BAMBINE, BAMBINI E RAGAZZI TRA BABELE DELLE NOTIZIE E TRAPPOLE DELLA REALTÀ

20161009 102845 resized 1«Prestare attenzione ai ragazzi nel campo dei media è uno dei principali paradigmi di civiltà e progresso; è un compito esaltante a cui tutti devono contribuire secondo il proprio ruolo e le proprie competenze. È un compito che fa parte di quella pedagogia sociale attraverso cui si possono formare le nuove generazioni, aiutandole a esprimere pienamente il bene depositato nel loro cuore, senza mai inquinarlo né inaridirlo». Così scriveva papa Giovanni Paolo II il 18 aprile 2001 - a dieci anni dalla Carta di Treviso - in un suo messaggio a Emilio Rossi tuttora attuale, nella nuova era “biomediatica”. Un’epoca di velocissima transizione e cambiamento: in cui le «straordinarie potenzialità dei nuovi media» già ravvisate allora dal Pontefice, «sempre più diffuse e interattive», tanto più oggi «esigono ulteriori competenze e assunzioni di responsabilità da parte degli organismi deputati alle garanzie sociali», per usare ancora le parole di San Giovanni Paolo che parlava profeticamente di «soglia decisiva» da varcare coraggiosamente, con discernimento e intraprendenza, «nel rispetto dei diritti dei minori» come criterio primario e imprescindibile nella valutazione dell’operato dei media, per «favorire una comunicazione a misura umana e attenta al bene comune, specialmente al bene dei piccoli».

Quindici anni dopo, in un contesto molto cambiato sul piano del mediascape e non solo, le parole di quel magistero pontificio si saldano perfettamente con l’ultimo messaggio di papa Francesco per la 50esima Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali 2016, che precisano così ulteriormente lo spirito, e l’orizzonte, con cui l’UCSI - dopo il Congresso di Matera - ha scelto di affrontare, tra le sue priorità, la sfida (conoscitiva, in-formativa e operativa) di rimettere al centro della sua riflessione (e narr/azione) sui processi comunicativi proprio il rapporto tra mondo dei ragazzi e sistema dei media. Oltre gli stereotipi, che generano disinformazione. Scrive infatti papa Francesco: «Anche e-mail, sms, reti sociali, chat possono essere forme di comunicazione pienamente umane. Non è la tecnologia che determina se la comunicazione è autentica o meno, ma il cuore dell’uomo e la sua capacità di usare bene i mezzi a sua disposizione. Anche in rete si costruisce una vera cittadinanza. La comunicazione, i suoi luoghi e i suoi strumenti hanno comportato un ampliamento di orizzonti per tante persone. Questo è un dono di Dio, ed è anche una grande responsabilità».

Una minoranza eticamente determinata

Ecco: discernimento, cittadinanza, competenze, (cor)responsabilità. Sono le prime parole chiave da custodire, nel bagaglio (e nella cassetta degli attrezzi) di una laica “minoranza eticamente determinata” nella comunicazione sociale come l’UCSI, che intenda mettersi seriamente in cammino sui sentieri verso il futuro: incarnato appunto dalle nostre bambine, dai ragazzi e adolescenti. Un cammino in direzione, tuttavia, ostinata e criticamente contraria allo scenario - preconizzato già da Walter Benjamin - di una “religione” assoluta, rappresentata dal denaro e dal mercato nella modernità (e tanto più nella postmodernità “postumana” quale viene definita quella attuale); ma - semmai – un cammino guidato dalla stessa ferma convinzione di don Lorenzo Milani, il priore/educatore di Barbiana, per il quale «la religione è il mio prossimo»: e dunque la prossimità dialogica diventa la prima direzione da seguire, necessaria ad una comunità educante degna di questo nome. Dove gli adulti siano davvero tali, ovvero non abbiano paura di crescere, affetti da quella sindrome di Peter Pan che porta a un’eterna «adultescenza» (felice crasi coniata da padre Francesco Occhetta), in quella pandemia del secondo Novecento che Francesco M. Cataluccio ha identificato nell’immaturità (titolo anche di un suo saggio del 2004 su questa “malattia sociale” del nostro tempo). E dove i bambini e i ragazzi possano essere tali: persone in crescita, non costrette ad adultizzarsi (ed erotizzarsi) precocemente, e troppo in fretta.

