Sabato - Il giorno del silenzio

Sabato Santo - IL SILENZIO "Giuseppe d'Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma in segreto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di poter prendere il corpo di Gesù, e Pilato glielo permise. Egli dunque venne e prese il corpo di Gesù. Nicodemo, che in precedenza era andato da Gesù di notte, venne anch'egli, portando una mistura di mirra e d'aloe di circa cento libbre. Essi dunque presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in fasce con gli aromi, secondo il modo di seppellire in uso presso i Giudei" (Giovanni, 19)


1. Il silenzio non è solo il vuoto di parole
Vania De Luca

Non è previsto il silenzio in tv, a meno che non si intenda per silenzio la trasmissione di sole immagini accompagnate da musica (che ne esalti il significato) oppure dai cosiddetti effetti (che corrispondono a un rumore di fondo, sottolineando il senso di realtà). Ma l’assenza di ogni elemento sonoro no, non è prevista, è come “andare a nero”.
Un giornalista televisivo, abituato all’uso delle parole, ma anche alla loro rinuncia per far parlare le immagini, sa dosare questi diversi elementi (compresi musica ed effetti), sia durante una diretta che in un servizio montato, e dunque è allenato all’uso significante del suo personale silenzio.

Ma ricordo la difficoltà nel luogo simbolo del silenzio più profondo che ha posto domande radicali perfino sul silenzio di Dio: Auschwitz Birkenau. Ero collegata in diretta mentre si aspettava l’arrivo di papa Francesco in visita ai campi di sterminio nazisti.
Benedetto, papa tedesco, negli stessi luoghi aveva tenuto un potente discorso sul silenzio. Papa Francesco invece aveva scelto di non parlare, per essere semplice e nuda presenza. Ma io ero in diretta, e dovevo “accompagnare” quel silenzio con parole che non lo banalizzassero. Istintivamente lo feci a bassa voce, nella maniera più sobria ed essenziale possibile, spiegando solo luoghi e gesti. Ma ero a disagio. Come si fa a dare voce al silenzio di un papa nel luogo del silenzio?

Il silenzio, quello vero, non è solo vuoto di parole. Provoca, spiazza. Bisogna sapervi entrare, ciascuno nel proprio modo. E non è facile.

2. Il silenzio di Emma Gonzalez
Maurizio Di Schino

Un silenzio di 6 minuti e 20 secondi. Sabato 24 marzo, vigilia delle Palme. Il silenzio di Emma è diventato il silenzio di 800mila persone lungo la Pennsylvania Avenue, a Washington. 6 minuti e 20 secondi per dire no all'uso facile delle armi negli Stati Uniti, per ricordare i volti e per scandire i nomi delle 17 persone uccise da un uomo armato il 14 febbraio scorso nel liceo "Marjory Stoneman Douglas" di Parkland, in Florida.
6 minuti e 20 secondi: tanto è durata la strage di San Valentino. E allora la giovane Emma, sopravvissuta a quella strage, ha chiesto a tutti di fare silenzio proprio per 6 minuti e 20 secondi perché ognuno potesse riflettere sul lento scandire del tempo mentre qualcuno sta trasformando la tua vita in passione, in agonia o in agnello da sacrificare.

Il giorno dopo, domenica delle Palme, un altro silenzio. Il silenzio dopo la morte di Gesù nella lettura della Passione del Signore. In chiesa tutti con il capo chino, molti anche in ginocchio, per fare entrare il silenzio e riguardare il mondo con occhi nuovi.

Due silenzi all'inizio della Settimana Santa mi hanno fatto tornare alla mente tanti altri silenzi. La ricerca del silenzio per allontanarsi dalle chiacchiere che distraggono. Il silenzio per depurarci dalle tossine del superfluo e dalle parole vuote. Il silenzio per avere occhi liberi, per leggere meglio la mia vita e la vita degli altri. Il sacrificio del silenzio per amore della verità quando la stessa verità è troppo pesante. Il silenzio per non avere interferenze nello scandire il nome di Gesù e farlo abitare pienamente in me. Il silenzio per non avere ombre nella contemplazione dei Santi martiri.

E poi il silenzio del giornalista che arriva in un luogo senza idee preconfezionate, soprattutto in terre di guerra e di disastri naturali. Il silenzio del cronista che fissa lo sguardo della persona dinanzi e la accarezza con gli occhi. Il silenzio del giornalista che contempla, veglia, ascolta e si fa precedere da Dio. Il silenzio per essere parte di una vita nuova.

3. Un’eccezione di cui abbiamo tutti bisogno
Antonello Riccelli

Non è facile restare in silenzio per un giornalista televisivo. Siamo abituati a parlare sempre, a commentare ogni cosa, a pensare che la nostra voce sia come la colonna sonora indispensabile della realtà che cerchiamo di rappresentare. Non è così, non può esserlo.

Occorre prima ‘osservare’ e ‘comprendere’ ciò che ci circonda: quando le immagini ti colpiscono da sole con la loro forza, quando le parole che sono state pronunciate lasciano il segno e ti impongono poi una riflessione, quando il contesto parla da solo, ecco... forse ci si deve davvero fermare. Prima che sia troppo tardi, che le nostre parole banalizzino, disorientino, infastidiscano.

Mi vengono in mente, in questi ultimi giorni, le foto dei bambini siriani che ci ha inviato un’associazione di volontari o le lacrime e i singhiozzi dei colleghi di lavoro degli operai morti al porto di Livorno. Non è bello fermarsi, non è contemplato nel nostro manuale. E non può neppure diventare il pretesto per una spettacolarizzazione delle sole immagini, specie se catturate senza rispetto e con cinismo. Ma a volte è proprio necessario. Se non altro per riordinare le proprie idee ed evitare di raccontare tutto come se fosse una partita di calcio.

Fermarsi fa bene a chi ci guarda e fa bene anche a noi. Così come oggi, sanato santo, fa bene a tutti fermarsi un attimo a pensare alla Pasqua, a quello che significa, a ciò in cui crediamo. Per un giornalista, e per un giornalista televisivo in maniera particolare, il silenzio è un’eccezione. Di cui però c’è tanto bisogno.

Ultima modifica: Ven 30 Mar 2018