Un altro modo di risolvere (e raccontare) i conflitti: al centro la persona e i diritti quotidiani.

Torna oggi la nostra rubrica #deskdelladomenica e anche in questo caso presentiamo un estratto dall’ultimo numero di Desk, dedicato al racconto giornalistico della giustizia. Lo ha scritto l’avvocato Paola Moreschini, segretaria dell’Osservatorio sui conflitti e sulla conciliazione.

Paola Moreschini

L’attenzione della società e dei mezzi di comunicazione è rivolta soprattutto ai fatti che rivestono rilievo penale, perché fanno più notizia e suscitano maggiore interesse e curiosità nei destinatari dei messaggi. Tuttavia è il settore della giustizia civile quello in cui si manifesta una maggiore e più diffusa conflittualità. Un tipo di conflittualità che spesso, però, resta sommersa perché non viene portata davanti ad alcun giudice o a qualsiasi altro soggetto che può aiutare a trovare soluzioni.

Una conflittualità della vita quotidiana che incide negativamente sul senso di comunità, e mette in discussione il valore del vivere comune.
I tribunali civili sono ingolfati di conflitti che nascono dalla vita e dalle relazioni quotidiane. Il più alto numero di controversie giudiziali promosse davanti al Tribunale di Roma ha per oggetto le liti condominiali, e sono in aumento i conflitti che riguardano i rapporti nell’ambito della famiglia, comprese le questioni ereditarie.

La domanda di giustizia che nasce dai conflitti quotidiani è quella che senza fare scalpore contribuisce ad una progressiva lacerazione delle relazioni e ad un allentamento dei legami e della coesione sociale. Ed il potere delle organizzazioni criminali nasce e si alimenta proprio in contesti nei quali è alto il tasso di litigiosità ed i rimedi ai conflitti sono cercati fuori del circuito della legalità.

Domandare giustizia non è solo chiedere allo Stato che i responsabili dei reati siano condannati e che scontino la pena che il giudice commina loro, ma è anche la pretesa di ogni cittadino a non subire danni a causa di servizi pubblici carenti e inefficienti, o di servizi privati gestiti con prassi vessatorie o poco trasparenti, la pretesa del lavoratore ad ottenere salari e compensi non pagati, quella del proprietario a riottenere ciò che altri detengono illegittimamente e quella di ogni persona a non dover subire pregiudizi causati da qualsiasi genere di comportamento arbitrario, anche se privo di rilevanza sul piano penale.

Quando parliamo di domanda di giustizia siamo portati a pensare solo al ricorso al Tribunale, alla richiesta fatta al giudice di emettere un provvedimento che condanni l’altra parte a pagare o a fare qualcosa. Ma in effetti la giustizia è qualcosa di più ampio del diritto, così come la vita è sempre eccedente rispetto alla legge.

Il fatto che la giustizia vada al di là del diritto è evidente, soprattutto, quando accade che qualcuno sfidi la legge dello Stato in virtù di una legge etica, o quando in regimi totalitari alcuni rischiano il carcere per difendere i diritti umani.

La giustizia comprende le regole, ma non si esaurisce in esse.
Così come per chiudere un conflitto non basta una sentenza.

Dopo l’emissione di un provvedimento definitivo del giudice che dichiara una parte vittoriosa e l’altra perdente il conflitto permane e può produrre altri procedimenti giudiziali. Si moltiplicano allora i contenziosi: da quello per ottenere l’esecuzione dell’ordine contenuto nella sentenza, a quello per chiedere la modifica del provvedimento del primo giudice, e a quello per avere misure urgenti per evitare che l’esecuzione della sentenza arrivi troppo tardi e non garantisca il risultato previsto.

Sarebbe opportuno cominciare ad insegnare alle persone, meglio se molto giovani, a riconoscere i conflitti per imparare a gestirli ed a risolverli facendo ricorso alle proprie risorse, e senza delegare subito la soluzione al giudice.

È possibile una differente cultura di gestione dei conflitti, che non sia quella fondata su concetto di guerra e di nemico? E che non usi una terminologia guerresca: “battaglia legale”, “armi processuali”, “strumenti difensivi”, “parte avversa”, “parte vittoriosa”, “parte soccombente”?
In molti casi, ovviamente non sempre, il conflitto può trovare una migliore soluzione attraverso la ricerca di un accordo, anziché attraverso una contrapposizione formale davanti al giudice. In un procedimento giudiziale, infatti, le posizioni si cristallizzano e si radicalizzano, e si concentrano sulle sole questioni di diritto, mentre si perde ogni eventuale e diversa possibilità di ricercare soluzioni alternative e soddisfacenti per le tutte persone coinvolte nel conflitto.

