6/1 - Guidati da una stella, verso un unico destino.

Era d’argento o d’oro la stella che duemila anni fa indicava ai “pastori della meraviglia” e ai Re d’Oriente, i Magi, la via della grotta in cui nacque il Bambino? E tra quel Natale e l’Epifania, manifestazione della divinità di Gesù in forma visibile nella notte di Betlemme rischiarata dalla luce di un astro che brillava più di altri – quasi a suggerire, con la sua scia simbolica, la meta a pellegrini e cercatori di Assoluto – quali domande concrete ci pone, oggi, quell’Evento che ha cambiato la storia dell’umanità? E quali direzioni ci addita la via luminosa generata da quella lontana stella?

Se lo chiede, laicamente e in versi, lo scrittore Erri De Luca quando nel suo libro «In nome della madre» fa dire a Maria/Miriàm: «Chi è questo figlio cometa?/ Chi è questo mio clandestino?/ Spillato da fonte segreta,/ venuto al travaso del vino?». Ed è proprio lei, che «fu incinta di un angelo in avvento/ a porte spalancate, a mezzogiorno», ad accogliere allora e generare con coraggio, da sola, quel «figlio di un vento di parole...» destinato a divenire «un vaso di frasi»: le frasi del Nuovo Testamento. Soffio di rinnovamento nella Ruah spirituale che abita il Libro dei Libri. Legge non scritta dell’amore a ribaltare, e trasformare, le norme scritte e fallaci della “giustizia” umana.

Ma se lo chiede anche – altrettanto laicamente e poeticamente – Manuel Alegre, grande poeta, narratore e rivoluzionario portoghese oggi 81enne che fu costretto all’esilio dal regime di Salazar, in un racconto-gioiello per bambini (e non solo) dal titolo, appunto, «Una stella», pubblicato in raffinata veste grafica bilingue da Sinnos edizioni (con la traduzione di Maria Luisa Cusati e le illustrazioni di Katiuscya Dimartino) e non a caso dedicato dall’autore alla nonna Margarida: cultrice dell’arte domestica presepiale, indimenticata custode di un rito familiare portato avanti a Lisbona con tenacia, pazienza e amore, e dunque icona di radici interiori inestirpabili, grazie all’humus di un patto d’amore capace di annodare generazioni diverse, intrecciando umano e divino, immanente e trascendente, memoria e futuro in un presente dilatato dal tempo dell’Avvento.

Quello di sua nonna, narra Manuel Alegre ripercorrendo i Natali della sua infanzia portoghese, «era più di un presepe. Era una nuova creazione del mondo». Ed era «una peregrinazione, un viaggio magico o, se volete, un miracolo...tutti in cammino verso Betlemme... Ma magica, veramente magica, era la nonna. Era lei che faceva il miracolo della trasfigurazione, portava il Natale dentro casa e ci portava tutti fino a Betlemme. Il profumo di muschio e di legna. I monti, le valli, i fiumi, i laghi. Stradine e stradine in direzione di Betlemme. E la stella d’argento, la stella che ci guidava. La stella era in cielo, dentro casa, dentro di noi. Grazie alla nonna, brillava. Grazie alla sua magia Betlemme si trovava in casa. E anche la casa era andata a Betlemme».

La testimonianza di Alegre ci è cara perché non è soltanto un mero e individuale amarcord nostalgico, letterariamente suggestivo, peraltro in sintonia con il patrimonio collettivo di una tradizione che ha trovato il suo compimento a Napoli, patria mondiale del presepe come «Vangelo tradotto in dialetto» o Buona Novella «senza libro e senza voce», anche grazie al nuovo impulso spirituale al culto francescano della Sacra Famiglia dato qui, nel XVI secolo, da San Gaetano Thiene, co-fondatore dell’Ordine dei Chierici Regolari Teatini, poi rilanciato, nel Seicento barocco, dai Gesuiti e, nel Settecento borbonico, dai Domenicani, fino ad arrivare al contributo tuttora vivo e toccante di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, «il più santo dei napoletani e il più napoletano dei santi». Tutt’altro.

La voce di Alegre risulta particolarmente preziosa a ciascuno di noi perché i molteplici messaggi (affettivi, spirituali, persino politici) del suo racconto a più dimensioni, che nella seconda parte evoca non a caso con struggente e magico realismo lo strappo dell’esilio, la dolorosa nostalgia e la solitudine di ogni deracinée costretto a rifugiarsi in terra straniera per salvare la propria vita - fino al principio speranza incarnato dal magico incontro con i Magi a Parigi, che torna a far brillare nuovamente la stella d’argento della nonna dentro e fuori di sé - sono infatti potentemente attuali.

