La giustizia raccontata dai giornalisti

Oggi, in #deskdelladomenica, torniamo a proporre un articolo dell'ultimo numero della nostra rivista Desk, dedicato al tema 'Raccontare la Giustizia'.

Marica Spalletta

Nel corso dell’ultimo decennio, complice quel processo di ibridazione che ha investito i fenomeni giornalistici nel loro complesso, il racconto giornalistico è profondamente mutato, e questa trasformazione ha riguardato tutto il processo di selezione, gerarchizzazione e interpretazione delle notizie, mettendo in discussione la tradizionale distinzione delle notizie in generi –, per non dire delle modalità di fruizione, per cui si assiste oggi a un consumo di notizie sempre più “occasionale”, nel senso che è cresciuta a dismisura la possibilità di imbattersi in determinate tipologie di argomenti anche all’interno di contesti non necessariamente giornalistici.

Da questa trasformazione, che come detto investe i fenomeni giornalistici nel loro complesso, non risulta affatto immune neppure il tema della giustizia, la cui centralità nel racconto giornalistico appare direttamente proporzionale anche alla sua capacità di rispondere alle esigenze di un giornalismo sempre più ibrido: di giustizia si parla infatti con riferimento all’ambito più tradizionale, rappresentato dalla cronaca giudiziaria, al cui interno rientrano anche i casi cosiddetti di “mala giustizia”; la giustizia è altresì un tema centrale del racconto politico, non fosse altro perché il problema della sua amministrazione ha rappresentato per più di un ventennio un terreno di scontro tra i diversi attori politici; il tema della giustizia ben si presta, infine, alla rappresentazione televisiva, che nei cosiddetti “processi in tv” trova la propria celebrazione. Persino quando si parla di sport il tema della giustizia vanta una propria indiscussa centralità, se consideriamo che – negli ultimi anni – scrivere, per esempio, di calcio ha sovente imposto ai giornalisti di fare i conti con il glossario tipico della “giudiziaria”.

La permeabilità del tema “giustizia” rispetto alle esigenze tipiche di un giornalismo sempre più ibrido, e la conseguente centralità del suo racconto, trova altresì conferma quando ci si sposta dal piano dei contenuti a quello dei formati. Tutti noi siamo soliti contestualizzare il racconto della giustizia nei contesti giornalistici tipici del quotidiano (cartaceo o online), oppure del tele/radiogiornale; negli ultimi anni, tuttavia, il racconto della giustizia ha sovente travalicato questi confini, per approdare all’interno di contenitori assai meno “informativi”, a cominciare da quell’intrattenimento televisivo (collocato soprattutto nella fascia pomeridiana feriale) dove questo tema rappresenta uno straordinario strumento per toccare le corde più profonde dell’interesse del pubblico, intercettando così il valore notizia probabilmente più significativo di questo tempo, ovvero lo human interest.

È nello scenario così descritto che si colloca questa ricerca, che si propone di capire cosa significa raccontare oggi la giustizia, assumendo come prospettiva quella dei professionisti dell’informazione. A tal fine, è stata realizzata una serie di interviste a giornalisti che nella loro attività professionale si occupano di giustizia, distinguendoli con riferimento al particolare “rapporto” che li lega a questo tema: da una parte, dunque, giornalisti che vivono l’esperienza quotidiana del racconto della giustizia, dall’altra parte giornalisti che, proprio in ragione della loro attività professionale, sono diventati essi stessi protagonisti del racconto della giustizia. Per la prima categoria i giornalisti intervistati sono Giovanni Bianconi (Corriere della Sera), Carlo Bonini (La Repubblica), Toni Mira (Avvenire), Valeria Pacelli (Il Fatto Quotidiano) e Sigfrido Ranucci (Rai), cui si aggiunge Federica Angeli (La Repubblica) in rappresentanza della seconda categoria.

Cosa vuol dire “giustizia” e come è cambiato il suo racconto
Dalle risposte degli intervistati emerge una definizione di “giustizia” assai ampia ed eterogenea, e che abbraccia al proprio interno fenomeni diversi: da una parte, come rimarcato da Bianconi, Mira, Ranucci e Pacelli, c’è senz’altro il funzionamento del meccanismo della giustizia, quella macchina che, secondo Ranucci, dovrebbe «porre il timbro di qualità di una società» e il cui operato è «essenziale per il funzionamento di un Paese». Questa idea di giustizia trova nel procedimento penale la sua perfetta esemplificazione, e il racconto della cronaca giudiziaria appare tanto più fondamentale e irrinunciabile poiché, come rimarca Bianconi, attraverso di esso l’opinione pubblica esercita la propria «funzione di controllo sul funzionamento della giustizia».

