L'informazione che crea conflitto

Il 'Desk della domenica' (estratto da "Desk" numero 4/2017, info e abbonamenti ucsi@ucsi.it). Pubblichiamo integralmente un altro contributo del'ultimo numero della rivista, scritto da Paola Springhetti.

Roma, Tiburtino III, estrema periferia, estate troppo calda. Una donna accusa un migrante di avere tirato sassi al proprio nipote e ai suoi amici, vicino al Centro di accoglienza gestito dalla Croce Rossa. E poi afferma di essere stata aggredita e sequestrata nel centro stesso, dove era andata per protestare.

Pochi giorni dopo, è lei che viene indagata per lesioni aggravate. Secondo le ricostruzioni, il migrante non aveva tirato sassi, ma solo minacciato di farlo per difendersi dai ragazzi che lo deridevano, e nessuno l’aveva sequestrata: più probabilmente era stata lei ad aggredire l’uomo con un tondino di ferro, mandandolo in ospedale.
Nel frattempo, però, il quartiere si era mobilitato con manifestazioni contro i migranti e il centro di accoglienza, interviste rabbiose rilasciate ai media, attacchi di Casapound a “quelli che speculano sull’accoglienza”, improvvide dichiarazioni dei politici.
L’episodio da una parte è espressione dei conflitti esistenti sul territorio, dall’altra è anche frutto del modo in cui da trent’anni i media trattano il tema immigrazione, contribuendo ad amplificare quei conflitti e le lacerazioni del tessuto sociale e, a volte, creandoli. L’informazione, in questo, ha pesanti responsabilità, e il tema dell’immigrazione è uno di quelli in cui sono maggiormente evidenti.

Immigrazione: una narrazione allarmistica

È dai primi anni Novanta, quando l’Italia scoprì di essere un Paese di immigrazione grazie all’arrivo sulle coste pugliesi degli albanesi, che i nostri media hanno costruito una narrazione dell’immigrazione in termini di emergenza, di invasione, di pericolo. La cronaca nera e la giudiziaria hanno messo lo “straniero” al centro dell’attenzione, dedicandogli prime pagine e spazi in misura superdimensionata alle notizie (o a notizie simili che avevano protagonisti italiani) e facendo del migrante il “colpevole” per antonomasia.

Che fine hanno fatto gli albanesi? Dove sono oggi? Nessuno ne parla più: segno evidente che sono dove sono gli italiani, in mezzo a loro, possiamo azzardare a dire come loro. Eppure, l’allarmismo attorno al tema dell’immigrazione nei decenni non si è fermato, appuntandosi di volta in volta sui polacchi, sui rumeni, ed ora su chi arriva attraversando il Mediterraneo.

Sintetizza Andrea Cerase: «La costruzione del frame narrativo, basato sull’amplificazione del rischio percepito, produce in una parte del pubblico un aumento della paura e della chiusura, e in ogni caso è oggetto di un’imputazione di responsabilità fondata in realtà su una tautologia: l’immigrato è colpevole in quanto immigrato...».

In questo modo l’informazione ha costruito una cornice interpretativa che non solo ha rafforzato gli stereotipi e diffuso paura, ma ha anche provocato un corto circuito tra opinione pubblica e politica: «se tutti gli immigrati delinquono l’immigrazione diventa automaticamente una minaccia generalizzata, cioè un problema di sicurezza di cui la politica deve occuparsi».

Solo negli ultimi anni, dopo il viaggio di papa Francesco a Lampedusa e alcuni naufragi particolarmente gravi, come quello del 18 aprile 2015, che ha provocato probabilmente tra i 700 e i 900 morti, accanto al frame della paura l’informazione ha introdotto quello della pietà, raccontando le storie dei migranti e mostrando una certa empatia per chi arrivava via Mediterraneo.
Ma questo non ha intaccato la persistenza del frame della criminalità, alimentato, in mancanza di notizie “forti”, da manipolazioni, interpretazioni arbitrarie e, a volte, vere e proprie fake news.