Ma come declinare i verbi «vedere, narrare, comprendere» – fondamenti etici della comunicazione, scelti non a caso per la Scuola di alta formazione Giancarlo Zizola ad Assisi – con occhi, voci, orecchie, corpi (ma anche menti, cuori e anime) di bambine e bambini, adolescenti, ragazzi e giovani adulti? Quali immagini di infanzia e adolescenza veicola il sistema dei media, in un’Italia segnata dalla piaga - soprattutto meridionale - della «povertà educativa» (evidenziata dall’ultimo Rapporto 2016 di Save the Children) e anche per questo agli ultimi posti dei Paesi europei e dell’Ocse per disuguaglianze, come segnala anche l’ultimo Rapporto Unicef? Ancora: come raccontare la complessità di una condizione dicotomica (di minorenni protagonisti e spettatori della realtà, spesso traumatica, e oggetto di interessi economici più che soggetti di interesse empatico) vissuta da nativi digitali immersi in un ecosistema dell’informazione caratterizzato da una incessante crossmedialità, multimedialità e transmedialità “liquide”, a rischio cortocircuito da ipercomunicazione, nell’attuale Infopollution? E come tutelare i diritti dei più piccoli nell’attuale galassia mediatica, con il nostro lavoro di “mediazione” giornalistica, in un’epoca dominata dalla centralità dello smartphone (al mondo ci sono più telefoni cellulari che individui, e nel 2015 l’Italia della crisi economica ha registrato un boom di consumi di questi dispositivi elettronici: +191,6%) che il XIII Rapporto Censis/UCSI 2016 ha non a caso connotato come «era della disintermediazione digitale»?

Sono solo alcuni degli interrogativi a nostro avviso ineludibili, in un momento storico di crescente disagio di civiltà, disincanto del mondo e «passioni tristi» che rischiano di minare la speranza cristiana, dando spazio nei più giovani a quell’ospite inquietante che è il «nichilismo light», anche attraverso il disinvolto - ma inconsapevole - «nomadismo mediatico» dei ragazzi, segnalato ad esempio dallo stimolante VII Rapporto Censis/UCSI su L’evoluzione delle diete mediatiche giovanili in Italia e in Europa (Franco Angeli 2008, pp. 10-11). Atteggiamenti (il disincanto e il nichilismo soft) prodotti, secondo l’analisi di Raffaele Pastore e Settimio Marcelli, proprio dall’integrazione e «dall’assenza di una prospettiva gerarchica tra i media»; ovvero, generati da un’assuefazione ad un linguaggio unico di intrattenimento, oltre che di infotainment che, in conseguente assenza anche di una precisa «gerarchia di valori» può arrivare infine a radicare – soprattutto in un pubblico giovanile indifferente agli strumenti che adopera per informarsi, conoscere, comunicare e divertirsi – quella «globalizzazione dell’indifferenza» denunciata, con forza, da papa Francesco. Con tutte le derive socio-politiche che sono sotto gli occhi di ciascuno.

Testimoni militanti, più che maestri

Perciò abbiamo voluto condividere, in apertura e in chiusura della nostra Scuola di formazione, questi interrogativi con alcuni specialisti. Da prospettive diverse: perché come la comunicazione sociale, per sua natura complessa e plurale, anche le competenze che hanno a che fare con l’infanzia e la gioventù necessitano di sguardi differenti, per rendere la comunicazione stessa (come ci insegnava Emilio Rossi) una dimensione pluridimensionale: come luogo di scambio e mediazione cognitiva/emozionale, luogo di addestramento partecipativo e luogo di condivisione, ben oltre la logica dello share televisivo o social. Renzo Di Renzo, Marco Brusati, Stefano Gorla ed Elvira D’Amato sono stati per noi compagni di viaggio nella tappa di Assisi, oltre che “guide” autorevoli nel nostro cammino sul tema del rapporto tra media e ragazzi, proprio per il loro contributo di testimoni militanti: ruolo forse ancora più prezioso, come ammoniva già Paolo VI, di quello dei «maestri». Tra babele informativa e racconto, pubblicità, impegno sociale e arte, realtà e immaginario, trappole del web e impegno di lotta alle devianze on line le loro riflessioni hanno così acceso dei faretti su alcune problematiche che troverete nei testi che seguono. Spunti per approfondimenti più ampi.

