Portarsi dentro l'altro, portarsi l'altro dentro. Le migrazioni alla luce del Vangelo.

Il 'Desk della domenica' (estratto da "Desk" numero 4/2017, info e abbonamenti ucsi@ucsi.it). Pubblichiamo integralmente un altro contributo del'ultimo numero della rivista, nel quale Roberta Leone intervista don Massimo Naro, docente di Teologia sistematica nella Facoltà Teologica di Sicilia, don Massimo Naro è dal 2004 direttore del Centro Studi sulla Cooperazione "A. Cammarata" di San Cataldo, nella diocesi di Caltanissetta.

Professore, lei vive e opera in Sicilia, storico approdo di diverse migrazioni e crocevia di civiltà. Ancora oggi, la Sicilia è, prima di altre regioni, terra che accoglie. Come si può raccontare questa caratteristica?

Tra il 16 e il 18 settembre scorsi, anche il Dalai Lama, in visita a Messina e a Palermo, ha affermato che la Sicilia e i siciliani sono la terra e il popolo dell'accoglienza. La Sicilia è stata davvero un crogiuolo di civiltà e di popolazioni differenti, che spesso si sono scontrate per assicurarsene il controllo, peraltro strategico, data la posizione dell'Isola al centro del Mediterraneo. Ciò che ne è sortito, nel corso dei secoli, è una specie di meticciato, non solo etnico ma anche psicologico: quasi un habitus mentale che induce i siciliani a riconoscersi, più o meno consapevolmente, in coloro che ancora oggi cercano un approdo sicuro proprio sulla loro terra. Non mancano il senso di disagio e la conseguente preoccupazione, al limite la paura, che l'arrivo forzato e massivo degli "altri" fa insorgere sempre e comunque, ma permane anche l'inclinazione a lasciarsi commuovere da tutto ciò, a immaginarsi nei loro panni, in alcuni casi a ricordarsi d'essere stati già coinvolti in situazioni analoghe, magari tantissimo tempo fa, arrivando qui come coloni greci o come mercanti fenici, oppure come berberi che s'erano spinti al largo della costa africana durante una mattanza di tonni, o come normanni emigrati al sud. Oppure, ancora, come nonni e bisnonni da qui emigrati al nord, o oltreoceano, l'altro ieri e persino ieri.

Si potrebbe pensare che l'attitudine siciliana a riconoscersi in chi oggi arriva sin qui abbia soltanto ataviche radici culturali, che tornano a far capolino in congiunture drammatiche come quella che stiamo attraversando e che per il resto rimangono implicite nelle consuetudini e nei costumi più tradizionali, nelle specialità culinarie non meno che nelle fascinose testimonianze artistiche, o in alcune espressioni idiomatiche e persino in alcuni nostri cognomi: io stesso ne porto uno che - come mi ha spiegato un linguista dell'Università Ez-Zitouna di Tunisi - in arabo significa "fuoco", mentre in ebraico - come mi ha detto qualche anno fa il rabbino David Rosen - rievoca le fiammelle della Menorah, rimandandomi quindi al roveto ardente presso cui Mosè incontrò il Signore. Reputo, però, che c'entrino anche delle radici spirituali: un atteggiamento esodale, tipicamente semitico, ma anche ellenistico, biblico e cristiano insieme - si pensi a ciò che scriveva l'anonimo autore dell'Ad Diognetum, nel II sec. d.C., anche lui probabilmente siciliano, di Siracusa, sui cristiani che sono sulla terra paroikoi, in transito -, un'attitudine esistenziale, che gioca nella coscienza dei siciliani lo stesso ruolo che in una statista di formazione protestante come Angela Merkel gioca - a mio parere - l'affermazione di Lutero in punto di morte: "Siamo tutti poveri mendicanti".

È possibile dire che cosa l'esperienza di questi anni sta portando alla fede della comunità cristiana, in quali modi la segna, e se ha aperto nuove vie alla coscienza ecclesiale?

L'esperienza di contatto con i migranti, che negli ultimi anni scorsi è venuta maturando in Sicilia come in tante altre regioni italiane, aiuta a comprendere che la Chiesa è davvero se stessa, perciò missionaria - "in uscita" come ama dire papa Francesco -, anche quando si lascia raggiungere da chi si muove a sua volta, spinto da mille necessità, così come Gesù era messia non solo quando andava incontro ai lebbrosi ma anche quando si lasciava strattonare dall'emorroissa in mezzo alla calca. Le migrazioni che ci stanno investendo, ci aiutano a capire che "in uscita" significa anche apertura e, quindi, accoglienza.