Un esempio – purtroppo solo uno tra i tanti – si è visto l’8 aprile 2015, quando nella trasmissione Mattino 5 è stata mandata in onda l’intervista a una giovane di origine rom, che ha dichiarato di riuscire a guadagnare fino a mille euro al giorno grazie a furti e rapine. E ha aggiunto: «Se lavoro li faccio in un mese. Chi se ne frega se rubiamo a una vecchietta, tanto lei poi muore. Io mi tengo i soldi e sto a posto!». A distanza di poche settimane, la trasmissione Servizio Pubblico ha diffuso un’intervista in cui la stessa giovane diceva di essere stata avvicinata all’uscita da scuola da una giornalista, che le ha offerto venti euro per pronunciare quelle parole di fronte alla telecamera.
In questo modo, i media si fanno fabbriche di paura, creando percezioni distorte e inquietanti: secondo il sondaggio IPSOS MORI 2015, gli italiani credono che ormai gli stranieri nel nostro Paese siano il 26% della popolazione, mentre non raggiungono l’8%, e che i musulmani siano il 20%, quando in realtà non arrivano al 5%.

Insomma, l’idea che siamo invasi è ormai radicata. Una delle conseguenze è che gli immigrati diventano il capro espiatorio contro cui sfogare rabbia e insicurezza. Capovolgendo i rapporti di causa effetto, come è successo a Roma ma anche in altre città piccole e grandi, dove gli episodi di intolleranza e di rifiuto degli immigrati si sono negli ultimi anni moltiplicati: le periferie sono insicure non perché ci sono gli immigrati, ma perché manca il lavoro, e quando c’è è precario, perché le persone si sentono sole e non possono contare su un welfare efficiente, perché i trasporti non funzionano, le strade sono sporche, i luoghi di aggregazione abbandonati. Non sono gli immigrati – che condividono con gli italiani questi problemi – ma è l’insicurezza che nasce da tutto questo, e che si trasforma in paura degli immigrati, a renderle insicure.

L’ansia da (troppa) cronaca nera

Il tema dell’insicurezza è un tema sensibile anche sul piano politico, soprattutto quando si avvicinano le elezioni. L’ottavo rapporto dell’Osservatorio europeo sulla Sicurezza, “L’Europa sospesa tra inquietudine e speranza. Il decennio dell’incertezza globale” (2017), ci dice che l’86% degli italiani pensa che nel corso degli ultimi cinque anni i fenomeni criminali nel nostro Paese siano cresciuti. La percentuale scende al 43% quando si chiede se l’aumento si è verificato nella propria zona di residenza, e già questa seconda percentuale ci dice che una conoscenza più diretta del territorio porta a ridimensionare, almeno in parte, le distorsioni delle percezioni. Perché i dati dicono invece che i reati in Italia sono in calo da tempo: dal 2011 al 2015 sono scesi del 7%; i furti del 9,2%; le rapine del 10%; gli omicidi dell’11%.

Siamo un Paese molto più sicuro degli Stati Uniti, ma anche della maggior parte di quelli europei, eppure i nostri telegiornali danno molto più spazio al tema della criminalità che ad altri: la criminalità è mediamente la seconda/terza voce dell’agenda tematica complessiva dei notiziari. Secondo il rapporto, il Tg1, in alcuni periodi, ha notizie di criminalità tre volte in più del telegiornale britannico e 44 volte più di quello tedesco. C’è, insomma, «un’anomalia tutta italiana sia per quantità sia per tipo ai fatti criminali».
È difficile a questo punto negare una correlazione tra informazione e percezione.

Per cogliere appieno il significato e le conseguenze di questa insistenza sulla cronaca nera, però, bisogna andare indietro nel tempo e prendere i dati del rapporto sulla sicurezza della Fondazione Unipolis del 2008, dove si scopre che la percezione dell’aumento della criminalità era cresciuta fino a superare l’88% nell’ottobre 2007, e l’86% a maggio 2008, per poi ridiscendere nei mesi successivi (un altro dato è che la paura aumenta in chi guarda la televisione per più di quattro ore al giorno). Il rapporto mette questo dato in parallelo con il crescere del numero di notizie riguardanti i reati, che in quell’inverno aveva avuto un picco altissimo. In primavera, il 13 e 14 aprile 2008, si sono tenute le elezioni politiche a seguito della caduta del Governo Prodi. Ci furono anche una serie di elezioni amministrative. A livello nazionale vinse la destra, a Roma anche. Inutile dire che tutta la campagna era stata incentrata sul tema della sicurezza.

