31/12 = I poveri e noi, l'indifferenza è colpa anche dell'informazione.

I sindaci che, avvicinandosi Il Natale, si preoccupano non di risolvere i problemi dei poveri delle loro città, ma di nasconderne la presenza, di renderli invisibili, in fondo fanno quello che l’informazione fa lungo tutto l’arco dell’anno. Oggi i poveri fanno paura: una paura che si chiama aporofobia e sembra sempre più diffusa.

Ci piacciono i ricchi, mentre i poveri ci inquietano: che li incontriamo in metropolitana, sotto i portici di una chiesa, nelle strade di periferia... li guardiamo con fastidio. Abbiamo paura che ci portino via quello che abbiamo, che ci chiedano qualcosa, che ci usino violenza. Anche se poi quelli che realmente ci portano via le cose e ci usano violenza – spesso senza che ne accorgiamo, perché lo fanno attraverso la banche, l’organizzazione del lavoro, la finanza – sono i ricchi.

C’è chi sostiene anche che gli immigrati ci fanno paura non per il colore della loro pelle e i suoni della loro lingua, ma perché sono poveri. Abbiamo paura di diventare come loro e questo ci rende insicuri, anche se in realtà il numero dei crimini, in Italia, è costante da tempo.

L’informazione ha un ruolo in tutto questo? È in qualche modo complice? Io credo di sì.

Il primo motivo è che l’informazione mainstream parla troppo poco di povertà. Lo fa soprattutto quando escono i dati Istat o Censis, e magari quando esce un rapporto Caritas o della Comunità di Sant’Egidio. Numeri. Gravi, certo, in Italia, ma sempre numeri. Poi il problema svanisce. I nostri TG si occupano d’altro: politica, soprattutto, e cronaca nera (fra quelli europei sono quelli con il maggior numero di notizie di “nera”, Mediaset molto più della Rai). Per la società resta poco e per lo più è gossip. I numerosi volti della povertà – materiale, sociale, spirituale, educativa – sembrano non interessare.

Il secondo motivo è che ci si occupa di povertà e non di poveri. Non si dà loro un volto, una storia, uno spessore. Una voce. Allo stesso modo, non si dà volto – e voce – a chi contro la povertà combatte ogni giorno: volontari, operatori sociali, ma anche istituzioni e pubblici amministratori. Se dai TG facciamo sparire la cena di Natale della Comunità di Sant’Egidio e altre iniziative simili nello stesso periodo, rimane ben poco. Questi però sono eventi dall’alto valore simbolico e di sensibilizzazione, ma non combattono la povertà: chi sa cosa fa la Comunità ogni giorno, per tutto il resto dell’anno? Nessuno, eppure lo fa.

Il terzo motivo è legato alle fonti e a chi prende la parola sui media. Secondo i dati sul pluralismo sociale in televisione di AGCOM, riferiti ad ottobre 2017, nei TG Mediaset il tempo di parola di partiti, movimenti politici, esponenti di partito è stato quasi del 56%, quello di associazioni di soggetti di rilievo per il pluralismo sociale (un enorme bacino dove confluisce tutto l’associazionismo laico e cattolico, il volontariato, in non profit, il consumerismo, l’ambientalismo e via elencando) non ha superato lo 0,06%; il protagonismo sociali (anziani, bambini, giovani, disabili, immigrati, extracomunitari, minoranze etniche e linguistiche, donne...) si è fermato allo 0,86%. I cittadini non hanno spazio di parola. Men che meno i poveri.

Il quarto motivo è che il nostro giornalismo è poco avvezzo all’informazione costruttiva. C’è qualche cosa che si sta facendo, nel nostro Paese, per la lotta alla povertà? Ci sono progetti locali che funzionano o che almeno possono indicare una strada? In tutto il lavorio del non profit, c’è qualcosa che potrebbe essere considerato una buona prassi? Le iniziative nazionali, come il REI, a che punto sono? Funzionano? L’Europa quanti fondi stanzia e per quali obiettivi? Insomma, c’è qualcuno che ha un’idea sulla lotta alla povertà?

Nel suo messaggio per la giornata Mondiale dei Poveri (dei poveri, non della povertà!) del 2017, papa Francesco ha scritto: «Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita. [...] Siamo chiamati, pertanto, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, abbracciarli, per far sentire loro il calore dell'amore che spezza il cerchio della solitudine». È un invito che vale per le comunità ecclesiali, ma anche per quelle territoriali: perché i poveri, per il solo fatto di essere tali, devono anche essere emarginati e abbandonati?

La povertà non è una colpa, è il frutto delle scelte degli uomini – di quelli benestanti o ricchi soprattutto. «Dio ha creato il cielo e la terra per tutti; sono gli uomini, purtroppo, che hanno innalzato confini, mura e recinti, tradendo il dono originario destinato all'umanità senza alcuna esclusione». Non dimentichiamo che, negli anni neri della crisi, mentre la povertà aumentava, c’era chi si arricchiva (il divario è aumentato considerevolmente e l’Italia è uno dei Paesi europei con il divario maggiore).

la foto è di AgenSIR

Ultima modifica: Mar 25 Mag 2021

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