Giovani Giornalisti/2 - 'Il mio tempo ha valore'. L'esperienza di un giovane che non vuole 'perdere la sua dignità'

Abbiamo coinvolto i più giovani, abbiamo aperto il confronto. E i toni, in qualche caso, sono anche duri, di vera denuncia per un sistema che evidentemente, nella nostra professione, presenta evidenti criticità. Di cui i giovani spesso pagano le conseguenze. (a.r.)

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Con queste parole l’articolo 4 della Costituzione dà speranza a tutti gli studenti che, apprestandosi a concludere il proprio percorso formativo, guardano al mondo del lavoro. Una speranza che si trasforma per tanti in un’illusione, infranta quasi sempre troppo presto.

Posso dire che sia il mio caso, o meglio che lo sia stato. Un percorso universitario che si propone di insegnarti a essere giornalista, ma che gradualmente si rivela in parte troppo generalista e in parte troppo succube di raccomandati e raccomandanti, non ti insegna a scrivere, tantomeno a scrivere bene, ma ti aiuta certamente a sviluppare uno sguardo critico verso l’ambiente che ti circonda.

Che in Italia non ci sia lavoro, è una stupidaggine. E lo dico dopo anni di precariato. Il problema in Italia è che veniamo illusi in massa di poter svolgere professioni per le quali il personale necessario nel mercato del lavoro è decisamente più basso. Questo fa sì che mestieri come quello del giornalista siano ambiti da un numero eccessivo di giovani, che credono di essere preparati a farlo – perché è l’università pubblica che ci illude di esserlo – ma che in realtà non lo sono.
Con la crisi editoriale e il surplus di curricula, succede che nelle redazioni entrino spesso due categorie di persone: chi riceve una raccomandazione e chi accetta compromessi sul salario al limite dello “stato servile”. In questo secondo caso, l’alternativa è fra avere una famiglia che ti mantiene per perseguire il tuo sogno o accettare di non poter essere autosufficiente come giornalista e vivere con un secondo (se non terzo) lavoro. Posso definirmi parte di quest’ultima categoria. Vedendola inizialmente come una limitazione, lavoravo part time per mantenermi e accettavo al contempo ogni occasione di collaborazione giornalistica, anche le più svilenti dal punto di vista economico.

Ho poi scelto di essere libero professionista anche nella vita extra-giornalistica, per essere padrone del mio tempo e dargli un valore. Perché sì, nonostante il pensiero di tutti – nessuno escluso – gli editori italiani, il tempo di noi giornalisti ha un valore. Purtroppo, ho dovuto apprenderlo svolgendo una professione diversa. Ora però – pur continuando a collaborare con un’importante testata per pochi spiccioli, perché dove hai la firma, ancora qualcosa conta – accetto altre collaborazioni solo se debitamente pagate. Il fatto che tanti, troppi, siano portati ad accettare condizioni di lavoro scandalose, ha dato il via ad un circolo vizioso per cui nessuno più ti paga per quanto vali. Per me oggi questo significa rinunciare a parte delle opportunità di collaborazione, ma far capire che non ho bisogno dei pochi euro che mi vengono offerti. In questo 1° maggio posso dire che preferisco sostenermi in un altro modo – facendo il giornalista quando voglio e alle condizioni che ritengo accettabili (secondo la mia scelta, per citare la Costituzione) – ma mantenere intatta la mia dignità senza svenderla.

Ultima modifica: Sab 5 Mag 2018