Le sfide del lavoro nella società globale

Anche oggi, in questa rubrica #deskdelladomenica, vi proponiamo per la lettura (o ri-lettura) un brano della rivista Desk dedicata al lavoro (2017). L'autore è Leonardo Becchetti, professore ordnaeio di Economia politica all'Università di Roma Tor Vergata.

Leonardo Becchetti (2017)

L’osservazione della realtà sociale in cui viviamo richiede sempre un equilibrio tra tre registri: quello della gratitudine, della denuncia e della speranza.

Il registro della gratitudine ci suggerisce che viviamo un’epoca straordinaria, nella quale possiamo godere della fatica e dei progressi nelle conoscenze (per definizione non reversibili) di tutte le generazioni che ci hanno preceduto. Nessuna generazione ha mai avuto, grazie alle scoperte del passato in campo medico di cui oggi possiamo godere, la possibilità di vivere così a lungo (l’aspettativa media di vita nel nostro Paese è più di due volte superiore a quella dell’anno dell’unità d’Italia). La tecnologia ci mette inoltre a disposizione possibilità straordinarie, inimmaginabili sino a qualche tempo fa, e la creazione della rete è una rivoluzione così profonda da segnare un confine preciso tra le generazioni che la seguono e quelle che la precedono.

Nonostante questi fatti straordinari, siamo tutti testimoni di una percezione diffusa di insoddisfazione e di disagio, che ha una duplice origine. Una di queste è di carattere spirituale, in quanto troppo spesso le possibilità della tecnologia producono un malinteso senso di autosufficienza e fanno perdere agli uomini e alle donne dei nostri tempi la percezione della loro creaturalità e bisogno di vivere in qualità le relazioni interpersonali e la dimensione di fede (come approfondito magistralmente nella Laudato Si’). Al di là di questo problema profondo, una causa assolutamente tangibile e decisiva del malessere contemporaneo riguarda però la dimensione del lavoro, che non è più quello di una volta e, come tale, essendo per la gran parte della popolazione la principale fonte di reddito, incide in modo negativo sul benessere economico e sulla possibilità di sfuggire al bisogno e al rischio di finire sotto la soglia di povertà.

Nel recente rapporto della fondazione Hume si parla efficacemente di “tre società del lavoro”, formate ciascuna da una quota quasi eguale di cittadini del Paese (circa nove milioni). La prima società è quella dei dipendenti pubblici e delle grandi imprese private, che vivono ancora condizioni di lavoro stabili o relativamente stabili (nella misura in cui le grandi imprese private mantengono il loro vantaggio competitivo nei rispettivi mercati). La seconda società è quella dei dipendenti delle piccole imprese e dei lavoratori autonomi. Questa seconda società del lavoro inizia a soffrire pesantemente condizioni di fragilità, precarietà e incertezza. La terza società è quella dei disoccupati e degli inattivi (coloro che non cercano attivamente lavoro, in parte perché non sperano di trovarlo). Questa classificazione, pur con i suoi limiti, ci aiuta molto a capire che quasi due terzi della società del lavoro vivono in condizioni di disagio o non sentono un terreno sicuro sotto i loro piedi. E ci fa comprendere, altresì, perché in questa particolare fase storica la globalizzazione corre il rischio dell’insostenibilità politica, con un malcontento che alimenta pulsioni e tentazioni populiste e sovraniste.

La radice di questa difficoltà sta nelle due sfide formidabili che il lavoro oggi vive nel nostro Paese. Quella dei milioni di esseri umani che costituiscono il vero e proprio ”esercito di riserva” di chi vive con meno di un dollaro al giorno o poco più, ed è dunque disposto ad offrire il proprio lavoro a salari molto più bassi di quelli a cui le generazioni passate di lavoratori erano abituate a percepire nel nostro Paese. La seconda è quella della nuova accelerazione dell’automazione del lavoro prodotta dalla quarta rivoluzione industriale che, dopo quelle delle macchine a vapore, dell’elettricità e della rete sta eliminando tipologie di lavoro (di carattere routinario ma non solo) che le macchine e i robot possono fare bene come gli esseri umani.

