la testimonianza delle APAC brasiliane, carceri senza chiavi custodite solo dalle manette dell’amore da cui nessuno fugge. Questa esperienza è «un’oasi in mezzo ad un deserto di sofferenza» e si propone di recuperare i detenuti, proteggere la società, promuovere una giustizia riparativa, affiancandosi al sistema carcerario vigente, divenuto ormai una vera «industria del crimine». Nelle APAC il tasso di recidiva dei recuperandi è inferiore al 10% rispetto al 70% delle carceri tradizionali e il loro percorso di recupero avviene grazie ad un metodo senza armi e senza guardie che dunque costa meno di un terzo rispetto al sistema classico. Amore, fiducia, disciplina: APAC è un’alternativa fattibile, ma pur essendo 100% brasiliana è un’opera di Dio e come tale è al servizio dell’umanità. «La vita è vita umana in quanto animata dalla trascendenza del desiderio come desiderio dell'Altro; è esposizione, apertura, domanda d'amore e di senso rivolta verso l'Altro» ci ricorda Massimo Recalcati. E se la nostra Vita non avverte su di sé una portata tale...non è Vita vera.

Ultima modifica: Sab 26 Ago 2017