Noi giornalisti, l'anello 'saltato' del nuovo immaginario collettivo. E così si moltiplicano anche le 'fake news'.

Il 'Desk della domenica' (estratto da "Desk" numero 4/2017, info e abbonamenti ucsi@ucsi.it). Pubblichiamo integralmente il nostro articolo di commento ai risultati del 14° Rapporto Censis-Ucsi. I contenuti di quel rapporto sono stati ripresi in questi giorni (a proposito in particolare del tema delle 'fake news') anche da alcuni autorevoli quotidiani.

il nuovo immaginario collettivo

Nella grande mole di dati che ci consegna il 14° Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione non ci sono novità repentine e inattese.

E' difficile in tutti questi grafici trovare delle impennate (o, viceversa, dei crolli improvvisi), con l'unica eccezione della inarrestabile ascesa della smartphone, divenuto ormai centrale nel sistema della comunicazione, e non più soltanto dell'universo giovanile (lo utilizzano 7 persone su 10, nel 2009 la percentuale di chi ne faceva uso era appena del 15%).
Il mondo ormai sta nel palmo di una mano, quello schermo piccolo (eppure sempre più grande) è la nostra antenna e il nostro megafono, è il lavoro e il divertimento, l'enciclopedia e il giornale, la radio e la tv, è una finestra sempre aperta su tutto ciò che ci circonda.

La progressiva crescita dei media digitali, che lo stesso smartphone concentra e simboleggia, ha già prodotto un effetto rilevante, quello di determinare un nuovo e inedito "immaginario collettivo" nel quale i fattori chiave sono ribaltati rispetto al passato, se ne affermano di nuovi e si accentua il solco tra le generazioni.
Notiamo: "al centro di chi ha meno di 45 anni non ci sono più il posto fisso o la casa di proprietà, ma i social network". Ancora: "lo smartphone viene prima del buon titolo di studio o della democrazia diretta". Insomma, gli autori della ricerca sono convinti che l'affermazione dei nuovi mezzi di comunicazione abbia accompagnato (e provocato) una vera e profonda trasformazione della nostra società, una situazione che oggi è particolarmente evidente e per certi versi persino clamorosa. Eppure sono altrettanto convinti (e con ottime ragioni) che questo "immaginario" sia ancora di transizione, sia in continua e perenne evoluzione, sia insieme "analogico" e "digitale" e in esso coesistano ancora "vecchio" e nuovo".

il destino dei vecchi media

In realtà resistono alcuni dei media tradizionali. La televisione, per più di nove italiani su dieci, è ancora il mezzo principale; quasi sempre ha potuto e saputo rinnovarsi e integrarsi con le nuove tecnologie, mantenendo un invidiabile appeal, appena scalfito, in misura quasi impercettibile, negli ultimi anni.
La crescita esponenziale della mobile tv (che ormai raggiunge il 22% di utilizzatori, il doppio dell'anno scorso) fa presagire certamente un futuro diverso, in cui vedremo i nostri programmi preferiti su tante piattaforme diverse, disponibili ovunque e su richiesta. Si affermerà definitivamente il palinsesto orizzontale, personale e perfettamente integrato con i social. E' il destino che già appartiene alla radio, sempre più ascoltata su internet.
Ma la tv, in ogni caso, ha ancora molta strada davanti, e lo dimostra anche il fatto che i telegiornali, nonostante una inevitabile flessione, restano saldamente la prima fonte di informazione (almeno per il 60% del campione). Lo sono anche per i più istruiti (diplomati e laureati) e anche per gli under 30 (per i quali però si riduce la forbice con Facebook, parliamo del 54% rispetto al 49%).