Dall’altra parte, osserva Toni Mira, il termine “giustizia” rimanda anche a una seconda dimensione, meno legata al racconto «prettamente tecnico della magistratura e delle inchieste» e, al contrario, più centrata sulla «giustizia con la “G” maiuscola»; in questa seconda prospettiva, parlare di giustizia significa raccontare «l’ingiustizia come negazione della giustizia», e su questo punto Angeli commenta come ciò che si trova a raccontare nelle sue inchieste sulla giustizia è spesso proprio l’ingiustizia. C’è, infine, un terzo aspetto che emerge nella definizione di giustizia, ed è quello su cui si sofferma Carlo Bonini, ovvero il legame tra giustizia e politica, che ha caratterizzato gli anni del cosiddetto “berlusconismo”, e delle connesse «politiche della giustizia».

Tutte e tre queste dimensioni, ad avviso dei nostri intervistati, presentano una propria evoluzione, che negli ultimi vent’anni è stata scandita da alcuni significativi passaggi.
Per quanto concerne il primo versante, Bianconi rimarca come, nel corso degli ultimi anni, i tempi della cronaca giudiziaria si siano sempre più dilatati, nel senso che oggi il suo racconto abbraccia tanto le fasi del processo quanto quelle delle indagini preliminari, con la conseguenza che sovente a passare in secondo piano è proprio la fase processuale rispetto a quella indagatoria: ogni intervento successivo, soprattutto se intercorso nella fase dibattimentale, «non viene più [infatti] raccontato con la stessa enfasi con cui era invece raccontato durante le indagini preliminari, perché passa il principio che ormai è una cosa nota, è un ritornare su un argomento già affrontato, e quindi è meno affascinante per l’informazione».

Sempre restando sul primo versante, gli intervistati notano come si sia assistito a un progressivo impoverimento del racconto della giustizia, che si è fatto sempre più dipendente dai documenti ufficiali, laddove invece – ammonisce Pacelli – «raccontare la giustizia non può ridursi alla semplice pubblicazione degli atti giudiziari». A farne le spese è stato chiaramente il giornalismo di inchiesta, e dai nostri intervistati si leva un corale auspicio affinché possa esserci una inversione di rotta in tal senso, restituendo alle inchieste il ruolo centrale che esse vantano in ogni giornalismo che voglia essere veramente al servizio della democrazia e della crescita sociale e culturale di un Paese.