Tra Sei e Settecento, i gesuiti che organizzavano le missioni popolari nell'entroterra siciliano sapevano di fare qualcosa di simile a ciò che i loro confratelli facevano nelle missioni d'America o dell'Estremo Oriente: dicevano di stare in missione "nelle Indie di quaggiù". Oggi possiamo considerare le sponde mediterranee, quelle europee non meno di quelle africane e turche, come "le Indie di quaggiù" in un senso nuovo: non c'è da tentare alcun proselitismo, ma in ogni caso c'è da testimoniare il vangelo dell'amore. C'è la possibilità, oggi, qui nel Mediterraneo, di riproporre la presenza cristiana nel mondo non con il cipiglio di una religione particolare, che ci tiene a distinguersi dalle altre, ma come il lievito che fa assumere spessore e sapore a un umanesimo peculiare, quello che ha i tratti della misericordia, e che perciò fa assomigliare gli esseri umani a Dio. Il Papa ha parlato di questo umanesimo del rispetto e della compassione, della solidarietà e della responsabilità, nel suo discorso al Parlamento Europeo, a Strasburgo, nel novembre 2104, e ancor prima nella sua omelia della messa a Lampedusa, nel luglio 2013, quando ha rievocato gli interrogativi rivolti da Dio, secondo il Genesi, ad Adamo e a Caino: "Dove sei? Dov'è tuo fratello?". Proponendosi come lievito di un tale rinnovato umanesimo, il cristianesimo ecclesiale può oltrepassare gli steccati del clericalismo e immergersi laicamente - senza paludamenti sacrali, sbracciandosi e cingendosi i fianchi col grembiale del servizio, cooperando e interloquendo con le altre componenti sociali - nel solco profano dell'attuale congiuntura storica, come il Maestro di Nazaret insegnava al dottore del tempio raccontandogli la parabola del samaritano e come Gesù stesso ha fatto vivendo il mistero dell'incarnazione.

In questo senso, c'è un portato di riflessione teologica riconducibile all'esperienza dell'ospitare il forestiero?

Certamente c'è, sulla teologia, una ricaduta importante - e positiva - di tutto ciò che sta accadendo. Tale ricaduta comporta un rinnovamento innanzitutto metodologico, in quanto induce la riflessione teologica a ricalibrarsi prendendo le mosse da ciò che succede oggi sugli scenari della storia che viviamo, e - nondimeno - a partire dalla prassi e dalle prese di posizione a cui le comunità ecclesiali si sentono chiamate dalla storia stessa. La teologia, così, smette di essere soltanto una speculazione teorica e si lascia interpellare dalla concretezza della realtà: diventa anche discernimento dei cosiddetti "segni dei tempi" e s'interroga sulla qualità della risposta che la Chiesa si sforza di dare - o non riesce a dare - alla loro urgenza e alle loro sporgenze più scomode, come appunto il fenomeno delle migrazioni nel Mediterraneo.

Chi migra per venire in Europa, attraversando il Mediterraneo, racconta attese di libertà e di futuro, ma anche un desiderio di giustizia che sopravvive a storie di diritti negati. Come interpretare tutto questo, senza fraintenderlo quasi fosse una strategia d'invasione islamica? C'è una criteriologia evangelica che aiuti a lavorare per l'integrazione?

Le migrazioni odierne non assomigliano per niente all'avanzata espansionistica arabo-musulmana nella penisola iberica o a quella ottomana nella penisola balcanica nei secoli scorsi. Sia perché tra i migranti, oggi, ci sono anche tanti profughi di religione cristiana, sia perché i motivi che spingono la gran parte di loro ad affrontare mille pericoli pur di giungere da questa parte del Mediterraneo sono connessi alla rovinosa contingenza sociale in cui versano i Paesi da cui provengono, perciò hanno a che fare con le guerre tribali (mascherate da fasulle ispirazioni religiose e scatenate da inconfessabili convenienze economiche) e con le precarie condizioni di vita di quella gente. Vero è che qualche migrante musulmano, toccando il suolo siciliano, potrebbe pensare d'esser tornato a casa, ricordando la dominazione araba nell'Isola durante il medioevo, ma vero è pure che un tale sentimento non è affatto maggioritario all'interno della congerie multietnica dei migranti. Il fenomeno migratorio è piuttosto motivato dalla speranza di una vita migliore, più dignitosa e prospera, non più pregiudicata dalla povertà.

A giungere sono dei profughi, non più dei conquistatori, anche se - secondo alcuni osservatori - la loro fame potrebbe dar loro la forza di pretendere domani ciò che oggi vengono a mendicare. Insieme alla loro disperazione e alle loro speranze, essi si portano, però, dietro e dentro anche la loro sensibilità religiosa, ben imballata all'interno del loro unico bagaglio, quello culturale, che sta non nelle loro mani o sulle loro spalle, ma nel loro stesso essere, nel loro animo, nel loro modo di vedere il mondo (quello che si sono lasciati dietro e quello che si ritrovano davanti). E perciò il loro arrivo non interroga l'Europa soltanto dal punto di vista politico ed economico, ma anche dal punto di vista religioso e finanche teologico. Il fenomeno migratorio, insomma, per sua natura, esige d'essere interpretato - come tutti gli altri complessi eventi contemporanei - sub evangelii luce, secondo il suggerimento conciliare di Gaudium et spes 46. Proprio nel Vangelo si può rintracciare una criteriologia che orienti gli sforzi per l'integrazione. Ricordando la regola aurea della convivenza, che già le Scritture ebraiche conoscevano e che Gesù insegna ai suoi amici (ama il prossimo tuo come te stesso), la sintetizzerei in questa fondamentale polarità: portarsi dentro l'altro e portarsi l'altro dentro. Vale a dire per un verso calarci dentro le incerte situazioni altrui, immedesimandoci nel disagio degli altri, e per altro verso includerli nella nostra più sicura condizione, condividendo con loro le nostre risorse e, al limite, cedendo loro il nostro stesso posto. Sullo sfondo si stagliano le esigenze del discorso della montagna: il mantello da donare, la compagnia prolungata da offrire, l'altra guancia da porgere. Può sembrare un registro utopistico.