A partire dallo sguardo “eccentrico” di Renzo Di Renzo, intellettuale eclettico e creativo (scrittore, poeta, fotografo, docente universitario, direttore di Heads Collective International dopo essere stato direttore di Fabrica e della rivista «Colors» per Benetton), è anche autore di libri per bambini che educano alla diversità, tra i quali il suo ultimo poetico albo illustrato (dalle splendide immagini di Sonia Maria Luce Possentini) Due destini, edito da Fatatrac nell’ambito di un progetto-mostra itinerante a sostegno della campagna di Medici con l’Africa CUAMM «Prima le mamme e i bambini». Alla sua testimonianza di narratore laico attento all’infanzia - con la consapevolezza, rafforzata dal suo essere padre adottivo di un bimbo nero, dell’importanza di raccontare ai bambini la realtà con semplicità, ma senza semplificazioni, rivalutando il ruolo decisivo dell’immaginazione nella (in)civiltà delle immagini - ha fatto seguito il contributo di Marco Brusati, appassionato direttore generale dell’Associazione Hope (fondata nel 1998 su iniziativa del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile della Cei e oggi rete internazionale di servizio alla Chiesa nei settori di musica, spettacolo ed eventi comunicativi), scrittore, saggista, formatore, conferenziere e docente universitario esperto dei processi di comunicazione applicata alle esperienze pastorali ed ecclesiali, nonché specialista dell’evoluzione dei modelli mass-mediali e della loro influenza nell’educazione di preadolescenti, adolescenti e giovani, oltre che studioso e promotore di eventi musicali live come strumento privilegiato per un dialogo educativo con le nuove generazioni, anche in risposta alle spinte mass-mediali. Giovane padre già nonno, Brusati ha mostrato e commentato immagini-choc di alcuni videoclip con un monito preciso per i comunicatori sociali: «I giornalisti – ha detto - devono sentirsi educatori: hanno un ruolo determinante nel sostenere criticamente le comunità locali nell’uso consapevole dei prodotti massmediali contemporanei, che vanno conosciuti per non veicolare luoghi comuni».

Ai confini tra scritture (narrative, poetiche, iconiche), musica, fumetto e web

Con lui, anche padre Stefano Gorla, sacerdote barnabita, giornalista (a lungo direttore del settimanale paolino per ragazzi «Il Giornalino» e del mensile «G-Baby») e saggista tra i massimi esperti di fumetto, cinema d’animazione e critica dei media e dei linguaggi giovanili, che ha rilanciato il suo punto di vista «dalla parte dei bambini e dei ragazzi, che vanno presi sul serio» ma entrando «dalla porta d’accesso della curiosità», per capire «quale lingua usare per informare ed educare divertendo. E ricercare una grammatica e una sintassi per comunicare l’infanzia e l’adolescenza, nella dimensione imprescindibile dell’ascolto». Ascolto che diventa poi decisivo, se si vuole tutelare i minorenni dalle trappole disseminate nella realtà, anche della Rete - che può renderli vittime e carnefici a un tempo. Di qui la necessità di nuove alleanze e “patti educativi” tra diversi soggetti pubbici e privati ed agenzie istituzionali, al di là di famiglia, scuola e Chiesa: come la Polizia Postale, che dal 1998 tutela i minori sul web. Ad Assisi è rappresentata da Elvira D’Amato, vicequestore aggiunto della Polizia Postale, Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana per il suo impegno contro il cyber-bullismo e il pedopornografia come responsabile del Centro Nazionale per il contrasto alla pedopornografia on line, struttura nata nel 2006. D’Amato, iIllustrando con precisione il difficile lavoro da lei coordinato di indagini sotto copertura a caccia di pedofili nel deep web o dark web - la faccia oscura della Rete - indica alcuni strumenti utili per creare, nelle scuole come nelle famiglie, nuove consapevolezze preventive per un pieno diritto di cittadinanza digitale, tra i quali il recente progetto del Miur per formare docenti “animatori digitali”. Ma l’alleanza più strategica, conclude la vicequestore della Polizia di Stato, è proprio quella con i protagonisti di una corretta informazione, al di là del moltiplicarsi di un Citizen journalism spesso tempestivo, ma superficiale. Per D’Amato, invece, i professionisti della comunicazione sociale devono «evitare le scorciatoie deleterie dell’imprecisione e dei sensazionalismi, fare le scelte eticamente giuste nel propagandare notizie e immagini relative a fatti scabrosi, nel rispetto della difesa dei diritti dei minori coinvolti, e tutelare così il superiore interesse pubblico in un’emergenza sociale rilevante».