Il richiamo al giornalismo d’inchiesta rappresenta altresì il trait d’union tra la prima e la seconda definizione di “giustizia”: nel momento in cui si fanno sempre meno inchieste, anche il racconto della giustizia con la “G” maiuscola finisce infatti per essere impoverito, perché – come afferma Mira - «se uno non va in giro, non si accorge della mancanza di giustizia». Al contrario, un Paese come il nostro, dove regna un’«illegalità diffusa», per usare le parole di Bonini, avrebbe quanto mai bisogno di un giornalismo “ricco” di tutto quell’arsenale di strumenti utili ad assolvere al proprio ruolo sociale.
Il tema dell’illegalità costituisce a sua volta l’anello di congiunzione tra la seconda e la terza dimensione del concetto di “giustizia”, ovvero quella relativa alla contaminazione con la politica cui faceva esplicito riferimento Bonini. A suo avviso, infatti, la fine del berlusconismo ha coinciso con la presa di coscienza di aver congelato per più di vent’anni le questioni relative alla gestione dei processi penali in primis, ma anche civili e amministrativi, nonché di non aver saputo prevedere «meccanismi di responsabilità alternativa rispetto a quella penale» in grado di incidere positivamente sull’illegalità diffusa. L’aver preso coscienza del grave ritardo in cui si trova la giustizia oggi non ha tuttavia sortito effetti positivi perché, aggiunge Bonini, ancora oggi permane in Italia la sensazione di una «impossibilità strutturale e antropologica di discutere di giustizia, di riforma della giustizia, di processo penale, in modo non partigiano», il che a suo avviso conferma che l’intrinseco legame tra politica e giustizia radicatosi negli anni nel nostro Paese è ben lungi dall’essere dissolto.
C’è, infine, un ultimo elemento di novità che ha contraddistinto l’evoluzione del racconto sulla giustizia, ed è quello relativo alla professione. Nulla quaestio, infatti, che il giornalista che si occupa di giustizia è, al pari di qualsiasi altro giornalista, un “cercatore di verità”, come ben spiega Ranucci richiamando una propria esperienza personale legata a un’inchiesta realizzata per Report: «grazie a una fonte e a un’attenta lettura degli atti giudiziari, mi sono messo sulla pista giusta per ritrovare capolavori stimati in 60-100 milioni di euro [«i quadri di Tanzi che erano sfuggiti alle indagini di 2 procure e dell’agenzia investigativa più potente al mondo, la Kroll»] e restituirli agli azionisti frodati».
Nel suo essere “cercatore di verità”, anche il giornalista che si occupa di giudiziaria è stato investito dai cambiamenti che sono intercorsi nei fenomeni giornalistici negli ultimi due decenni. Da una parte, infatti, rimarca Pacelli come il giornalista che si occupa di giustizia ha dovuto fare i conti con l’evoluzione del giornalismo nel suo complesso, e in primis con una sensibile contrazione dei tempi e un contestuale incremento esponenziale sul versante della produzione della notizia. Per parte sua, Angeli aggiunge come oggi i giornalisti tendano a usare la giustizia «ovvero le indagini, gli avvisi di garanzia, le ordinanze, sovrapponendosi e imponendo una propria linea accanto a quella dei magistrati»; come se non bastasse, i giornalisti appaiono sempre più «a caccia del dettaglio scabroso, dell’intercettazione imbarazzante anche se penalmente non rilevante» e si comportano in tal modo facendosi «scudo del fatto che “lo hanno scritto i magistrati”».

Il rapporto con le fonti
Tutti i giornalisti intervistati rimarcano come il racconto della giustizia non possa prescindere da quel dovere di verifica delle fonti che contraddistingue il giornalismo nel suo complesso, e questo a prescindere dal fatto che in questo caso le fonti sono in primis autorità giudiziarie e forze dell’ordine.
A questo si aggiunge il doveroso rispetto della segretezza della fonte, che è il pilastro su cui si fonda quella necessaria fiducia («il rapporto con la fonte deve essere improntato alla fiducia reciproca», afferma Pacelli) in assenza della quale nessun giornalista, e men che mai un giornalista di giudiziaria, potrebbe svolgere il proprio lavoro. Occorre dunque tutelare sempre la fonte, ma anche evitare – e qui veniamo a una peculiarità tipica del racconto della giustizia – una eccessiva dipendenza dalla fonte stessa. Rischio che, come rimarcano sia Bonini che Bianconi, emerge soprattutto quando i documenti giudiziari sono ancora protetti dal segreto istruttorio; in questa fase, infatti, Bonini ricorda come sia quanto mai elevato il rischio di «essere in qualche modo orientati e governati eccessivamente dalla fonte, perché essa è in possesso di elementi strumentali da poter eventualmente selezionare i modi, i tempi e l’oggetto di una cosiddetta “fuga di notizie”».