I segni della durezza di questa sfida si possono misurare con mano in tante dolorose storie di diritti negati, di arretramento delle condizioni di lavoro e salariali, che hanno contribuito a far aumentare in maniera molto significativa la quota di italiani sotto la soglia di povertà (quasi 4 milioni e mezzo). E hanno fatto emergere una classe prima sconosciuta, quella dei lavoratori poveri o “work poor” che, nonostante abbiano un posto di lavoro, non riescono per via della paga esigua a superare la soglia di povertà e hanno pertanto contestualmente bisogno di assistenza.
Il quadro difficile e le due drammatiche sfide che stiamo vivendo (lavoro a basso costo dei poveri globali e industria 4.0) implicano che saremo condannati ad avere sempre meno lavoro? Assolutamente no.

Come le tre rivoluzioni industriali del passato, anche la quarta non ci condanna alla fine del lavoro ma elimina solo una serie di lavori (spesso ripetitivi ed usuranti). O meglio, non ci condanna alla fine del lavoro se, come accaduto nel passato, saremo capaci di tassare e redistribuire la maggiore ricchezza creata generando benessere diffuso, che si tradurrà in domanda di nuovi beni e servizi. Vista nella prospettiva della sfida tecnologica, la soluzione della questione del lavoro non è dunque bloccata da insormontabili vincoli ma dipende dalla capacità della comunità umana di affrontare e superare il tema delle diseguaglianze, della distribuzione e di un’equa tassazione, non ultima quella delle grandi imprese globali che competono ad armi non pari con le piccole e medie imprese non internazionalizzate, potendo sfuggire quasi sempre al prelievo fiscale degli stati in cui producono, creano lavoro e vendono beni.

Neppure la seconda sfida, quella della concorrenza degli ultimi e dei diseredati ai lavoratori del nostro Paese, ci condanna alla fine o alla precarizzazione del lavoro. Questa particolare sfida in realtà allinea oggi il nostro imperativo morale (l’opzione preferenziale per gli ultimi) con il destino e la promozione del buon lavoro nel nostro Paese. Per realizzare entrambi è, infatti, necessario migliorare le condizioni degli ultimi e puntare su fattori competitivi non delocalizzabili.

Le grandi sfide che stiamo vivendo si vincono “insieme” e non “contro”. Alla rabbia che alimenta la visione dell’“uno meno uno uguale zero” ovvero della società ed economia come lotta tra homines hominibus lupi che si contendono le fette di una torta a dimensione fissa, bisogna contrapporre la visione dell’“uno più uno fa tre”, ovvero la legge della fertilità sociale ed economica delle comunità umane: questa insegna anche storicamente che, laddove si è stati capaci di fare rete (sviluppando fiducia, meritevolezza di fiducia e cooperazione) superando paure e diffidenze, si sono generati molto più capitale sociale, opportunità economiche, solidarietà e posti di lavoro.

Piste di soluzione

L’Italia in Europa
Un primo ambito fondamentale da affrontare per dare risposte al problema del lavoro che affligge tanti membri della nostra comunità è quello europeo. Ci sono molte analogie tra i rapporti tra le persone e quelli tra gli stati. Anche per i secondi come per le prime, la via della generatività spirituale, umana e sociale consiste nel fare una scelta di campo e orientare il proprio stile di azione ai principi della fiducia, meritevolezza di fiducia e cooperazione, in modo da mettere in moto i meccanismi della superadditività (uno più uno fa tre) rifiutando la visione erronea di un’economia come un gioco a somma zero, dove persone e stati si combattono per contendersi fette di una torta fissa ed immutabile. Se vogliamo che il contesto europeo sia propizio alla soluzione del problema del lavoro dobbiamo, pertanto, superare due visioni, entrambe semplicistiche. La prima è quella della tentazione che esista una scorciatoia per risolvere tutti i nostri problemi, rappresentata dall’uscita unilaterale dall’euro e dai nostri impegni europei. L’altra è che il modello dell’eurozona, rimasto in mezzo al guado e non ancora giunto ad un’integrazione matura e ad una condivisione di risorse e rischi, possa così com’è ritenersi adeguato e che gli attuali rapporti tra i paesi membri rappresentino un modello ideale non migliorabile.

