I 'fatti di Vangelo' nelle cronache dei malati di Covid. L'intervista a Luigi Accattoli

Luigi Accattoli, uno dei maggiori vaticanisti italiani, che ha lavorato prima alla “Repubblica” e poi al “Corriere della Sera”, storico collaboratore de Il Regno, è da alcuni giorni ricoverato in ospedale a Roma per polmonite da COVID. Il contagio gli è stato diagnosticato il 19 novembre, esattamente a un mese di distanza dal premio UCSI “Giornalismo e Società”, mirato proprio alla pandemia, che gli verrà assegnato a Verona. La premiazione avverrà da remoto e speriamo vivamente che Accattoli riesca a partecipare, perché è ricoverato in ospedale dal 29 novembre.

È interessante, allora, facendogli i più affettuosi auguri di pronta guarigione, ripercorrere il materiale, il lavoro di inchiesta che ha realizzato in questi mesi sulle storie di pandemia che ha motivato la giuria nella scelta del lavoro per la premiazione. Lo facciamo attraverso un’intervista via mail, perché il collega ora ha difficoltà anche a parlare..

Luigi, cosa ti colpisce nella motivazione di questo premio?

La motivazione fa riferimento all’attività da me svolta nei decenni di narrazione di “fatti di Vangelo”, cioè delle tante esperienze di italiani dei nostri giorni che io vedo ispirate alle beatitudini e all’esempio di Gesù. Ho raccolto queste storie in alcuni libri e – negli ultimi mesi - sul blog ho raccolto nella stessa ottica “storie di pandemia”.

Quale segnale esce da queste storie?

Testimoniano come da un male possa sempre rifiorire il bene. In esse è segnalato il coraggio di donne e uomini che rischiano la vita per aiutare il prossimo e la generosità che trasforma il dolore in amore. Ma anche la fede ai tempi del Covid.

Negli ultimi giorni queste storie di pandemia sono diventate un diario in prima persona, prima da casa e poi dall’ospedale...

La polmonite mi ha portato a uno stato di debilitazione e dipendenza dalla respirazione assistita che mi ha messo nelle condizioni di capire meglio cosa si prova con questo Covid.

Quante storie hai raccolto finora nel tuo blog?

Una sessantina, che si possono leggere nel capitolo 22 della pagina "Cerco fatti di Vangelo": http://www.luigiaccattoli.it/blog/cerco-fatti-di-vangelo/22-storie-di-pandemia/. Poi a sera nel blog, ogni giorno, do aggiornamenti su questa esperienza.

 

varagona accattoli

Accanto alla grande sofferenza, vissuta e raccontata, c’è qualcosa che ti ha sorpreso in questa esperienza?

La sorpresa grande, rispetto a quanto avevo letto di altri, è stata la possibilità di avere la Comunione quasi tutti i giorni in questo Reparto Pneumo Covid 2 dell’Ospedale San Giovanni di Roma. Immagino che questa opportunità, come anche l’uso di cellulari e computer nelle stanze Covid, sia una novità della seconda fase.

Mi racconti un segno cristiano di questi giorni che definiamo ‘cattivi’?

Un giorno, con il mio computer con i quattro della mia stanza stavamo seguendo l’Angelus del Papa, quando entrano i medici per la visita e mettiamo in pausa. Quando se ne vanno il capo del gruppo dice: “Abbiamo visto che qui pregate. Pregate anche per noi, perché possiamo reggere all’impegno che affrontiamo”.

Torniamo alle storie: che cosa ti spinge a raccoglierle e raccontarle?

Trasmettono coraggio e sono il dono di questa stagione tribolata. Ho ritenuto che andassero raccolte e io mi sono proposto di segnalarle con l’arte del giornalista che è quella della narrazione dei fatti.

Dove le cerchi?

Nei quotidiani e nei periodici, nei socials, prendendo appunti quando seguo i telegiornali, tra i colleghi giornalisti e tra gli amici. Le ho chieste a medici e infermieri. Continuo a chiederle – dal blog - a chi mi legge. Trascrivo anche le interviste in voce e in video che trovo nella Rete. In questi giorni chiedo a te e a voi che leggete di continuare per me questa ricerca.