Perché non basta più la pur necessaria e valida “selva” di codici e norme deontologiche esistenti, dalla parte dell’infanzia e dell’adolescenza. Se poi – molto spesso - non si rispetta nemmeno quel secondo Punto della Carta degli utenti del servizio pubblico che sottolinea: «Il primo utente è il bambino inteso come soggetto debole. L’infanzia non è terreno di conquista da occupare, utile agli obiettivi di mercato. Occorre accompagnare il minore (nelle sue varie età) nella scoperta della realtà».

I BAMBINI CI GUARDANO

di Renzo Di Renzo

Luce«I bambini ci guardano» è il titolo di un film di Vittorio De Sica del 1943. È un film importante che segna l’inizio di una nuova stagione – quella del neorealismo – che forse non ha a che fare solo con il cinema ma con la nostra vita. La storia la conoscete, è il racconto di un adulterio e della conseguente separazione che avviene sotto gli occhi di un bambino, il piccolo Pricò - che era poi il titolo del racconto scritto da Cesare Giulio Viola già nel 1928, mentre il titolo del film riprendeva quello di una rubrica di Cesare Zavattini, co-sceneggiatore del film, sul settimanale «Grazia». Non so perché, ma è la prima cosa a cui ho pensato quando mi è stato chiesto di affrontare un tema complesso e difficile come quello di raccontare la realtà, quello che ci succede intorno, ogni giorno, soprattutto ai bambini e agli adolescenti.

 

I bambini ci guardano, dunque. E subito dopo ho pensato a un altro titolo, di un libro questa volta, e molto più recente, il romanzo di esordio di Simona Vinci, vincitrice quest’anno del Campiello: Dei bambini non si sa niente. Ecco: i bambini ci guardano, e non solo direi, ci ascoltano, ci percepiscono e ancora di più ci parlano, anche se a volte lo fanno senza parole, e noi invece spesso non sappiamo ascoltarli. Dei bambini non si sa niente, appunto. O peggio, crediamo di sapere e questo ci porta spesso ad avere atteggiamenti sbagliati, incuranti o viceversa troppo protettivi. Tendiamo a sottovalutare la loro “esperienza” del mondo, «tanto non capiscono» è la frase di rito; oppure ci preoccupiamo di nascondere, non far vedere: i bambini devono solo “divertirsi” (da divertere, allontanarsi). Ai primi freddi mettiamo loro un cappello e una sciarpa di lana. Ma sono proprio questi bambini troppo coperti, troppo protetti che sono destinati ad ammalarsi la prima volta che usciranno. Tanto più oggi che il vento della comunicazione entra da ogni parte, da ogni fessura. La realtà non è una cosa da cui possiamo proteggere i bambini: dobbiamo solo insegnare loro ad affrontarla.

Tra le tante cose che ho letto in occasione del centenario di Roald Dahl, uno che sapeva sicuramente come parlare ai bambini, c’era un articolo su BBC Culture che dopo aver elogiato la capacità dei grandi scrittori per bambini di essere un po’ bambini a loro volta, concludeva così: «Se i libri di Dahl contengono un messaggio per noi adulti, è forse proprio che il mondo di un bambino non è tutto rose e fiori, contiene anche ombre - è pauroso, stravagante, perfidamente divertente».

I bambini sono semplici, ma anche quella semplicità implica una spiegazione. Ecco, la prima cosa di cui dobbiamo renderci conto è questa. È un mio difetto o solo un vezzo giocare con le parole. Semplice e spiegare sono due termini che mi hanno sempre affascinato. Semplice significa «piegato una sola volta». Il semplice, quindi, non è un origami, piegato mille volte in maniera studiata: è qualcosa di piegato una volta sola. E perché non piegato allora? Parrebbe più logico. Questa immagine della piega singola è molto eloquente: il semplice non è qualcosa di già squadernato, palese, che si capisce da sé, senza alcuno sforzo. Il semplice è qualcosa che non è difficile da aprire alla propria conoscenza, ma che appunto va aperto. Un bambino è semplice ma questo non vuol dire che sia un foglio di carta bianca, o uno stereotipo: facciamo almeno lo sforzo di aprire quella piega che nasconde un mondo diverso da quello che ci immaginiamo. Spiegare, poi, significa togliere le pieghe. Proprio come se aprissimo un foglio bianco accartocciato e provassimo a stenderlo con la mano, a stirarlo per rendere comprensibile quello che c’è scritto.