La costruzione del nemico e la politica

Come ha spiegato Georges Lakoff, quando si vuole dichiarare una guerra, si parte alla lontana, con una strategia mediatica di costruzione del nemico, che passa anche attraverso la diffusione degli stereotipi dell’ostilità.
Ha scritto Gian Carlo Zizola che «La strategia si basa essenzialmente sulla creazione di uno stress collettivo sui valori identitari: si fa credere che siano minacciati. Dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 a New York, è emerso un fenomeno relativamente inedito: lo scenario della società globale è condizionata dai conflitti “materiali” sul controllo delle fonti energetiche, sulla distribuzione delle materie prime strategiche, sugli scontri economici di scala. Tuttavia, su questo complesso di guerre a sfondo economico, predomina un enorme conflitto simbolico: si parla infatti di “scontro di civiltà”, di fondamentalismo religioso, di guerra “infinita” nel tempo e nello spazio. Questa conflittualità, ad alto spessore simbolico, mobilita le “armi” culturali, in particolare le infrastrutture dei media di massa, da una parte e dall’altra, al fine di espandere gli stereotipi necessari per giustificare l’antagonismo e mobilitare il consenso intorno agli obiettivi di contrasto». Insomma, la guerra culturale precede la guerra sul campo.

Credo si possa dire che questo vale anche per i conflitti interni alle società complesse, come la nostra. Se convinci i cittadini che sono minacciati, che hanno un nemico da cui difendersi, poi raccoglierai consensi, quando prometterai di liberarli dalla paura. E probabilmente non staranno neanche molto a guardare in che modo lo farai. La narrazione che contrappone il “noi” (buoni) al “loro” (cattivi) ha anche il vantaggio di essere semplice, comprensibile e un po’ epica (in fondo, ripropone l’eterna lotta tra il bene e il male).

Il problema riguarda l’informazione – che si lascia strumentalizzare un po’ troppo facilmente – ma riguarda prima ancora i politici, che attraverso la costruzione del nemico intercettano la “pancia” della gente, le emozioni, il bisogno di sicurezza, cui difficilmente si riesce a rispondere mostrando i dati, proponendo pacati ragionamenti, progetti graduali, insomma muovendosi sul piano della razionalità.

Molti politici questo lo hanno capito benissimo: in fondo, Trump è diventato presidente degli Stati Uniti sfruttando questi meccanismi e gli strumenti annessi, comprese le fake news e i discorsi d’odio, e anche sdoganando definitivamente un linguaggio offensivo e talvolta violento, funzionale appunto alla conquista del consenso. Individuato un conflitto e all’interno di esso il nemico, il linguaggio senza sfumature, che non ha paura di essere offensivo, serve a stabilire subito chi è dentro e chi è fuori. Non c’è bisogno di negoziare, trovare compromessi, discutere: questa è la mia posizione, devi sono decidere se sei con me o contro di me.
Alcune testate giornalistiche hanno adottato lo stesso meccanismo, altre cercano di mantenere una maggiore neutralità, ma rischiano comunque di diventare casse di risonanza di questa strategia. E sono spiazzate dal contatto diretto tra i politici e i cittadini, soprattutto attraverso i social media, che permettono di rendere virali i messaggi di odio e le fake news.

Grazie ai social, il gioco è ormai a tre: informazione, politici e cittadini spesso si alleano nel far girare messaggi che creano conflitti.

A ognuno le proprie responsabilità, ma i giornalisti, se si aprisse una seria riflessione su questo tema, si troverebbero a rimettere profondamente in discussione alcuni modi di pensare il proprio lavoro e alcune routine, a partire dai criteri di notiziabilità, visto che è ritenuto ancora valido quello che ha detto Paolo Mieli nel 1992, appena diventato direttore del Corriere della Sera, a proposito del conflitto che fa più notizia perché attrae di più. «Ci stiamo accorgendo che i conflitti rendono un argomento molto meglio di una generica esposizione. Se noi riusciamo a creare il polo A e il polo B attraverso i quali scocca la scintilla, il lettore, dovendo scegliere se ha ragione il polo A o il polo B, capisce meglio ciò di cui si sta parlando. Il conflitto è una cosa che delimita i campi, che focalizza l’attenzione». Ma fa anche male.

Ultima modifica: Sab 10 Mar 2018