Tra le storie raccolte finora che cosa ti ha colpito di più?

Le tante persone che prima di morire hanno lasciato un’ultima parola, affidata a una chat o a un’infermiera. Vengono poi i tanti guariti che hanno conosciuto il morso del Covid e ne hanno dato un racconto veridico, coinvolgente. Infine le scelte di volontariato compiute da uomini e donne impegnate nel lavoro ospedaliero, nel soccorso a domicilio, in tante pieghe dell’emergenza. Credo che queste tracce di umanità non possano andare disperse, perché sono “semi di bene” che lo Spirito continua a spargere nell’umanità, come afferma Francesco al paragrafo 45 di “Fratelli tutti”: “La pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita”.

Queste tracce di umanità, come le definisci, che cosa ti fanno pensare?

Innanzitutto al modo di vivere la morte. I nostri morti sono tanti, sono arrivati a 60.000. Quasi tutti sono partiti in solitudine. Senza neanche poter lasciare una parola alle famiglie. Qualche volta solo ai medici e agli assistenti. Dalle mie storie emerge che la morte e il suo testamento possono essere comunicati anche con un sorriso, una lacrima, un movimento degli occhi. C’è poi chi è guarito e poi è ricaduto ed è morto ma nella fase della guarigione ha raccontato quello che stava passando.

Hai qualche esempio?

Don Giuseppe Branchesi, 81 anni, parroco a Macerata, muore il 20 aprile all’ospedale di Civitanova, nove giorni dopo aver inviato ai parenti, via cellulare, un testamento che si conclude con questo saluto: “Chiedo perdono a tutti, e tutti perdono”; e ancora: “Grazie a Dio. Grazie a tutti. Benedico tutti”. Don Corrado Forest di Vittorio Veneto, 80 anni, confida al vescovo che gli telefona: “Non è male che anche qualche prete prenda questo tipo di malattia per condividere quello che vivono molte altre persone”. Un altro prete, Orlando Bartolucci di Pesaro, poi deceduto, da me interpellato in un momento che era parso di guarigione, aveva avuto parole simili di accettazione della malattia: “Anche se tutto è pesante, doloroso, non so per quale motivo, spiritualmente mi sento ‘contento’ di aver fatto questa esperienza. È l’aver in certo qual modo condiviso una storia con la tua gente”.

Racconti anche dei funerali senza parenti...

Un paio delle mie storie narrano di famiglie che accompagnano una madre e una figlia al cimitero in regime di massima chiusura, con gli altri parenti costretti a seguire il rito della tumulazione dalla finestra. Riporto le parole di un parroco vicentino che racconta d’aver concordato con le agenzie funebri “una sosta del feretro davanti alle case dei parenti”. Che tempo questo, nel quale sperimentiamo la sospensione delle messe con il popolo, l’impossibilità di accompagnare i morenti, la chiusura dei cimiteri.

Qualche messaggio significativo venuto dai reparti Covid?

Oscar Vrtovec (Novara) è un testimone che si salva, ma nel momento di maggiore spavento chiede a un’infermiera di portare quella parola a moglie e figli: “Dite loro che gli ho sempre voluto bene”. Messaggi simili hanno lasciato – morendo – altri personaggi delle mie storie: un marito a una moglie e una moglie a un marito. Ed è senza la morte di nessuno una terza storia d’amore nella quale il marito si fa ricoverare in una casa di riposo per assistere lei smarrita nell’Alzheimer e ambedue finiscono in un reparto Covid e riescono a uscirne salvi.

Tra i guariti che storie hai trovato?