Anche alla luce del costante pensiero di papa Francesco per gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, di cui 22 milioni e mezzo di rifugiati, «uomini e donne in cerca di pace» ai quali il Pontefice ha rivolto non a caso il suo augurio e la sua preghiera invitando tutti a non spegnere la speranza nei loro cuori, a non soffocare le loro aspettative di pace.

I “rivoluzionari” in esilio, ricorda Alegre che ha vissuto sulla propria pelle le persecuzioni, il carcere, la fuga e la lotta per la libertà e la dignità umana, erano tutti tristi. Oppressi dalla solitudine, e dalla nostalgia. Avevano ombre di malinconia nello sguardo, forse perché nelle feste del Natale cristiano, anche i non credenti «ricordavano altre nonne, altri presepi, altri luoghi»; ma la cosa peggiore di tutti gli esili, sottolinea ancora Alegre, era «quella di sentirsi straniero nel mondo...un irrimediabile sentimento di perdita...un vuoto dentro, la stessa sensazione di qualcosa perduta per sempre». Con quel senso indicibile di “spaesatezza” che Heidegger preconizzava come “destino mondiale”.

Già. Forse è proprio questo il punto principale su cui riflettere, prima di disallestire i “cieli di carta” del nostro presepe domestico il 7 gennaio, Battesimo di Gesù, incamminandoci con rinnovata energia verso gli impegni del nuovo anno, per cercare di custodire – dentro e fuori di noi – la luce di quella stella di Betlemme: dove l’adolescente Maria di Nazaret diede alla luce il suo figlio unigenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché «non c’era posto per loro nell’albergo». Proprio come oggi accade a tante giovani migranti in fuga dalla disperazione verso una terra promessa che spesso non le accoglie, ma le respinge.

E la sfida della fede e dell’impegno dei comunicatori sociali, forse, è allora per tutti il cammino – da migranti, stanziali e/o viaggiatori sedentari di ieri, oggi, domani - per tornare ogni anno a Betlemme. Illuminati da una stella più brillante di altre, a rischiarare un incerto presente segnato, in fondo, dalla consapevolezza condivisa di «Un unico destino»: proprio come il titolo della grande e recente inchiesta giornalistica multimediale curata da Fabrizio Gatti (per diverse piattaforme: un servizio sull’«Espresso», un Super8 su «Repubblica», una web serie in cinque puntate - con le tappe del viaggio, la rete dei trafficanti, le interviste ai protagonisti e i retroscena del disastro - e un docufilm di 52 minuti su Sky) per svelare le verità nascoste del naufragio avvenuto nel Mediterraneo quattro anni fa.

Un’inchiesta giornalistica che racconta, attraverso la storia di tre medici siriani - tre uomini in fuga da Aleppo devastata dalla guerra con mogli e figli piccoli, che persero i loro familiari quando il peschereccio con 480 persone a bordo su cui si trovavano affondò improvvisamente, l'11 ottobre 2013, dopo cinque ore di disperate richieste di aiuto e surreale palleggiamento di responsabilità fino alla catastrofe - il più grande massacro di civili nel quale è coinvolta la Marina militare italiana: 268 morti, 60 dei quali bambini. Qualche giorno dopo la tragedia, l’allora primo ministro Enrico Letta decise di cambiare le regole di ingaggio nel Mediterraneo e di varare l’operazione Mare nostrum.

E il lavoro di documentazione di Gatti - prodotto dalla Divisione Digitale del Gruppo Gedi in collaborazione con 42° Parallelo e Sky - diventa allora, in questi tempi di disintermediazione digitale, anche un esempio concreto di infoetica e racconto dell’attualità con linguaggi contemporanei: tanto che la strategia video del Gruppo Gedi è stata oggetto anche di un rapporto del Reuters Institute sull'innovazione e la sperimentazione giornalistica in Europa.

Un modo, in altre parole, di ricercare con il giornalismo la verità annidata nel reale come gli “asparagi selvatici” tra i rovi, per usare la bella metafora di Daniela De Robert in Frontiere nascoste. Storie ai confini dell’esclusione sociale (Bollati Boringhieri). Ma anche un modo, infine, per lasciarci guidare in maniera sempre nuova dall’antica luce della stella di Betlemme.

nel riquadro un'immagine tratta dal libro di Manuel Alegre "Una stella/Una estrela"

Ultima modifica: Gio 4 Gen 2018