Giornalisti: a Spoleto una giornata per ricordare la lezione di Tobagi

tobagiIl 28 maggio del 1980 alle 11.10 viene ucciso a Milano, in via Salaino, il giornalista del Corriere della Sera, Walter Tobagi. Un commando di giovani ragazzi, buona parte dei quali appartenenti a famiglie della Milano "bene", gli spara a poca distanza da casa, mentre sta andando a piedi a prendere l'automobile per recarsi al giornale. Nel giro di poche ore, secondo il tragico rituale della lotta armata, l'assassinio viene rivendicato, attraverso un volantino, da una nuova sigla del terrorismo rosso: la "Brigata 28 marzo".

Ricordare la lezione «sempre attuale» di Walter Tobagi, il giornalista assassinato in un attentato terroristico 30 anni fa è l'obiettivo degli incontri che si svolgeranno mercoledì prossimo a Spoleto, sua città natale, per iniziativa del Comune e dell'associazione Walter Tobagi di Perugia, in collaborazione con il Corriere della sera, il quotidiano per il quale scriveva.

Mercoledì presso la sala Ermini di Palazzo Ancaiani, al mattino, è previsto un appuntamento per gli studenti di quarto e quinto superiore iscritti al corso propedeutico di giornalismo intitolato a Tobagi. Interverranno il giornalista Franco Abruzzo e Antonio Ferrari, inviato speciale ed editorialista del Corriere della sera che è stato collega di Tobagi, moderati da Antonella Manni, curatrice del corso di giornalismo. Alle 17.30, sempre presso la sala Ermini, si svolgerà l'incontro dal tema «Perchè Tobagi: l'Italia e l'informazione», con Abruzzo, Ferrari, Piero Corsini, responsabile editoriale della trasmissione Rai «La storia siamo noi», e Giuseppe Mascambruno, direttore responsabile de La Nazione, moderato da Anna Mossuto e Giuseppe Castellini, direttori del Corriere dell'Umbria e de Il Giornale dell'Umbria. A entrambi gli incontri, durante i quali sarà proiettato il video sul caso Tobagi de «La storia siamo noi», saranno presenti anche Carlo Giacchè, Fabio Chinea e Aldo Potenza, soci fondatori dell'associazione culturale Walter Tobagi. «L'intento - ha detto l'assessore all'istruzione del Comune di Spoleto Battistina Vargiu - è di attualizzare una figura di giornalista critico, integerrimo, sempre alla ricerca della verità. La cosa più importante è il coinvolgimento dei giovani, cui da cinque anni mettiamo a disposizione un corso che non mira a formare giornalisti, ma i lettori critici e attenti di domani». Il presidente dell'associazione Walter Tobagi Carlo Giacchè ha sottolineato come il vero intento non sia la commemorazione di un personaggio a trent'anni dalla morte, ma di «riproporre un problema fondamentale di ogni democrazia, quello dell'informazione». Chinea si è soffermato sull'attività dell'associazione nata sette mesi fa su iniziativa di Aldo Potenza. «Il nostro interesse prioritario - ha detto - è occuparci di temi inerenti l'informazione, spaziando sulla realtà politica, sociale e culturale di questa regione e non solo, per cui ci siamo dati una precisa strategia di comunicazione». L'associazione ha in particolare puntato su Internet, affidandosi a un sito, al momento in fase di allestimento, e a Facebook, dove già conta oltre 500 iscritti. Tre le rubriche aperte nel social network. In collaborazione con Feltrinelli, una presenta recensioni mensili di libri, l'altra, ispirata all'anniversario dei 150 anni dell'Unità d'Italia, proporrà focus, a partire dal 3 giugno, su «I padri fondatori della nostra Repubblica tra storia e attualità». La terza rubrica è invece dedicata, in collaborazione con Amnesty international e Medici senza frontiere, alla pubblicazione di articoli sulle guerre «dimenticate».

 

 

 

Riportiamo di seguito il ricordo pubblicato su Avvenire

Il cattolico Tobagi contro i «nonni» del '68

A trent'anni del suo assassinìo per mano dei terroristi rossi, la figura di Walter Tobagi, cronista e storico e presidente del sindacato lombardo dei giornalisti, non è completamente impallidita dal trascorrere del tempo. Anche perché restano, e ancora ci parlano, le lucide analisi dei suoi libri, dei suoi saggi e dei suoi articoli. E, più si deposita la polvere delle polemiche politico-giudiziarie che hanno dolorosamente accompagnato nel corso dei decenni la vicenda del delitto, più emerge cristallina la dimensione religiosa di Tobagi, che ne costituiva la reale essenza e il solido fondamento sul quale naturaliter si sviluppò il suo impegno professionale e civile.

