Per riconquistare fiducia, l'informazione deve ripensare il modello di business

Fiducia è la parola chiave del momento. Il Covid comincia ad allentare la morsa, il Pil comincia ad aumentare, la gente si vaccina in massa. Serve fiducia per costruire il futuro postpandemia e sembra proprio che ci sia: nel Governo, nelle aziende, nei vaccini, nel volontariato... In quasi tutto, tranne che nell’informazione.

Sento un colpo al cuore ogni volta che viene pubblicato uno dei tanti sondaggi che, con poche varianti, ribadiscono il fatto che i cittadini non ritengono credibili gli organi d’informazione e i giornalisti, che sono venduti, ignoranti, cinici e bari. Il colpo al cuore mi viene perché poi gli stessi sondaggi dicono che i cittadini si informano sempre più sui social, cioè in quegli ambienti comunicativi in cui mis-informazione, dis-informazione e mal-informazione trascinano tutti nella loro danza spensierata, come il ballo del qua-qua.

Ma resta il fatto che la crisi di credibilità del giornalismo c’è e a volte pare irreversibile. Forse è anche per questo che negli ultimi anni si sono sviluppare o sono state rilanciate proposte ed esperienze per un’informazione “diversa”: il giornalismo di pace, lo slow journalism, il giornalismo costruttivo....

A dire il vero, c’è stato un momento in cui è sembrato di vedere un’inversione di tendenza: non che la fiducia nei media mainstream abbia raggiunto percentuali stratosferiche, ma nei primi mesi del 2020 la gente ha ripreso a guardare la televisione (in Italia 4 milioni in più di spettatori rispetto all’anno precedente), e in Internet ha cercato i siti di informazione (che hanno avuto picchi del 120% in più). Ne parlano Mauro Bomba, Christian Ruggiero, Michele Valente nel loro saggio intitolato “Media e informazione alla prova dell’emergenza Covid”, contenuto del volume “Pandemie Mediali” (qui la presentazione del volume), i quali citano anche il “Digital news Report” 2020 di Reuters, che certifica una crescita di fiducia nei media maistream del 10%. Inoltre dall’edizione 2021 dell’Edelman Trust Barometer emerge che in Italia l’indice generale di fiducia continua a crescere (+3 punti rispetto al 2020) premiando soprattutto il Governo, che guadagna 10 punti rispetto al 2020, il Business che guadagna due punti, i media che crescono di un punto, anche se il 63% degli intervistati continua a temere che gli strumenti di informazione che usa siano contaminati da informazioni false.

È significativo il fatto che, a fronte di una crisi così ampia e sconosciuta, i cittadini abbiamo sentito il bisogno di tornare all’informazione maistream. Forse, ipotizzano Bomba, Ruggiero e Valente, è perché l’agenda dei media si è affidata a esperti di vario tipo per costruire il proprio racconto sull’evoluzione della pandemia. E probabilmente è vero, nonostante alcuni di questi esperti siano presto entrati nel ruolo delle star, attente più a conquistare follower, che a dialogare seriamente tra loro e con gli spettatori.

Ma i tre ricercatori aggiungono anche una considerazione interessante: l’aumento di fiducia non si è tradotto, per le aziende editoriali, in aumento delle entrate. Anzi, la pubblicità è continuata a calare. Per questo, ripensare il modello di business è diventato una priorità: il modello basato sulla pubblicità non funziona più.

Non è però solo un problema di bilanci: questo tema è strettamente legato a quello dell’etica della professione. Per ritrovare credibilità, il giornalismo ha bisogno di un’iniezione di etica, quella cosa in base alla quale il criterio di verità dei fatti e il rispetto dei lettori sono al centro di tutto, anche della ricerca di una maggiore qualità dell’offerta informativa. Ma, per ridare centralità all’etica, l’informazione ha bisogno di modelli diversi di business.

Lo sostengono anche i teorici del giornalismo costruttivo e dello slow journalism. Ad esempio, Alberto Puliafito, sul sito dell’Eurpea Journalism Observatory , scrive che proprio il modello di business è uno dei punti deboli del giornalismo tradizionale: «la scelta più radicale dello slow journalism è quella di distaccarsi completamente dal mondo della pubblicità. Gli interessi di inserzionisti e editori oggi divergono. E gli inserzionisti non hanno mai avuto come primo interesse quello di avere un pubblico più informato».

Quando si discute dello stato della professione, si mettono sul tavolo problemi come la formazione, la deontologia, la giusta paga eccetera. Tutti argomenti sacrosanti, ma che dovrebbero essere riletti anche all’interno di questa cornice soffocante che è il modello di business.

Ultima modifica: Mar 8 Giu 2021