Dobbiamo spiegare le cose ai bambini con semplicità. Ma evitando le semplificazioni. È molto difficile essere semplici: bisogna saper togliere ma solo fino a un certo punto. È come nella scultura. Se togli troppo rischi di rovinarla. Bisogna riconoscere l’essenza. Le semplificazioni, invece, sono la cosa più deleteria, trasformano la “storia” in favola, danno una visione edulcorata della realtà o rischiano di replicare il meccanismo dei buoni e cattivi e del lieto fine, cominciano sempre con «c’era una volta» e finiscono con «vissero felici e contenti». Se dico «guerra di religione» è una semplificazione. Se dico «invasione dei migranti» è una semplificazione. Nella realtà, poi, non ci sono tutti e sempre buoni da una parte e tutti e sempre cattivi dall’altra, non è detto che ci sia un lieto fine e che siano i buoni a vincere (tanto per ricordare ancora Dahl, che ha scardinato anche nella favole questo meccanismo: nel suo libro Le Streghe non c’è un vero lieto fine, il bambino trasformato in topo resta un topo mentre nella versione cinematografica il bambino ritorna bambino – del resto anche De Sica aveva girato due finali de I bambini ci guardano, e in uno Pricò si riconciliava con la madre). Voi tutti avreste visto quel video, quell’intervista a un bambino dai tratti orientali dopo gli attentati di Parigi. Certo fa tenerezza il bambino che alla fine dice che i fiori e le “bugie” – intese come candele – ci proteggono e alla fine pare rasserenato. Ma è davvero così? I fiori ci proteggono? O sono solo davvero “bugie”? Io penso piuttosto che ci proteggerà solo la cultura e la conoscenza. La consapevolezza che la diversità è un bene e non un male, che siamo tutti diversi, perciò unici e speciali.

Bisogna saper usare le parole giuste: le parole sono importanti. Lo hanno capito bene due maestri di una scuola elementare proprio qui, in Umbria, a Giove, Franco Lorenzoni e Roberta Passoni. I maestri e le maestre sono le persone più importanti e noi in Italia, ma anche altrove, continuiamo a trattarli come impiegati statali, con uno stipendio misero e pochissima reputazione. Un maestro dovrebbe prendere molto di più dell’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato: in fondo lui fa solo il capostazione, ci porta da un capo all’altro del Paese, ma i maestri ci portano da un capo all’altro della vita, è un viaggio ben più importante e impegnativo.

 

Franco Lorenzoni e Roberta Passoni, dunque. Hanno scritto dei libri, uno di Lorenzoni per Sellerio si chiama I bambini pensano grande, e hanno anche un’associazione, l’associazione Cenci. E di sicuro sono più autorizzati di me a parlare del tema. Scrivono questo e io lo condivido:

«I bambini sono continuamente circondati da immagini violente, proposte loro da film, cartoni e videogiochi sempre più sofisticati. I telegiornali, magari visti di sfuggita, non li risparmiano di orrori che talvolta tornano nei sogni. La cosa peggiore è che tutta questa violenza si depositi in loro confusa e indistinta. Per questo mi vado convincendo sempre più che la scuola non possa non occuparsene e che noi insegnanti si debba azzardare una sorta di educazione alla fragilità, alla vulnerabilità, all’essere toccati da ciò che accade nel mondo.

Se vogliamo provare ad educare alla pace e alla convivenza, come siamo chiamati a fare, dobbiamo in qualche modo avvicinare e imparare a guardare in faccia la guerra, non voltandoci dall’altra parte. Dobbiamo educare alla non indifferenza, trovando il tempo per fare emergere e condividere emozioni e pensieri».

 

E poi ancora:

«Nella mia esperienza ho imparato che la fotografia può essere di grande aiuto perché, a differenza delle immagini in movimento, ci costringe a sostare, guardare, guardarci dentro. Ci aiuta a sostare intorno a domande aperte e ad evitare le semplificazioni».