Eppure, in una produzione intellettuale straordinariamente intensa, Tobagi scrisse molto poco sul mondo cattolico e sulla Chiesa, allora inquieta e attraversata dai fermenti post-conciliari. Neppure nei suoi anni passati ad Avvenire, che ricordava come i più sereni e forse più fecondi: allora c'erano stati il matrimonio e la paternità, la laurea in storia con una tesi di mille pagine sui sindacati confederali degli anni '45-'50 e il suo primo libro, uscito nel 1970. Ovvero la Storia del Movimento Studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia, dove, da «storico del presente» coglieva nei fatti la drammatica contraddizione del Sessantotto. Quella cioè di abbandonare ben presto la prospettiva del futuro da costruire per rivolgersi, nel magma della sinistra politica e culturale, soltanto al passato.

E di costituire così la tragica rivincita dei «nonni», rivoluzionari e massimalisti, contro i «padri», democratici e costituzionali, scivolando inesorabilmente verso la violenza, prima verbale, poi fisica e quindi armata. E in quel contesto la fede cristiana, così considerata estranea al discorso pubblico, appariva solo un vezzo per chi indagava culturalmente nella tragedia della sinistra: eppure per Tobagi la condizione di cattolico (non esibita ma neppure nascosta) era fondamentale per discernere comunque e valorizzare i «semi di speranza» in un clima sociale tanto doloroso e rassegnato.

D'altronde, da semplice fedele, non mancava di partecipare alla vita della sua parrocchia e insieme a coltivare la conoscenza della Scrittura, nell'ambito di quei cenacoli-pilota che porteranno poi ai diffusi gruppi d'ascolto della Parola di Dio. Ed è a questa che fa riferimento quando si interroga con pochi colleghi (a quel tempo erano 7 i credenti «dichiarati» tra i 300 giornalisti del Corriere) sul significato profondo del ritrovarsi ad essere un «cristiano che fa il giornalista» in quella temperie storica.

Era l'estate del '79, Tobagi era già nel mirino dei terroristi, e pativa la campagna di denigrazione dopo la sua vittoria alle elezioni del sindacato lombardo. Eppure sentiva la necessità di riflettere sul Vangelo: dove Gesù non fa programmi, non lancia messaggi: a chi gli chiede, risponde soltanto: «Venite e vedete...». E andare e vedere, magari con l'occhio lungo e l'orecchio attento, commentava Walter col suo quieto sorriso, non è forse l'essenza del nostro mestiere? Non solo: proprio quelle cronache che sono attuali da duemila anni suggerivano un'altra divisa professionale. Gli apostoli non ci fanno umanamente una gran figura: non capiscono, si addormentano e scappano; e perfino Pietro, che pure era già il capo della Chiesa, non nasconde di aver rinnegato il maestro tre volte prima che il gallo cantasse. E allora  la lezione che ne veniva era quella di non edulcorare, di non occultare, di non subordinare la narrazione ad occhiali o pregiudizi ideologici o interessati.

Piuttosto, coltivando la dote dello «stupore», il metodo restava quello di «lasciarsi riempire» dalla realtà complessa che si veniva ad incontrare, dandole ordine, forma, gerarchia e significato. In modo da fornire per questa via al lettore e al cittadino il servizio democratico e a tutto campo dell'informazione, così che ciascuno potesse formarsi in libertà e completezza il proprio autonomo convincimento. E in questo percorso di rigore professionale, il giornalista andava tutelato nella sua autentica indipendenza. Di qui l'impegno innovativo nel sindacato, un impegno teso a contrastare il comodo conformismo e a diffondere segni di speranza in un cambiamento positivo, graduale e partecipato.  Era riformismo? Certamente sì, ma intessuto dalla responsabilità di lavorare ovunque per costruire (anche per i propri figli) una società meno lacerata dalla violenza e più aperta al futuro.