C’è un altro modo di risolvere i conflitti, ed è quello della mediazione, della conciliazione, del diritto collaborativo, dove non si nega il conflitto ma lo si riconosce, per comprenderlo, analizzarlo ed attraversarlo, recuperando la capacità di comunicazione con l’altra parte, che altrimenti resterebbe inibita, spesso per sempre. Si tratta di un altro modo di risolvere i conflitti che implica uno sforzo di cooperazione, il mettersi insieme per sconfiggere il problema anziché confliggere l’uno contro l’altro distruggendosi a vicenda.
Proporre, se e quando è opportuno, un percorso di mediazione per risolvere un conflitto significa aiutare la persona a compiere un processo di crescita che permette di comprendere che non esiste solo il proprio punto di vista, e di riconoscere il punto di vista dell’altro. E, spesso, attraverso la riapertura dei canali della comunicazione e la negoziazione tra le parti, guidate ed accompagnate dal mediatore, è possibile raggiungere soluzioni concordate, dopo un appropriato percorso negoziale volto a stabilire nuove regole.

Il conflitto può diventare una straordinaria occasione per compiere un processo di auto-responsabilizzazione.
Questo diverso modo di guardare ai conflitti implica la sollecitazione del senso critico, del pensiero laterale, della capacità di cogliere i diversi punti di vista e lo stimolo a ricercare soluzioni creative al problema che si deve risolvere.

I conflitti non sono né buoni né cattivi, sono un elemento normale della nostra esistenza, che attraversano la vita quotidiana di tutte le persone. Spesso sono il frutto dell’incapacità di dialogare, talvolta sono causati dall’atteggiamento ostile dettato quasi sempre dalla paura, oppure sono dovuti alla necessità di scaricare le tensioni su un nemico immaginario.
In questa prospettiva il conflitto non è qualcosa che deve necessariamente trasformarsi in un procedimento giudiziale, in una pratica burocratica che dovrà essere portata al giudice il quale, con tempi molto lunghi, legati all’enorme mole di cause pendenti, emetterà alla fine un verdetto che arriverà quando si saranno ormai perse le ragioni originarie della contesa, anche perché alcuni dei protagonisti del conflitto non ci saranno più. Una decisione che rischierà di calare dall’alto scontentando almeno una delle parti, e talvolta tutte.

C’è bisogno che ci sia sempre un giudice al quale potersi rivolgere perché, con la sua indipendenza e terzietà, è un baluardo posto a garanzia dei diritti di tutti.
Ma non sempre c’è bisogno che il giudice intervenga a dirimere un conflitto. Di fronte ad una litigiosità che viene sempre tradotta nel linguaggio giuridico e che produce una moltiplicazione dei contenziosi giudiziari, la risposta deve essere quella di una “giurisdizione minima” contro una giurisdizione tanto onnivora quanto inefficace.
C’è bisogno del giudice per tutte le posizioni che riguardano beni primari, quelli che si raccordano al concetto di dignità della persona ed ai diritti umani. C’è bisogno del giudice dove si registra una diseguaglianza di posizioni e si deve riequilibrare l’asimmetria di posizioni tra le parti. Serve il giudice dove sono in gioco questioni nuove nelle quali manca una disciplina normativa ed è chi interpreta le norme a dover dettare la regola del caso concreto.
Purtroppo, si è recentemente compreso che il processo non è l’unica soluzione per dirimere le liti. Ciò è avvenuto non a seguito di un percorso virtuoso di valorizzazione dei sistemi non contenziosi di soluzione dei conflitti, ma quasi esclusivamente per far fronte all’emergenza dell’intasamento della giustizia civile. E questo dice tutta l’insufficienza del nuovo tema della de-giurisdizionalizzazione, che se intesa come semplice deflazione del contenzioso giudiziale rischia di apparire come un respingimento della domanda di giustizia.
In verità non sono i conflitti ad essere funzionali al processo, ed alle sue logiche procedurali, ma è il processo a dover essere a servizio della domanda di giustizia e perciò delle persone.

La sfida attuale per gli operatori del diritto è quella di comprendere quale è il nuovo perimetro della giurisdizione, considerando anche che la giurisdizione è una risorsa limitata, come l’acqua e tutti i beni pubblici, ed occorre farne buon uso e non sprecarla.
Se si guarda alla domanda di giustizia, al centro non c’è il giudice né il processo né le carte o i fascicoli, ma la persona che è portatrice di una domanda di giustizia e tutte le persone coinvolte in un conflitto, più o meno grave, radicato e complesso, che deve poter essere risolto per far ripartire le persone, la vita, le relazioni, le imprese.
E alle persone che vivono dentro una situazione conflittuale, analizzato il caso non astrattamente ma in relazione alle caratteristiche soggettive dei contendenti ed al contesto in cui il conflitto si è sviluppato e si è radicalizzato, si può offrire un ventaglio di metodi che servono non solo a tutelare dei diritti, esistenti o presunti, ma anche a soddisfare dei bisogni e delle esigenze che non trovano nella legge la garanzia ed il loro riconoscimento.
Può trattarsi di strumenti sganciati dalla necessaria connessione con il sistema giudiziario, che si sviluppano nelle forme amichevoli della negoziazione o della mediazione.