Se, dunque, di primo acchito non sembrerebbero esserci differenze strutturali tra un giornalista che si occupa di giustizia e il giornalista tout court, se si va a scavare, a emergere sono quanto meno delle peculiarità o, meglio, dei problemi con cui il giornalista che si occupa di giustizia si trova sovente a dover fare i conti. In primis per quanto concerne l’accesso alle fonti. Come infatti osserva Ranucci, si tratta di un processo che «nel corso degli anni è diventato sempre più complicato e costoso», anche a causa dell’«inserimento di regole sempre più stringenti per l’accesso alla documentazione, che hanno reso più difficile il racconto dei fatti da parte dei cronisti». Tale scelta, continua Ranucci introducendo un tema che ritroviamo, per esempio, anche nella risposta di Bianconi, appare tanto più sbagliata poiché essa non ha sortito neppure l’unico effetto che avrebbe dovuto garantire, ovvero porre un freno al «fenomeno della divulgazione “sottobanco” delle carte giudiziarie», tale per cui «se non hai l’avvocato o il cancelliere o procuratore amico rischi di perdere settimane per correre appresso a un verbale di cui hai bisogno». Proprio alla luce di tutto ciò, rimarca Bianconi, va senz’altro visto con favore il nuovo decreto sulle intercettazioni che, riconoscendo ai giornalisti la possibilità di accesso diretto ai documenti (e in particolare a quelli relativi alla custodia cautelare), va a incidere su quel «mercato nero» delle fonti con cui i giornalisti di giudiziaria devono quotidianamente fare i conti.
Il discorso relativo alle fonti si completa, infine, con quanto richiamato da Mira a proposito della “memoria”: i tempi di un giornalismo sempre più veloce hanno infatti reso sempre più difficile tramandare, all’interno delle redazioni, la memoria delle fonti e, in particolare, della loro affidabilità, il che va chiaramente a discapito dei colleghi più giovani e, in genere, di chi si trova a dover trattare per la prima volta una notizia di giustizia: a venir meno è infatti il ricordo, e in assenza di esso, cresce il rischio di incappare in una fonte non affidabile o attendibile.

Il confine tra giustizia e giustizialismo
Un’altra questione che è stata affrontata nelle interviste riguarda il rapporto tra il racconto della giustizia e la tendenza al giustizialismo, quest’ultimo esemplificazione – come sostiene Bonini – di quello «sbilanciamento delle cronache giudiziarie tale per cui, normalmente, la parte del leone viene attribuita alle fonti della pubblica accusa o alle fonti di polizia piuttosto che alle fonti della difesa».
Gli intervistati concordano sul fatto che tra giustizia e giustizialismo vi sia una linea di confine che, se in teoria dovrebbe essere netta, nella pratica, osserva Pacelli, risulta invece quanto mai «labile, e spesso la si supera senza neanche accorgersene», e questo sia per motivi legati alle routine produttive («le giornate sono spesso frenetiche, si vive con l’ansia di dover andare in edicola e quindi non ci si ferma a pensare veramente a che tipo di storia si ha davanti») che a quella naturale propensione dell’essere umano a «puntare il dito contro, dimenticando sovente di avere comunque di fronte un uomo», soprattutto quando si ha a che fare con persone accusate di reati particolarmente gravi («è chiaro che il mafioso non lo si guarderà con lo stesso occhio con il quale si guarda il ladro di galline»).

Per uscire da questa impasse, sostengono Mira e Bianconi, è necessario che i giornalisti non perdano di vista i pilastri su cui si fonda la propria professione: da una parte, la distinzione netta tra fatti e opinioni, tanto più irrinunciabile perché, come rimarca Mira, non bisogna mai dimenticare che «la giustizia non è fatta solo a tutela delle vittime, ma anche a tutela dei presunti responsabili, per cui, fino all’ultimo grado di giudizio, la persona è innocente». Dall’altra parte, la necessità di non scadere mai nell’assertività, che – secondo Bianconi – si ha «nel momento in cui il racconto dei fatti non viene più rappresentato come visione di parte dell’accusa, ma come fatto in sé, come fatto accertato, [...] senza mettere in guardia il lettore che quella è comunque una ricostruzione»; un rischio che si può tuttavia ridurre, sostiene Ranucci, non smettendo mai di chiedersi «se i fatti raccontati rappresentano una verità assoluta e se quello che stiamo raccontando sta distruggendo irrimediabilmente l’immagine di una persona».
Di qui, dunque, l’invito di Angeli affinché i giornalisti tornino alla loro «funzione, che è quella di informare e non di strumentalizzare a fini politici la giustizia», cominciando per esempio con il non trasformare sistematicamente «un avviso di garanzia (ovvero, lo dice la parola stessa, una forma di garanzia e di diritto alla difesa per chi finisce al centro di una indagine) in una condanna passata in giudicato».