E insieme alla speranza davvero cristiana c'era, pur nell'affanno di una vita così impegnata, un abbandonarsi fiducioso alla Provvidenza. Negli ultimi mesi, a chi lo accompagnava spesso a casa dal Corriere (come chi scrive) confessava, oltre alle umanissime paure, la percezione lucida dei rischi che correva, accanto alla consapevole certezza di non potersi e non volersi sottrarre. «Non mi perdoneranno - ripeteva - di aver rotto il conformismo e l'unanimismo. Sia nelle analisi sulla galassia terroristica, che cerco di capire e di penetrare invece di limitarmi come troppi a maledire e a esecrare; e sia nel sindacato, che ha anche bisogno di rotture democratiche per crescere e per svolgere davvero il suo ruolo civile. E io ho il torto di aver sollevato un velo e di trovare il libero consenso di molti colleghi... Ma non mi sento solo: mi sento comunque nelle mani di Dio...».

Giuseppe Baiocchi (Avvenire)

 

 

BIOGRAFIA

 

Walter Tobagi nasce il 18 marzo 1947 a San Brizio, una piccola frazione a sette chilometri da Spoleto, in Umbria. All'età di otto anni la famiglia si trasferisce a Bresso, vicino Milano (il padre Ulderico faceva il ferroviere). Comincia a occuparsi di giornali al ginnasio come redattore della storica «Zanzara», il giornale del liceo Parini. Di quel giornale - diventato celebre per un processo provocato da un articolo sull'educazione sessuale - Tobagi diviene in breve tempo il capo redattore.

Sul giornale del liceo però, si occupava sempre meno di sport e più di argomenti quali i fatti culturali e di costume, partecipando a polemiche appassionate. Già in quelle lontane occasioni dava prova di abilità dialettica e di moderazione riuscendo a conciliare conservatori ed estremisti, tolleranti e intolleranti: doti non comuni che utilizzerà pienamente in seguito, non solo nei dibattiti all'interno del «Corriere della Sera», ma soprattutto per conciliare le diverse tendenze dell'Associazione lombarda dei giornalisti, di cui diventerà presidente.

Dopo la fase del liceo, Tobagi era entrato giovanissimo alI' «Avanti!» di Milano, ma era rimasto pochi mesi passando al quotidiano cattolico «l'Avvenire», a quel tempo in fase di ristrutturazione e di rilancio. Il direttore di quel giornale, Leonardo Valente, ha detto: «Nel 1969, quando lo assunsi, mi accorsi di essere davanti a un ragazzo preparatissimo, acuto e leale [...]. Affrontava qualsiasi argomento con la pacatezza del ragionatore, cercando sempre di analizzare i fenomeni senza passionalità. Della contestazione condivideva i presupposti, ma respingeva le intemperanze».

Tobagi si occupava, almeno nei primi anni, veramente di tutto, anche se andava sempre più definendosi il suo interesse prioritario per i temi sociali, per l'informazione, per la politica e il movimento sindacale, a cui dedicava molta attenzione anche nel suo lavoro «parallelo», quello universitario e di ricercatore. Aveva poi iniziato a occuparsi di problemi culturali, con note sul consumismo e sulla ricerca storica. Celebre un suo pungente corsivo su un «mostro sacro» della letteratura com eAlberto Moravia, accusato di essere un intellettuale integrato «in una società che trasforma tutto, anche l'arte, in oggetto di consumo».

Ma Tobagi non trascura i temi economici: si misura in inchieste a diverse puntate sull'industria farmaceutica, la ricerca, la stampa, l'editoria, ecc. e si mostra, in quel periodo, interessato anche alla politica estera: segue con attenzione i convegni sull'Europa; scrive sul Medio Oriente, sull'India, sulla Cina, sulla Spagna alla vigilia del crollo del franchismo, sulla guerriglia nel Ciad, sulla crisi economica e politica della Tunisia, sulle violazioni dei diritti dell'uomo nella Grecia dei colonnelli, sulle prospettive politiche dell'Algeria e così via.

