Il giornalismo nel tempo della post-verità

Nella rubrica #deskdelladomenica oggi proponiamo alla vostra lettura (o ri-lettura) l’intervento integrale di padre Francesco Occhetta (scrittore di Civiltà Cattolica e consulente ecclesiastico dell’Ucsi), pubblicato nel numero della rivista Desk dedicato alla post-verità (all’inizio del 2017). Contiene molti spunti di rilievo, e tutti molto attuali.

Francesco Occhetta

Il termine post-truth, “post-verità”, è appena nato e l’Oxford English Dictionary lo ha subito consacrato termine dell’anno 2016, precisandone il significato: «I fatti oggettivi sono meno influenti nel formare la pubblica opinione degli appelli a emozioni e delle credenze personali». Così la comunicazione, come l’asta di un pendolo, oscilla tra il “prima” e il “dopo” la verità, senza riuscire a riconoscerla. La cultura della post-verità ha regole note: istigare alla violenza (hate speech), ridicolizzare le voci delle istituzioni, toccare le emozioni e le credenze (più irrazionali) degli utenti, “iniettare” sospetto sui fatti, inventare le “bufale” (fake news).

Il terreno fertile dove la post-verità affonda le radici è quello dei social network, capaci di intrappolare i fruitori delle notizie in un “eterno presente” senza memoria. È in mezzo alla valanga quotidiana di dati che attecchisce nell’opinione pubblica la cultura della post-verità. Lontana dai fatti. Nutrita da emozioni e da credenze. Con un fine chiaro: alimentare le paure e consolidare le identità. È il linguaggio utilizzato dai populismi, in cui l’idealismo (astratto), una sorta di “spirito puro” di matrice hegeliana — come l’idea di nazione, la purezza del sangue, la nostalgia di un passato epico e utopico —, è superiore a qualsiasi realtà e fatto (concreto). Un racconto dettagliato dei fatti e dichiarato documentabile è “post-vero”, nel senso che è solo verosimile. A nessuno importa controllare se è falso. «In questo senso — è stato scritto — il post-vero è inattaccabile, perché è anche post-falso».

In realtà, il linguaggio della post-verità è antico. Ha solo cambiato maschera. È lo stesso degli anni Venti del secolo scorso, quando le istituzioni andavano sgretolandosi e l’autorità non era più riconosciuta autorevole. La gente, più incline a chiudersi nella propria identità che ad aprirsi ai tempi che cambiavano, chiedeva un uomo forte al comando. Purtroppo, quello che si dimentica ritorna. Ogni volta che nella storia si invoca la “volontà generale”, si nasconde la presenza di un Generale con il potere di distruggere e, quasi mai, di edificare.
Così, la domanda urgente su cui riflettere diventa la seguente: siamo nel tempo della post-verità o in quello della post-coscienza, che non sa più riconoscere e distinguere il vero dal falso e il bene dal male?

Tra post-coscienza e responsabilità

Il Papa, nel suo realismo, sa che le notizie vere crescono insieme a quelle false. Nel suo Messaggio per la giornata della Comunicazioni del 2017, citando Cassiano il Romano, ricordava che «già i nostri antichi padri nella fede parlavano della mente umana come di una macina da mulino che, mossa dall’acqua, non può essere fermata. Chi è incaricato del mulino, però, ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di “macinare” ciò che riceve, ma sta a noi decidere quale materiale fornire». Francesco invita gli operatori della comunicazione a discernere, a macinare grano buono per produrre ogni giorno «pane fragrante». Si tratta di una scelta libera, consapevole e responsabile. Altrimenti, l’alternativa possibile è macinare zizzania.