Evitare le semplificazioni, quindi, come dicevo. E qui potremmo aprire tutta una parentesi sui nuovi media, i veri organi di informazione corrente che sono i social media, e sul rapporto tra superficialità e approfondimento dell’informazione. Io ho un rapporto molto distaccato con i social. Li seguo, naturalmente, li frequento ma in modo piuttosto passivo, non li uso. Come scriveva Oscar Wilde, «A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio». Gli stupidi ci sono sempre stati, Facebook li ha solo messi in ordine alfabetico. In realtà è difficile non sembrare scemi usando Facebook (ma è lo stesso anche in televisione). Comunque Facebook è l’evoluzione estrema della superficialità che già governava il web. Recentemente le giornaliste di «Vogue» hanno polemizzato contro la proliferazione dei fashion blogger: pur se difficile da non prendere (anche) come una sterile difesa di casta, c’è del vero. E d’altro canto, quando è nato «Colors», la rivista fondata da Oliviero Toscani per Benetton, poiché si voleva fare qualcosa di assolutamente nuovo, l’unica regola era che non ci fossero giornalisti professionisti a lavorarci… Il primo numero di «Colors» è del luglio 1991. È curioso leggere oggi l’editoriale in cui si parla del fax come uno strumento tecnologico in grado di connettere le persone. Allora non c’era il web e «Colors» rappresentava una finestra sul mondo, era davvero «a magazine about the rest of the world», che sotto intendeva anche la relatività del concetto di “centro”.

Quando ho cominciato ad occuparmi da solo di «Colors», dopo che Toscani se ne era andato, mi sono posto il problema: i tempi sono cambiati e forse anche la rivista doveva cambiare. Quello che una volta faceva «Colors», ormai lo faceva la rete: «Colors» doveva andare allora nella direzione opposta, nell’approfondimento a campione. Per il numero 41 la redazione si è trasferita per tre settimane in un campo profughi in Tanzania, per raccontare attraverso le storie di quelle persone, la storia e la vita di tutti i profughi. Anche Enzo Biagi aveva scritto un articolo su quel campo profughi: solo che lui era uscito dal suo albergo di lusso, si era fatto portare con l’auto con l’aria condizionata al campo, ne era sceso per una o due ore al massimo, aveva fatto qualche domanda e aveva confezionato il pezzo, pur con la sua innegabile maestria. Ma con un approccio diverso…

Ma forse questo non c’entra con i bambini, se non con il fatto che tutti noi, prima di diventare adulti, siamo bambini, e che quello che diventeremo o siamo diventati da grandi dipende anche in gran parte da quello che abbiamo visto, imparato, conosciuto da bambini.

Si parlava anche di fotografia. Ecco: prendiamo le immagini. Già “immagine” è un termine che riguarda solo noi umani, perché ha a che fare con l’immaginazione. C’è un libro che è diventato un piccolo cult, di uno storico israeliano,Yuval Noah Harari, Da animali a Dei (Sapiens), che spiega la storia dell’umanità sulla base di questo paradigma.

Il segreto del nostro successo è l’immaginazione. Siamo gli unici animali capaci di parlare di cose che esistono solo nella nostra immaginazione: come divinità, nazioni, leggi e soldi. 

Religione e soldi – che poi è un’altra religione, sono gli indizi più evidenti. Provate a chiedere a una scimmia di darvi la sua banana in cambio di un pezzo di carta: non ci pensa nemmeno. I soldi sono un paradosso, sono il frutto non solo di una convenzione ma anche appunto della nostra immaginazione: noi assimiliamo i soldi a quello che possono comprare. Che motivo c’è per cui uno stesso foglio di carta azzurro valga 20€ e verde ne valga 100€? Per non parlare poi delle monete da 1 o 2 centesimi che costano in realtà tra i 4 o 5 centesimi. Ci devono essere dei geni alla Zecca…

Immagine deriva da mimesi, imitazione, quindi un’immagine dovrebbe rappresentare la realtà, ma ormai l’immagine è diventata più forte della realtà stessa, più vera, più credibile. Tra la realtà – che spesso non vediamo - e la fotografia – che invece vediamo – è la fotografia a vincere e ad avere più autorevolezza.