Io, pensando a ciò che il Maestro dice ai suoi discepoli in Matteo 25 (lì dove parla anche del forestiero che viene ospitato), direi che è escatologico: dalla risposta che diamo ora dipende il nostro futuro. E non solo nel cosiddetto aldilà, ma anche nell'aldiquà, nei prossimi decenni e per le prossime generazioni, giacché siamo tutti legati tra di noi a doppio filo e tutti restiamo o cadiamo insieme. Il fulcro in cui incardinarci è il valore dell'alterità: siamo chiamati a incontrare gli altri, in relazione ai quali dobbiamo riconoscerci, cioè dobbiamo conoscere di nuovo noi stessi, riscoprire in noi i tratti di un'identità che nel tempo s'è sbiadita.

Quale ruolo ha - nello spazio pubblico in cui oggi, qui in Occidente, religioni disparate entrano ormai in reciproco contatto - la narrazione dell'identità di fede di ciascuna di esse in vista della convivenza civile? È possibile una narrazione "pluralistica" e "dialogica", che smussi le divergenze e valorizzi le convergenze? E può il dialogo interreligioso proporsi come una chiave narrativa che unisce anziché separare?

Basterebbe citare Deuteronomio 26,5-9 (la biblica professione di fede: "Mio padre era un arameo errante") per intuire che un'identità è dotata di profilo credente proprio quando si racconta con consapevolezza esodale, mostrandosi capace di percepire un appello vocazionale persino nell'incalzare degli eventi che spingono a divenire esuli e a farsi stranieri in cerca di una nuova patria. La grammatica della fede religiosa è così: narrativa ed esodale. Non solo per l'ebraismo, ma anche per il cristianesimo e per l'islam: il pellegrinaggio dei patriarchi d'Israele prefigura il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, città della sua Pasqua, mentre anche Muhammad sancì la sua scelta religiosa emigrando a Medina (Egira, in arabo, significa letteralmente "emigrazione"). La narrazione dell'identità credente è performativa, come si capisce da uno dei racconti chassidici raccolti e pubblicati da Martin Buber: il vecchio rabbino, già discepolo del famoso Baal-Shem, ormai paralitico, che si mette a raccontare come il suo maestro fosse solito danzare mentre pregava, a un certo punto si alza dalla sua sedia e comincia a danzare a sua volta, risultando guarito dal suo stesso racconto. Così va raccontata una storia - chiosava Buber - in modo tale cioè che essa sia una cura.

Lo stesso Buber - in Due tipi di fede - ha scritto che se Israele e il cristianesimo si sforzassero di recuperare la loro identità credente, finirebbero per dirsi l'un l'altro cose che non si sono mai detti e per prestarsi l'un l'altro un aiuto inimmaginabile. Reputo che questa affermazione abbia una valenza paradigmatica per il dialogo fra tutte le religioni, specialmente tra quelle di matrice monoteistica. La narrazione dell'identità credente in un ambiente pluriculturale e multireligioso, perciò svolta già in termini "laici", cioè in termini attenti a dosare pazientemente ciò che dev'essere sottolineato e ciò che dev'essere reinterpretato o riformulato rispetto al passato, è un esercizio terapeutico: ci guarisce da alcune reciproche diffidenze senza livellare le differenze, ci spinge a superare antiche chiusure e a infrangere inappellabili silenzi. Insomma, riconduce le nostre rispettive professioni di fede a un autentico colloquio, a un parlarci-insieme, al quale viene finalmente tolto il timbro del diverbio e infuso il tono del dialogo.

Come narrare, nel giornalismo, questo dialogo tra identità che, mentre si fa, performa la realtà e la cura? E a quali linguaggi attingere per darne rappresentazione?

Il giornalismo è una forma significativa di narrazione, peraltro congeniale alle esigenze laiche della cultura contemporanea: può, dunque, di certo dare un suo contributo, specialmente se riesce a parlare tutti gli idiomi di cui l'arte mediatica oggi dispone, dalla parola stampata su giornali e periodici a quella rilanciata in radio e in televisione o messa in rete, dal reportage fotografico al documentario audio-visivo, sino - forse - a trasfigurarsi in film. Difatti, il giornalismo, per essere se stesso, cioè per essere una vera narrazione-vera, non deve temere di assumere forme artistiche, magari finendo per dire, sul nostro tema, ciò che dice un personaggio di Ermanno Olmi ne Il villaggio di cartone: "Io credo in Dio e nella persona umana".

foto: AgenSir

Ultima modifica: Dom 4 Mar 2018