Dopo molti anni, rimane l’intuizione profetica del Concilio Vaticano II, che in Gaudium et spes invita l’uomo a coltivare la coscienza come luogo di ascolto, di giudizio, di scelta e di incontro con la voce dello Spirito: «la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità». È il ponte attraverso il quale credenti e non credenti possono ascoltarsi e comprendersi. È grazie a questa grammatica comune che «nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale»[1].
La cultura contemporanea sembra avere svuotato il significato antropologico di coscienza (sociale) e «il senso di obbligazione» verso gli imperativi della coscienza stessa, in particolare verso quelle «voci» che richiamano a scelte più impegnative e onerose in senso morale: la voce divina che risuona nel segreto, l’ascolto intimo, il giudizio, un «Tu» con cui dialogare, l’obbedienza sincera al comando interiore: «fa’ questo, evita quest’altro», la responsabilità verso l’altro. È la coscienza morale, infatti, a porre all’uomo alcune domande radicali e ineludibili: come devo comportarmi? In che modo distinguere le voci di bene e quelle di male radicate nel cuore? Chi sono chiamato ad essere?

La formazione di una coscienza sociale può essere garantita soltanto da un’opinione pubblica formata, capace di distinguere il bene dal male. Non si tratta, come molti pensano, di imporre la verità insegnandola — l’etimo ricorderebbe un «mettere dentro» —, bensì di educare a disvelare la verità (dei fatti), e ciò nel senso più alto del termine, del «tirare fuori» risorse, innovazioni e valori, dai cittadini e dalla società. Quale alternativa sarebbe possibile? Per alcuni, prevedere una sorta di sceriffo del web che censuri il falso. In questo modo, tuttavia, si comprimerebbe il principio inviolabile del diritto di espressione.

Si vede solo ciò che si conosce interiormente nel profondo della propria coscienza. Il Papa lo ribadisce: «La realtà, in sé stessa, non ha un significato univoco. Tutto dipende dallo sguardo con cui viene colta, dagli “occhiali” con cui scegliamo di guardarla: cambiando le lenti, anche la realtà appare diversa. Da dove dunque possiamo partire per leggere la realtà con “occhiali” giusti?[2]».

Una sfida: scommettere sul giornalismo di qualità

La possibilità di abitare il tempo della post-verità come uomini morali si apre – ma anche si chiude – dentro ciascuno. Come affermava Mounier parafrasando Peguy: «La rivoluzione o sarà spirituale o non sarà». Anche loro avevano in mente non un orizzonte intimistico ma la dimensione interiore, nei suoi nessi con quella sociale e politica.

Il siero per contrastare gli effetti della cultura della post-verità sono la testimonianza e la capacità di dare buone notizie. Che difendano la vita, rispettino il dolore, costruiscano bene comune. Il giornalismo (anche quello ecclesiale) deve aiutarsi a correggersi, rettificarsi e scusarsi; vietare le forme di pubblicità occulta; liberarsi dall’essere megafono servile del potente di turno. Anche le omissioni giocano in favore della cultura della post-verità. Il problema rimane quello della veridicità delle fonti e della loro reperibilità. Ma la verità dei fatti è soprattutto questione di sguardi e di linguaggio. È «saper vedere ciò che altri non vedono, mettere in rete ciò che altri scartano, essere sale e lievito che non addormenta, ma aiuta conoscenza e trasformazione». Niente di nuovo, si potrebbe obiettare; comprese la premessa del direttore di Tv2000, «raccontare la realtà e parlare chiaro come dovere etico», e la conclusione: «siamo chiamati a capovolgere il punto di vista, recuperando magari il linguaggio dei bambini». Tuttavia, certe affermazioni dei protagonisti dell’informazione possono essere di aiuto, specie se metabolizzate e fatte diventare prassi.