“Buone notizie” vs “cattive notizie”
Un’altra questione affrontata nel corso dell’intervista riguarda la distinzione tra “buone notizie” e “cattive notizie”. Anche in questo caso, le risposte dei giornalisti introducono molteplici e diversi temi di riflessione.
In primo luogo, per quanto concerne la definizione di “buona notizia”: secondo Bianconi, nella cronaca giudiziaria una “buona notizia” è certamente la scoperta dei responsabili di un reato, ma di “buona notizia” si può parlare anche quando un commerciante denuncia una vicenda di estorsione oppure quando in famiglia si ha il coraggio di rendere pubblici alcuni «reati socialmente odiosi». È dello stesso avviso anche Mira, a detta del quale una “buona notizia” coincide certamente «quando giustizia si fa, il che non vuol dire solo quando si individuano i colpevoli, ma anche quando la magistratura scopre che una persona non c’entra nulla con un determinato reato»; ma una “buona notizia” è anche «raccontare che, là dove si ritiene che tutto vada male, c’è anche qualcuno che fa bene. E quando qualcuno lotta per la giustizia (quella con la “G” maiuscola) non solo è una buona notizia, ma è una notizia».

Questa considerazione ci introduce a un secondo aspetto su cui si soffermano gli intervistati, ovvero quale spazio trovano oggi nel racconto giornalistico le “buone notizie”: uno spazio che, a detta dei più, tende a essere limitato («a essere sincero, l’ultima buona notizia che ho letto sul tema della giustizia neanche me la ricordo», ammette Bonini), e questo perché nel giornalismo vale sempre il vecchio motto secondo cui “bad news is good news” e di conseguenza, come ammette Pacelli, la verità è che «la buona notizia non fa notizia». Il fatto che le buone notizie siano meno notiziabili delle cattive notizie (e di conseguenza meno interessanti per il pubblico) non deve tuttavia diventare un alibi dietro cui trincerarsi: al contrario, afferma perentorio Mira, «uno spazio per le buone notizie deve esserci», perché a essere sbagliata a monte è l’idea che al pubblico interessi solo ciò che è violento e sanguinolento.
Il fatto che ci sia uno spazio per le buone notizie (a cominciare, come si diceva poc’anzi, dalla scoperta della non colpevolezza di un indagato/imputato) non significa tuttavia che il racconto della cosiddetta “giustizia riparativa” sortisca gli stessi effetti sul pubblico, e questo perché – come osserva Angeli – «quando nell’opinione pubblica si sedimenta un’idea», lo spazio stesso per una giustizia riparativa (ovvero «un racconto che rimedi al danno fatto sparando a zero e gonfiando mediaticamente un’inchiesta, che poi si risolve con un’assoluzione o un non luogo a procedere») tenderà naturalmente a contrarsi, se non addirittura a non esistere affatto.

La giustizia oltre i confini del giornalismo
Da questo punto di vista, il tema relativo alle buone/cattive notizie si intreccia inevitabilmente con quello legato ai cosiddetti “processi televisivi” e, in genere, a quella tendenza della giustizia, soprattutto sul piccolo schermo, di sconfinare all’interno di contesti non giornalistici.

Per quanto concerne i processi televisivi, essi vengono descritti dai nostri intervistati come «rappresentazioni teatrali particolarmente torbide, che certamente non aiutano la giustizia, né quella di tutti i giorni né quella più importante con la “G” maiuscola» (Mira), e nel contempo «processi sommari svolti da persone che in molti casi hanno una conoscenza limitatissima degli argomenti» e che sovente affidano al giornalista il ruolo del pubblico ministero, il che «snatura il ruolo stesso del giornalista» (Bianconi).

Con riferimento invece alla seconda questione, Bonini osserva come, se da una parte essa rappresenta ormai una deriva inevitabile del racconto della giustizia, dall’altra parte proprio per questo motivo occorre oggi più che mai tenere distinte le due dimensioni: compito precipuo dei giornalisti deve dunque essere quello di offrire dei prodotti che il pubblico possa riconoscere come prodotto giornalistico, distinguendolo dunque da tutta quella «merce avariata» che è conseguenza senz’altro di una tendenza alla «rappresentazione della vicenda penale come puro intrattenimento». Ma perché ciò avvenga, è necessario restituire dignità e centralità alla mediazione giornalistica, tanto più in un’epoca storica in cui il successo della “disintermediazione” è direttamente proporzionale al suo essere percepita come un’«affermazione di libertà».