In queste tabelle c'è un'altra conferma, che però è negativa: è quella che i quotidiani proseguono il loro declino. Ormai vengono letti solo da poco più di un terzo della popolazione e tutto questo non è compensato, se non in minima parte, dalla faticosa migrazione al digitale. Non è dunque colpa della "carta", è del tutto evidente che non regge più quel modello che abbiamo sempre conosciuto e che ha condizionato un certo "immaginario collettivo" degli anni passati. Forse questo dipende dalla poca voglia di leggere e di approfondire le notizie, forse anche da quella disintermediazione che fa ritenere il giornalista (e ciò che scrive) una fonte come le altre o addirittura meno credibile delle altre. Ma la causa può essere anche un'altra: in pochi ormai sono disposti a pagare per una informazione di qualità quando la possono trovare gratis e abbondante sulla rete o attraverso i vari social network, divulgatori seriali (sempre più spesso) del prezioso lavoro altrui.
Appare tuttavia consolante l'inversione di tendenza che si registra per settimanali e (soprattutto) mensili, che si caratterizzano per una certa stabilità del numero di lettori, garantita in particolare dalle donne e dalle fasce più anziane.

l'identità dei giornalisti

Per noi giornalisti questo è senza dubbio uno scenario di crisi, più che di opportunità. E lo dimostrano altri indicatori, a cominciare dalla drammatica perdita di posti di lavoro di quest'ultimo periodo e dall'evidente insostenibilità economica di molti progetti editoriali, anche molto consolidati.
Emergono con urgenza alcune domande: a chi ci rivolgiamo oggi? Con quali mezzi? Con quale autorevolezza? E chi può sostenere il nostro lavoro, se è vero che si vendono sempre meno giornali, che internet è un oceano sterminato e che e la stessa televisione, per dirla con il sociologo francese Jean Louis Missika, si scompone in una miriade di schermi e terminali? Sono interrogativi urgenti, che non trovano risposta in questo Rapporto.

Bisogna chiedersi anche, ed è un punto decisivo, quali fondamenti etici possiamo opporre come argine alla degenerazione di certo giornalismo, alle notizie false e tendenziose, all'informazione gridata per fare audience e conquistare like, alle facili strumentalizzazioni per alimentare paure e consensi.
La ricerca ci dice che metà degli italiani hanno dato credito (almeno qualche volta) alle notizie false e soprattutto che i più vulnerabili sono i giovani e i giovanissimi, per i quali molte volte questo fenomeno non è così grave e preoccupante come lo percepiamo noi. C'è un dato che ci lascia perplessi: per il 44% di chi ha meno di trent'anni l'allarme sulle fake news è "sollevato dalle vecchie elite (anche quella dei giornalisti) che a causa del web hanno perso il loro potere"!

In effetti, proprio dalla classifica dei mezzi utilizzati per informarsi si capisce un po' meglio la vulnerabilità della nuova opinione pubblica che potremmo definire "orientata al digitale". Dietro i telegiornali ormai c'è Facebook (35%), poi troviamo i giornali radio (22%), i motori di ricerca (21%), le tv all news (20%). Solo sesti i quotidiani cartacei (14%), settimo YouTube (12%) e così via, con la sorpresa dell'inossidabile Televideo, che con l'11% supera ancora i quotidiani online, i periodici, la free press, twitter, i blogger...
Se però prendiamo in considerazione solo chi ha tra 14 e 29 anni, scopriamo una classifica molto diversa: telegiornali (53,9%), Facebook (48,8%), Google & c. (25,7%), YouTube (20,7%) e poi, con valori dimezzati, tra il 10 e il 12%, le tv all news, le app sullo smartphone, i siti web di informazione, twitter, i giornali radio e quelli on line. I quotidiani cartacei non arrivano al 6%, così come i settimanali e i mensili.

Non è un mistero che le notizie false nascono e soprattutto si alimentano nella rete e sui social, tanto che Facebook e gli altri tentano faticosamente di correre ai ripari; ed è altrettanto chiaro che, nell'epoca in cui tutti si sentono "giornalisti" e hanno gli strumenti per comunicare globalmente, la loro diffusione diventa spesso virale e non si contrasta neppure con le smentite, che anzi a volte producono l'effetto opposto a quello sperato.
Chi dipende dalla rete, o quasi esclusivamente da essa, e non ha gli strumenti culturali per un serio discernimento, è una preda più facile per gli spacciatori di fake news, più o meno interessate (e a volte pericolose, come in alcune recenti situazioni di emergenza di protezione civile).
Se si pensa infine che più dell'11% delle persone non verifica affatto la fondatezza di una notizia prima di condividerla con gli altri, si capisce anche come si determina oggi il virus della post-verità. I giornalisti dovrebbero essere i "cani da guardia", oltre che del potere, anche dell'onda lunga e incontrollata delle notizie false. Ma non hanno più l'influenza di prima, e talvolta purtroppo sono loro stessi a rinunciare al principio della verifica approfondita (per questioni di tempo, di convenienza, di inesperienza, di pigrizia, di precarietà lavorativa) e a dare così a queste "non-notizie" ulteriore credito. Servirebbe invece un sussulto di dignità professionale, sarebbe necessaria sempre, da parte dei professionisti dell'informazione, una forte tensione etica per tentare di limitare questo fenomeno.