Quasi un secolo fa, Joseph Pulitzer aveva definito il giornalista: «la vedetta sul ponte di comando della nave dello Stato». Ci chiediamo: è ancora così nel tempo della post-verità? Il rilancio di un giornalismo di qualità va ricentrato sui momenti dell’interpretazione e della contestualizzazione della notizia.
Certo, la deontologia va rispettata. Il suo significato, fatto di τò δέον e λόγος, del “dovere” e di “discorso”, non rimanda a un concetto statico ma cambia nel tempo, includendo i contenuti e le forme della comunicazione che generano nuove esperienze comunicative. Occorre però investire in cultura, prepararsi con rigore sui temi caldi dell’agenda politica che toccano la convivenza civile stessa: l’antropologia post-umanista, il rapporto tra laicità e Islam e tra diritto di espressione e diritti soggettivi, l’integrazione, la costruzione della cittadinanza europea, la difesa della dignità della persona, ecc. Le notizie false possono essere arginate soltanto attraverso la memoria dei fatti e la preparazione rigorosa (dati, aneddoti, precedenti, coerenza di ciò che si afferma ecc.).

Tre voci per approfondire il tema

Per prendere coscienza su come “immergerci” nel tema e individuare antidoti che difendano la dignità della persona e curino le ragioni della democrazia è utile riferirsi a tre diverse fonti. Anzitutto quella di p. Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, che richiama alla qualità della testimonianza del giornalista: «La ricchezza quantitativa dell’informazione pone problemi in termini di qualità, infatti. [...] Il pubblico sta uscendo da una posizione passiva e sta mettendo sotto pressione l’ecosistema mediatico. La credibilità va dunque continuamente verificata e legittimata in un contesto di relazioni, e dunque diviene “affidabilità”; l’autorevolezza “competenza”; e dunque il giornalista un “testimone competente e affidabile” ».

La seconda voce, quella di p. Giacomo Costa, direttore di Aggiornamenti Sociali, invita a riscoprire i moti interiori della coscienza che aiutano a scegliere: «Chi ha sperimentato la differenza tra la gioia, che è il frutto di un incontro tra persone nella verità, e lo stordimento solipsistico delle echo chamber [camera riverberante], troverà in essa una bussola per orientarsi in questo tempo. Diventerà così capace di accompagnare altri e di tracciare sentieri e strade sicure per la società: pratiche e istituzioni educative, informative, politiche, culturali e sociali resistenti all’erosione e al cui interno costruire nuove modalità e occasioni di incontro e di dialogo, nel rispetto della verità e della dignità di ciascuno e nella gratitudine per l’originalità e la differenza di cui è portatore».

Infine la voce di Chiara Giaccardi, che ritiene l’etica e l’umiltà gli antidoti alla post-verità: “Il problema è che non siamo solo vittime innocenti della post-verità e dei suoi effetti antidemocratici, ma ne siamo in qualche modo responsabili, anche quando diciamo di combatterla. Quando, ad esempio, pieghiamo la complessità delle cose alle nostre ragioni, o trasformiamo questioni antropologiche fondamentali in chiacchiera o in spada da brandire contro qualcuno. [...] E invece la verità è inesauribile e inoggettivabile (Pareyson). Dunque non si coglie che all’interno di una prospettiva sempre parziale. Che è insieme vera — dal momento che è una finestra sulla vita e sul mondo — e non vera, se pretende di esaurire quella verità con una parola definitiva e ultima. Per questo la ricchezza delle interpretazioni non è per forza segno di relativismo radicale, equivalenza e indifferenza. La verità poi non può mai essere tutta esplicita. C’è sempre una parte di mistero, una parte che ci sfugge, che chiede ascolto, silenzio per essere compresa. Umiltà. L’era della post-verità è quella, arrogante, che ha bandito il mistero e il silenzio. Daremo un contributo non se urleremo più forte degli altri, ma se sapremo custodire questo spazio di eccedenza e di libertà”.

A noi, come Associazione, rimangono alcune parole chiave da meditare e da vivere: discernimento, trasparenza, coerenza, fiducia, condivisione di principi e amore, tanto, verso una professione chiamata ad arginare le voci urlate e false per difendere la libertà dell’informazione e la giustizia tra gli uomini.

Ultima modifica: Sab 14 Apr 2018