Quale informazione sulla giustizia servirebbe
La risposta a questa domanda, secondo i giornalisti, è incredibilmente semplice (servirebbe infatti di fare i giornalisti) e nel contempo complessa quanto alle possibili ricette.
Secondo Toni Mira servirebbe certamente un racconto della giustizia «molto ancorato sui fatti», ma prima ancora un «giornalismo che vada a cercare i fatti senza aspettare che qualcun altro li racconti», perché «solo questo è giornalismo». Alla centralità dei fatti si richiama anche Valeria Pacelli, che si augura un giornalismo più «oggettivo e libero» e, nel contempo, «indipendente nel rapporto con le fonti», avendo sempre a mente che «si scrive per i lettori, non per se stessi né per il proprio direttore o tantomeno per i propri amici». Secondo Bonini, il racconto della giustizia necessita più che mai di introdurre i doverosi elementi di complessità, che in termini pratici si traduce nella capacità di «fare la domanda che è in grado di mettere in crisi una certezza o di metterla quanto meno in discussione».

Il racconto dei fatti, aggiunge Bianconi, non dovrebbe mai perdere di vista la necessaria «continenza», che nella pratica si traduce nell’assunzione di un atteggiamento corretto e responsabile nei confronti dei fatti, e in cui l’interpretazione – che è una parte essenziale dell’attività giornalistica – deve essere sempre descritta per ciò che è, ovvero una «lettura dei fatti alla quale possono contrapporsi altre letture dei fatti». Correttezza, responsabilità, ma anche onestà, che per Bianconi è «la cifra che deve accompagnare sempre il giornalista, ancor più quando si parla di giustizia, e che rappresenta la chiave di volta perché egli possa avere, Bianconi si auspica in un futuro assai prossimo, «accesso a tutto ciò che non è segreto, quindi persino alle cose penalmente irrilevanti che emergono da un processo ma che possono avere una rilevanza sociale».
A emergere come necessità trasversale appare, dunque, un complessivo ripensamento delle modalità con cui i giornalisti si avvicinano alla loro professione e, nello specifico, al racconto della giustizia: come sottolinea Angeli, c’è bisogno che i giornalisti mettano da parte la tendenza a «ergersi a giudici» e scelgano invece di «informare con sobrietà, ricordando che un avviso di garanzia non è una condanna, che dopo il primo grado di giustizia esiste anche il secondo, ma soprattutto spiegando ai lettori quello che avviene nelle aule di giustizia». Per fare ciò, serve però una formazione specifica, sia sul versante dei contenuti che su quello, altrettanto strategico, dell’approccio alla notizia, in assenza del quale il racconto della giustizia è condannato a continuare a essere percepito come «strumentale e non veritiero».

Narratori di se stessi
Come si diceva in apertura di questo lavoro, nella scelta degli intervistati si è volutamente inserire nella rosa anche una giornalista che, proprio a causa del suo lavoro, è diventata lei stessa protagonista di vicende giudiziarie: dunque, una sorta di “narratrice di se stessa”. A Federica Angeli abbiamo chiesto se e come la sua esperienza personale abbia influito sulla sua attività professionale e in che modo l’abbia indotta/obbligata a dei cambiamenti.
La giornalista de La Repubblica non ha dubbi nell’affermare che la sua professione ha certamente «subìto un grave danno dal punto di vista del lavoro sul campo, che è quello che prediligo: quando penso a quando mi infiltravo in gruppi criminali per scoprire il traffico di armi a Roma, o in giri loschi che gestivano combattimenti clandestini di pitbull... oggi tutto questo non posso più farlo. Avendo una scorta h24 con me non sono più libera di girare».
Le rinunce cui è stata costretta costituiscono tuttavia solo un lato della medaglia, laddove l’altro è invece rappresentato dalla consapevolezza di aver svolto il proprio lavoro: «come dico sempre ai ragazzi che incontro nelle scuole, dal punto di vista psicologico le intimidazioni hanno solo rafforzato in me la certezza che avevo fatto centro, mi ero sporcata le mani sollevando quella coltre di omertà e guardando il male negli occhi, come ogni cronista deve fare».
Esattamente ciò che ogni giornalista dovrebbe sempre fare, perché, come ricorda Ranucci, «l’informazione ha un ruolo delicatissimo» e, aggiunge Angeli, un giornalista deve essere «lo strumento per fa conoscere ai nostri lettori cosa accade nelle aule e nei palazzi», che è cosa ben diversa dal ridursi a fare il «commentatore o l’interprete di cosa volevano dire i magistrati».

Ultima modifica: Dom 1 Lug 2018

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