Quanto al primo punto, l’euro è un mezzo e non un fine e, come tale, non può diventare un idolo da difendere a prescindere dalla finalità di tutti gli strumenti economici, che deve essere quella del bene comune. È però altrettanto acclarato da tutti gli studi e le ipotesi sugli scenari dell’uscita che i fattori di rischio sarebbero tali e tanti da non rendere tale ipotesi praticabile e desiderabile. Quanto al secondo punto, il nostro Paese deve continuare a lavorare in ambito europeo per arrivare ad un livello più spinto d’integrazione, di condivisione di risorse e rischi, tale da poter innescare fertilità economica e generare risorse importanti per la soluzione del lavoro.

Da questo punto di vista, i temi cruciali in agenda sono quelli delle politiche d’investimento europee e della condivisione dei rischi finanziari (assicurazione comune dei depositi, eurobond, soluzione europea al problema dei crediti deteriorati del sistema bancario). Si tratta, in tutti questi casi, non solo di soluzioni tecniche ma anche e soprattutto di segnali di fiducia, cooperazione ed integrazione che testimonierebbero un livello più avanzato nelle relazioni tra i Paesi membri e scalderebbero così i cuori dei cittadini europei, riducendo la percezione fortemente critica che oggi hanno delle istituzioni europee.

Le debolezze del sistema Paese
Nei momenti più difficili della crisi finanziaria del Paese, con lo spread (la differenza tra i rendimenti dei titoli italiani e i titoli tedeschi) a livelli elevatissimi, che mettevano a rischio la tenuta del debito pubblico, fu pubblicata una lista di 50 spread di economia reale tra Italia e Germania, che intendevano sottolineare come la debolezza finanziaria del Paese dipendesse da quei ritardi e debolezze dell’economia reale. La lista dei 50 spread identificava, così, le dimensioni principali del ritardo del nostro sistema Paese e gli ambiti su cui la nostra comunità doveva lavorare per creare un ambiente socioeconomico in grado di rispondere alla sfida della crisi e creare buon lavoro.

Tra i 50 spread, ricordiamo in particolare la durata delle cause civili, il ritardo digitale, l’inefficienza della burocrazia e molti altri fattori, su cui il ritardo non è stato ancora colmato. Si tratta, in tutti questi casi, di fattori che rendono particolarmente difficile fare impresa ed investire nel nostro Paese e, dunque, riducono le possibilità di investimento nel futuro e di creazione di lavoro. Avere a riferimento questi indicatori per misurare la bontà dello sforzo di cambiamento del sistema Paese appare quanto mai opportuno.

Il problema dei piccoli in economia
Le imprese sotto i 10 addetti (micro e piccole imprese e imprese artigiane) rappresentano il 94% delle unità produttive del Paese e il 49% circa degli occupati. Sono una realtà tradizionalmente sottorappresentata nei gruppi di potere, nei mezzi di comunicazione e in politica, e sono oggi la porzione più in difficoltà ed in sofferenza del Paese. Se, infatti, dopo la crisi finanziaria globale l’accesso al credito del sistema produttivo sta migliorando (con tassi di variazione positivi dei crediti ottenuti) per le imprese medio-grandi, la divaricazione con le piccole appare marcata, visto che per loro i dati indicano che il credito continua a diminuire.

Le piccole imprese e le artigiane soffrono, inoltre, i ritardi nei tempi di pagamento con la Pubblica Amministrazione e con le altre imprese di cui sono spesso fornitrici, e questi ritardi di pagamento creano problemi di liquidità e necessità d’indebitamento che viene soddisfatta a fatica. Un’infanzia felice aiuta a diventare buoni adulti anche in economia. In tutti i maggiori Paesi ad alto reddito esistono iniziative specifiche a favore della piccola impresa, che ne curano i fattori di fragilità favorendone la crescita con effetti importanti nei confronti dell’occupazione (vedasi lo Small Business Act negli Stati Uniti). Essere a favore del lavoro e dei piccoli vuol dire oggi anche colmare questo gap di rappresentazione e rispondere a questa sofferenza che ha, tra l’altro, pesato in modo importante sulla crisi di consenso di partiti e coalizioni di governo.