La fotografia ormai è diventato il più potente mezzo espressivo a disposizione di tutti: più facile della pittura, più semplice della scrittura, più universale della musica, più forte di un video. Non ci sono apparentemente vincoli tecnici o abilità specifiche: tutti possono scattare una fotografia con il proprio smartphone. Tutti sanno fotografare come tutti sanno scrivere: ma questo non vuol dire che tutti siano poeti, scrittori o, appunto, fotografi.

Oggi parliamo di fotografie scioccanti, quasi mai ci preoccupiamo della realtà che è scioccante. Tutti noi abbiamo negli occhi la foto del bambino sulla spiaggia, eppure il dramma dei rifugiati, i mille altri morti stanno lì, sullo sfondo, non ci colpiscono. Del resto per fortuna ci sono ancora immagini in grado di scioccarci, per fortuna non siamo ancora arrivati all’assuefazione, al grado zero della sensibilità.

Viviano nella civiltà, o meglio nell’inciviltà delle immagini. E anche questo in fondo riguarda l’educazione. È un argomento che mi sta molto a cuore quello dell’educazione generale, come si è capito, e anche dell’educazione alla lettura delle immagini. Se un bambino scrive un testo con degli errori di grammatica od ortografia, maestri e genitori sono pronti a correggerlo ma se lo stesso bambino disegna una casa un po’ sghemba, senza alcuna prospettiva, con un albero sproporzionato appoggiato ad una linea verde che dovrebbe essere la terra e il sole con i raggi in un cielo inesistente, allora sono pronti a blandirlo e a compiacersi per la sua abilità e fantasia, senza emendarlo.

Io in fondo ho cominciato a scrivere per i bambini, per alcuni bambini in particolare – i figli dei miei amici - proprio per spiegare loro alcune cose che mi riguardavano in particolare, ma che riguardavano in fondo anche loro. Ho cominciato un Natale decidendo che d’ora in avanti non avrei più fatto dei regali normali ma avrei scritto per loro delle storie. Stavano cominciando a diventare un po’ troppi… Ogni volta che giravo per negozi di giocattoli a Natale mi tornava in mente una ricerca fatta ai tempi di «Colors»: in un paese occidentale un bambino benestante desidera per Natale 4 o 5 regali, ne riceve in media 12. Così la prima storia riguardava proprio Babbo Natale che si ritraeva sconvolto da quell’impero consumistico che lui stesso aveva contribuito a creare e si ritirava in riva a un lago a scrivere storie da regalare ai bambini.

Pensavo a quello che aveva scritto Tahar Ben Jelloun nell’introduzione del suo libro sul razzismo scritto per la figlia. Diceva: «Sono partito dal principio che la lotta contro il razzismo comincia con l’educazione. Si possono educare i bambini, non gli adulti. Quanto ho scritto è stato pensato con una preoccupazione pedagogica».

La forza delle storie. Mi sono imposto anch’io questa missione, per provare a mutare un po’, anche solo di un centesimo di grado, il corso delle cose. So che non c’è speranza con gli adulti: siamo di fronte a un crinale sempre più pericoloso, si costruiscono muri, si pensa di avere diritti esclusivi sulla vita e la morte solo per il semplice fatto di essere nati in una parte del mondo piuttosto che in un’altra. «Io starò sempre dalla parte di chi non ha una parte dove stare», ho anche scritto in una poesia. Ma i bambini forse li possiamo ancora salvare (o piuttosto loro, per parafrasare un altro titolo di un libro, possono salvare noi…).

Nel frattempo avevo avviato le pratiche di adozione, ed anche di questo volevo parlare ai figli dei miei amici che avevano visto me e mia moglie sempre e solo come una coppia e all’improvviso ci avrebbero visto con un bambino o una bambina. Così ho scritto un’altra storia, che questa volta si chiamava La Freccia Cometa. Era più o meno la storia di un avvento, in cui alla fine compariva al posto di Gesù un bambino nero, mio figlio.