le fasi dell'ultimo decennio

Tutti questi dati ci riportano al punto di partenza, a quel modello di immaginario collettivo che si è determinato parallelamente alla crescita dei media digitali e che certamente da essi è influenzato (anche se l'autorevole opinione di Giuseppe De Rita, che potete leggere nel riquadro, stempera un po' questo nesso causa-effetto).

Il Rapporto Censis-Ucsi, che è il frutto di una lungimirante intuizione e della proficua collaborazione tra lo stesso De Rita e l'allora presidente dell'Ucsi Emilio Rossi, misura il rapporto tra italiani e comunicazioni fin dall'inizio degli anni Duemila, registra i cambiamenti, individua le tendenze. Scriveva proprio Emilio Rossi nel 2002, a margine delle prime edizioni della ricerca: "vi è la crescente consapevolezza che, mai come in questi anni, tutto il modo della comunicazione sia sottoposto ad una tale spinta all'innovazione e ad un tale stravolgimento dei suoi riferimenti tradizionali (culturali e di mercato), che la sensazione più diffusa, fra gli addetti ai lavori, è un certo smarrimento, nella costante sollecitazione a trovar la rotta giusta di navigazione in un mare ogni giorno cangiante di stimoli e sponde verso cui dirigersi con responsabilità". Rossi, quindici anni fa, è stato un buon profeta, sia dei cambiamenti del sistema dei media sia delle difficoltà di chi vi opera, e a maggior ragione dei giornalisti, a orientare la propria bussola.

Nell'ultimo decennio (2007-2017) il Rapporto ha rivelato alcuni fenomeni di rilievo, collegati strettamente uno con l'altro: la personalizzazione dell'impiego dei mezzi di comunicazione (che - si legge - "ha scardinato la loro gerarchia tradizionale"), l'ingresso nell'era biomediatica (con "il primato dell'io-utente che diventa anche produttore, oltre che semplice fruitore, dei contenuti della comunicazione"), la primazia della condivisione, la disintermediazione digitale e infine una maggiore divaricazione del solco tra elite e popolo, caratterizzata però da aspetti molto diversi dal passato.

Da qui, evidenziano i ricercatori, nasce oggi il nuovo immaginario collettivo: valori, simboli, miti che indicano le priorità e condizionano le scelte, insomma che "determinano l'agenda condivisa del paese". Che però tanto condivisa evidentemente non è (o non lo è ancora), proprio per la coesistenza di valori vecchi e nuovi, per l'allontanamento crescente tra giovani e anziani (con gli adulti che a loro volta si stanno "giovanilizzando"), per una crisi economica che sta ancora generando un clima di sfiducia e anche - aggiungiamo - per la polverizzazione dei contenuti e dei contenitori della comunicazione.

Questo immaginario, che viene definito correttamente "di transizione", non appare in grado di affermare nella società una visione unitaria e chiara e di indicare le prospettive ambiziose che c'erano una volta, per esempio negli anni della ricostruzione o in quelli del boom economico. E' frastagliato e incompiuto, è omogeneo solo per gruppi omogenei (è il fenomeno delle cosiddette echo-chambers) e in fondo si riflette anche nelle divisioni della politica e nell'atomizzazione (e persino nell'abbrutimento) dei linguaggi della comunicazione.

Continuare ad osservarlo indicherà la "rotta giusta" anche a noi giornalisti, che oggi siamo l'anello "saltato" del nostro nuovo e incompiuto immaginario collettivo.

Ultima modifica: Sab 3 Feb 2018