Timidamente, però, comincia anche ad entrare sul terreno politico e sindacale dopo essersi «fatto le ossa», come diremo, sulle vicende del terrorismo di destra e di sinistra. Scavava, con note e interviste, nei congressi provinciali dei partiti e si divertiva a scrivere profili di Sandro Pertini e Pietro Nenni. Scopriva l'attualità, la cronaca sull'onda delle grandi lotte operaie degli anni '70. Comincia così a scrivere lunghi servizi sulla condizione di lavoro dei siderurgici, dei lavoratori della Fiat Mirafiori, sull'autunno caldo del '72, sull'inquadramento unico operai-impiegati, sull'organizzazione del lavoro antiquata e disumana che provoca l'assenteismo, sui roventi dibattiti per l'unità sindacale dei metalmeccanici e delle tre confederazioni.

L'impegno maggiore di Tobagi era costituito dalle vicende del terrorismo fascista (ma anche di sinistra). Seguì con scrupolo tutte le intricate cronache legate alle bombe di piazza Fontana, alle «piste nere» che vedevano coinvolti Valpreda, l'anarchico Pinelli, il provocatore Merlino oltre ai fascisti Freda e Ventura, con tante vittime innocenti e tanti misteri rimasti avvolti nell'oscurità più fitta ancora oggi, a distanza di venti anni, a cominciare della morte di Pinelli all'interno della questura di Milano e dell'assassinio del commissario Calabresi. Tobagi si interessò a lungo anche di un'altra vicenda misteriosa: la morte di Giangiacomo Feltrinelli su un traliccio a Segrate per l'esplosione di una bomba maldestramente preparata dallo stesso editore guerrigliero. Inoltre, si interessò alle prime iniziative militari delle Br, alla guerriglia urbana che provocava tumulti (e morti) per le strade di Milano, organizzata dai gruppuscoli estremisti di Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia.

Un praticantato lungo e faticoso che doveva portarlo al «Corriere d'Informazione» e, in seguito, al «Corriere della Sera», dove poté esprimere pienamente le sue potenzialità di inviato sul fronte del terrorismo e di cronista politico e sindacale.

Giampaolo Pansa ha affermato che: «Tobagi sul tema del terrorismo non ha mai strillato. Però, pur nello sforzo di capire le retrovie e di non confondere i capi con i gregari era un avversario rigoroso. Il terrorismo era tutto il contrario della sua cristianità e del suo socialismo. Aveva capito che si trattava del tarlo più pericoloso per questo paese. E aveva capito che i terroristi giocavano per il re di Prussia. Tobagi sapeva che il terrorismo poteva annientare la nostra democrazia. Dunque, egli aveva capito più degli altri: era divenuto un obiettivo, soprattutto perché era stato capace di mettere la mano nella nuvola nera».

Nei giorni drammatici del sequestro Moro segue con trepidazione ogni fase della mancata trattativa e dei «colpi di scena», valorizza ogni spiraglio che possa contribuire a salvare la vita del presidente della Dc. Per primo - polemizzando con «brigatologi» tenta di spiegare razionalmente che esiste una coerente continuità tra vecchie e nuove Br e che, quindi, non vi è alcuna contrapposizione tra le Br, 'romantiche' delle origini con le facce pulite alla Mara Cagol e le Br sanguinarie e dunque ambigue e provocatorie degli ultimi tempi». Tobagi sfatò tanti luoghi comuni sulle «bierre» e gli altri gruppi armati, denunciando, ancora una volta, i pericoli di un radicamento del fenomeno terroristico nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro, come molti segnali avevano indicato con profonda inquietudine.

«La sconfitta politica del terrorismo - scriveva Tobagi - passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare, tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l'immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze e forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascono non dalla paura, quanto da dissensi interni, sull'organizzazione e sulla linea del partito armato».

La sera prima di essere assassinato, presiedeva un incontro al Circolo della stampa di Milano, per discutere del «caso Isman», un giornalista del «Messaggero», incarcerato perché aveva pubblicato un documento sul terrorismo. Aveva parlato a lungo della libertà di stampa, della responsabilità del giornalista di fronte all'offensiva delle bande terroristiche: problemi che aveva studiato ormai da anni e che conosceva a fondo. Aveva pronunciato frasi come:
«Chissà a chi toccherà la prossima volta». Dieci ore più tardi era caduto sull'asfalto sotto i colpi di giovani killer».


Notizie tratte da Testimone scomodo. Walter Tobagi - Scritti scelti 1975-80, a cura di Aldo Forbice, Milano 1989lle guerre «dimenticate».

Ultima modifica: Lun 10 Dic 2012

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