Il problema dell’elusione fiscale
La nuova rivoluzione industriale (4.0) e l’avvento di colossi globali della rete sta ulteriormente concentrando la ricchezza nel mondo. Come abbiamo spiegato, queste rivoluzioni non implicano la fine del lavoro né, in principio, l’impossibilità di raggiungere la piena occupazione. Perché ciò sia ancora possibile è però fondamentale un sistema fiscale globale che funzioni e che redistribuisca la maggiore e più concentrata ricchezza in modo diffuso nella popolazione. Solo in questo caso ciò stimolerà una domanda diffusa e renderà possibile la creazione di nuovi lavori e professioni per le quali esisteranno opportune domande. È per questo motivo che istituzioni internazionali, governi e cittadini di quasi tutti i Paesi del mondo ritengono oggi fondamentale combattere i processi di elusione, attraverso i quali i colossi globali spostano verso paradisi fiscali gli utili di attività realizzate nei Paesi in cui non vogliono essere tassati.

Una delle conseguenze negative, forse non sempre visibili, di questi comportamenti, leciti ma immorali, è la concorrenza sleale che questi attori fanno alla grande moltitudine di piccoli e medi produttori, che non dispongono delle stesse opportunità e tecniche di elusione. Al di là dei primi successi che la magistratura dei maggiori Paesi ad alto reddito sta ottenendo contro le pratiche di elusione, una risposta efficace all’emergenza lavoro passa, dunque, anche attraverso la capacità dei governi nazionali di affrontare questo importante problema.

Uno strumento informativo per aiutare i cittadini a premiare le migliori pratiche
Viviamo in un sistema economico che ha messo al centro il benessere del consumatore e che ha realizzato gli obiettivi che si poneva. La nostra generazione ha a disposizione mai come prima un’immensa quantità e varietà di beni e servizi, molti dei quali disponibili a costi incredibilmente modici e inferiori a quanto ciascuno di noi sarebbe disponibile a pagare. Questo beneficio potenziale, di cui tutti godiamo, nasconde però molto spesso un’altra faccia della medaglia. L’aver subordinato all’obiettivo del benessere del consumatore le ricadute sull’ambiente e sul lavoro ha infatti comportato spesso la compressione delle tutele e dei diritti di un’attività (come quella del lavoro) su cui si fonda una parte fondamentale della realizzazione della persona. I due fenomeni sono spesso (anche se non sempre) strettamente collegati, perché dietro un prezzo molto basso - possibile grazie alla concorrenza tra le imprese, che avviene anche attraverso la compressione dei costi - può nascondersi l’umiliazione del lavoro.

Come già più volte sottolineato dalla dottrina sociale della Chiesa, possiamo tutti contribuire a correggere questa distorsione, iniziando dal prendere coscienza del fatto che siamo noi stessi dai due lati del problema. Da una parte, infatti, siamo quei consumatori che beneficiano di un’incredibile varietà e qualità di beni e servizi a basso costo, dall’altra siamo quei lavoratori che soffrono la precarizzazione e la svalutazione dell’opera che prestiamo. Alla presa di coscienza può e deve far seguito - come più volte sottolineato dalle ultime encicliche sociali - la consapevolezza che le nostre scelte di consumo e di risparmio possono essere orientate ad un magis e ad una maggiore ricchezza di senso se, quando consumiamo e risparmiamo, impariamo a premiare le imprese leader nella creazione di valore economico socialmente ed ambientalmente sostenibile.

In questo caso, la nostra scelta (un vero e proprio voto col portafoglio) non ha soltanto il già importante valore di testimonianza o di gesto simbolico ma può, se coordinata con quella di altri individui, diventare fattore di contagio e contribuire in modo importante al cambiamento del sistema. Le tecnologie oggi a disposizione rendono non lontano un giorno nel quale i cittadini avranno a disposizione applicazioni sui loro cellulari, in grado di informarli istantaneamente sulla valutazione non solo della qualità dei prodotti ma anche della dignità del lavoro e della sostenibilità ambientale che essi incorporano.

Ultima modifica: Sab 5 Mag 2018

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