Gli enti territoriali dovrebbero in futuro impegnarsi in questo lavoro di orientamento dei cittadini verso una crescita della cultura della conciliazione, perché ne va della qualità della vita nelle città e nelle comunità locali, piccole o grandi. Sviluppare forme varie di conciliazione dei conflitti può contribuire a migliorare la qualità della vita nei luoghi dell’esistenza quotidiana delle persone.
A Roma nel 1996 è stata avviata una sperimentazione che tuttora esiste e che, specie nel primo decennio, ha rappresentato un progetto pilota. Lo Sportello di conciliazione di Roma Capitale è nato circa venti anni fa da un protocollo di intesa tra il Comune di Roma e la Camera di conciliazione di Roma, creata da avvocati e magistrati con l’obiettivo di offrire soluzioni rapide e senza costi per i conflitti tra cittadini ed amministrazione comunale. Il conciliatore è un avvocato indipendente che presta gratuitamente la sua opera per aiutare le parti a chiudere le liti che nascono da disservizi dei quali il Comune deve rispondere. Numerosi avvocati della Camera di conciliazione per molti anni, non solo come segno di impegno civile volontario ma anche allo scopo di diffondere la cultura della conciliazione, hanno dato, e continuano a dare, la loro disponibilità per ascoltare le domande di giustizia delle quali sono portatori i cittadini che vivono nei vari Municipi di Roma, specie quelli di periferia, e per offrire un primo orientamento su come affrontare e gestire il conflitto e dove poter ricevere un aiuto se privi di mezzi economici. Da quell’esperienza, e grazie al lavoro dell’“Osservatorio sui conflitti e sulla conciliazione”, creato nel 2011 per promuovere la conciliazione nel settore pubblico, è nata l’idea di promuovere l’approvazione di una legge istitutiva della Camera regionale di conciliazione, che la Regione Lazio ha emanato nel 2016 per favorire la conciliazione nelle controversie in materia di servizi pubblici. Non si tratta solo di dare soddisfazione ai reclami dei cittadini, ma di garantire gli standard di qualità previsti nelle carte dei servizi di ogni ente gestore e di risparmiare i costi del contenzioso relativo ai servizi pubblici per poter reinvestire le risorse nel miglioramento della qualità dei servizi.

La cultura della gestione differenziata del conflitto ha bisogno di professionisti, avvocati ma anche altre professionalità, che siano esperti in tema di rimedi per risolvere le liti. Serve, infatti, analizzare quale è lo strumento più adeguato rispetto alla specificità del conflitto ed alle condizioni particolari delle parti. In un sistema integrato degli strumenti di tutela, sempre consapevoli del carattere storicamente condizionato di ogni sistema di risoluzione dei conflitti, il ricorso al giudice deve rappresentare l’ultima possibilità, dopo che non hanno funzionato i sistemi non contenziosi quali la mediazione, che è lo strumento generalista, oppure gli strumenti specifici per particolari materie, quali quelli promossi dalle Autorità di garanzia, nei singoli settori regolamentati.

C’è poi bisogno di educatori e di insegnanti che riescano a promuovere il processo di responsabilizzazione delle persone, generando la capacità di essere adulti sia nel saper gestire le emozioni che nel saper gestire i conflitti.

Ma c’è anche bisogno di buoni comunicatori che raccontino la giustizia non come un teatro o una passerella di situazioni grottesche o al limite, ma come domanda di giustizia che necessita di risposte. In questa prospettiva raccontare la giustizia non è solo il descrivere la giustizia che si amministra nelle aule dei Tribunali, e neanche solo quella che si va costruendo attraverso percorsi di riavvicinamento tra le parti per raggiungere un accordo che chiuda il conflitto, ma vuol dire anche guardare a tutti i casi di giustizia negata e disattesa. Tutte le volte nelle quali la voce di chi chiede giustizia non solo non è accolta ma non è neanche udibile per l’estrema debolezza di chi la invoca ed ha bisogno di tutela. In tutti i casi in cui le persone non hanno risorse culturali ed economiche per far valere i propri diritti e per questo subiscono soprusi ed ingiustizie, che sono causa di progressiva marginalizzazione e che implicano il rischio di esclusione sociale.
Lavorare per costruire una società migliore e più matura comporta anche il saper raccontare la giustizia mettendo al centro le persone e valorizzando la dimensione della comunità, dentro la quale i conflitti sorgono e dove devono poter trovare soluzione.

Ultima modifica: Sab 7 Lug 2018

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