C’è lo scrittore napoletano Marco Perillo, 37 anni, che ha narrato la sua partita a scacchi con la morte nel profilo facebook il 16 ottobre: “Sento il dovere di dire grazie a tutti i medici e agli infermieri del Cotugno per la loro dedizione. Grazie al Signore”. Perillo come tanti altri non sa dove abbia contratto il virus. Sergio Accardi invece ne è sicuro: 61 anni, medico di base a Zogno dal 1997, il suo duello di quattro mesi con la morte l’attribuisce al fatto d’aver continuato – a pandemia inoltrata – a visitare in ambulatorio e a domicilio: “Non volevo abbandonare i miei pazienti”. Ed è appunto la solidarietà che ha portato alla morte insieme ai medici degli ospedali anche tanti medici di base. In totale, a oggi, credo siano 237.

Le storie dei medici credo meritino un capitolo a parte...

Sì e le metterei insieme a quelle degli infermieri, degli operatori ospedalieri, dei volontari che sono corsi ad aiutare negli ospedali e nelle case di riposo e infine dei sacerdoti che hanno dato la vita per accompagnare malati e morenti. A fine ottobre i soli diocesani – secondo “Avvenire” – erano 130, aggiungendo i religiosi ci si avvicina o forse si supera il numero dei medici. Con una delle più belle intenzioni proposte nelle messe del mattino a Santa Marta, quella del tre maggio, domenica del Buon Pastore, Francesco ci invitò a contemplare congiuntamente “l’esempio di questi pastori preti e pastori medici”.

C’è chi è arrivato a invocare la morte...

Tra i guariti i più narrano d’aver visto in faccia la morte e uno – Piero Perazzoli, di Piacenza – confessa di aver sperato di “varcare la soglia”. Invece Roberto Timpano, 50 anni, di Lecco, racconta di “non avere mai avuto percezione della terribile gravità della mia condizione: l’ho realizzata dopo e mi sono anche accorto che c’era un esercito di gente che pregava per me”. Don Franco Amati, 70 anni, parroco milanese, si sente “vivo per miracolo” e poco dopo la Pasqua narra ai parrocchiani, per lettera, la sua discesa agli inferi e la lenta “risalita tra i vivi”. Ho raccolto altre narrazioni simili di cinque sacerdoti, di una decina di laici, di tre vescovi: Antonio Napolioni (Cremona), Derio Olivero (Pinerolo), Calogero Peri (Caltagirone). Il vescovo Napolioni così parla in una lettera post mortem a un suo prete che se ne era andato poco dopo che lui – il vescovo – era uscito dall’ospedale: “Scrivo per dirti quello che l’isolamento ci impedisce di dire ai nostri cari, in questa disumana maniera di morire”. “Disumana”: detto da un vescovo.

Ami anche le storie di volontariato...

Michela Fanti (22 anni, di Treviso) appena laureata infermiera e già disponendo di altro lavoro si offre per assistere i malati di Covid. Marta Ribul, volontaria internazionale bloccata in partenza per il Kenya, va infermiera all’ospedale covid di Bergamo dove compie 27 anni nel pieno dell’emergenza. Abukar Aweis Mohamed è un infermiere somalo cittadino italiano da vent’anni: lascia a Signa, Firenze, la famiglia e va in soccorso dei colleghi della Val Camonica. Lo stesso fa un medico iraniano di 27 anni, immigrato di seconda generazione, Samin Sedghi Zadeh, che lascia la libera professione ed entra volontario nell’ospedale covid di Cremona.

Ci sono casi singolari?

Tanti per impulso di solidarietà tornano a fare il medico o l’infermiere essendo in pensione, o avendo lasciato da tempo quel lavoro: chi era diventato scrittore, chi vignaiolo, chi si era fatto prete, o frate o suora. C’è spazio anche per il sorriso: storie di pazienti in terapia intensiva che al momento del risveglio, vedendo intorno persone scafandrate, credono d’essere rapiti. Così agli infermieri arrivano imperdibili proposte di riscatto: “Vi do un milione di euro”...

Le chiami tutte “fatti di Vangelo”?

So bene che chi li pone non sempre lo fa in risposta alla vocazione cristiana ma più ampiamente alla vocazione d’uomo. C’è un insegnamento nel fatto che in profondo le due vocazioni s’incontrino. E’ anche cercando quell’insegnamento che accanto ai semi seminati dall’una conviene onorare quelli dell’altra.

Ultima modifica: Sab 12 Dic 2020