 

La cosa ha funzionato, così poi sono venuti Nero, Un regalo speciale e Due Destini, appunto. Tutti scritti per il piacere di raccontare, certo, ma anche appunto per un intento pedagogico. Due Destini, in particolare, è un libro a cui tengo molto, scritto appositamente per supportare e aiutare a far conoscere l’attività di Medici con L’Africa-Cuamm. È la storia parallela di due bambini che nascono esattamente lo stesso giorno, uno in Italia e uno in Africa, e la cui vicenda è destinata fatalmente ad incrociarsi. Alla base ci sono due idee molto semplici: la prima è che noi non abbiamo nessun merito o nessuna colpa per essere nati in un posto o l’altro del mondo, e la seconda è che i nostri destini sono comunque collegati e non ci può essere pace, giustizia o libertà se non c’è pace, giustizia e libertà per tutti.  

Educare alla diversità. Il tema, in fondo è sempre lo stesso, ed è credo quello si cui si misurerà la sopravvivenza della specie. Non è l’energia, la sostenibilità, lo sviluppo – certo, tutte cose importanti. È la convivenza, e di contro il razzismo, la consapevolezza della diversità che non deve implicare giudizi di valore, la solidarietà.

Educhiamo i bambini a questo e cerchiamo di farlo anche e soprattutto con il nostro esempio. I bambini ci guardano: facciamo che ci vedano un po’ meglio di quello che siamo.

MINORI E PRODOTTI MUSICALI MASS-MEDIALI

di Marco Brusati

Introduzione

brusattiQuali modelli antropologici i minori incontrano nei prodotti musicali mass-mediali e che influenza questi ultimi stanno avendo nei loro percorsi di crescita?

Per cercare di rispondere ad una questione così complessa e non potendo parlare di tutti i minori, né di tutte le esperienze musicali, dobbiamo iniziare limitando il campo di analisi: ci concentriamo così sui preadolescenti e gli adolescenti (femmine 8-12 anni, maschi 10-14) che sono entrati in relazione, a vari livelli, con il mondo pop-rock e hip-hop.

Perché parlare di prodotti musicali?

La musica oggi ha due funzioni sociali privilegiate ed imprescindibili: quella di sherpa, che apre strade nuove nelle coscienze, e quella di architetto, che ri-progetta le gerarchie valoriali. Inoltre, nell’epoca della percezione iconica, evocativa e non-logica, la musica interessa tutti i canali di comunicazione: radio, televisione, cinema, fiction, web, social network, eventi live; possiamo perciò dire che la musica è per-formatrice culturale e che le nuove generazioni stanno ri-modulando la loro vita su modelli affascinanti nel brevissimo periodo, ma che non saziano la fame di bellezza, verità e bontà.

Infine, i prodotti musicali mass-mediali possono essere usati come una macchina del tempo. Quello che oggi sta interessando l’ambito legislativo (ad esempio: pezzi di ideologia gender, uso della cannabis) e che sta passando in quello educativo (scuole) è transitato 10 anni fa dalla pop-music americana per diffondersi in tutto il mondo occidentale. Così, leggendo le proposte antropologiche di oggi provenienti dal mondo musicale mass-mediale, possiamo capire cosa potrebbe succedere entro un paio di lustri in campo normativo e in campo educativo.

 

Alcuni dati

Alcuni dati ci permettono di evidenziare la stretta correlazione tra i nuovi modelli antropologici e quelli musicali mass-mediali.

  1. I soggetti che nel mondo realizzano circa il 75% dei prodotti musicali mass-mediali sono 3: Universal Music Group, Sony Music Entertainment e Warner Music Group.
  2. Secondo l’Accademia Americana dei Pediatri (A.A.P.) un bambino tra gli 8 e i 10 anni passa quasi 8 ore al giorno davanti a computer, smartphone e televisione, mentre per gli adolescenti le ore sono 11: il che significa che a 7 anni i bambini hanno già trascorso un anno davanti ad uno schermo.
  3. L’inchiesta “Sex and Teen” pubblicata da Il fatto Quotidiano evidenzia che l’attività sessuale delle adolescenti, dalla prima volta alla frequenza successiva, è uno strumento per farsi accettare dal gruppo e non venire marginalizzate.
  4. Da un’indagine di Skuola.net e Adolescenza.it su un campione di circa 5mila under-14 è emerso che 1 adolescente su 10 ha postato immagini intime o per far colpo (22%) o per scherzo (23%). Il 17% di queste immagini è stata abusivamente trasmessa ad altri in chat private o pubbliche. Chi ha subito questo abuso ha pensato al suicidio nel 50% dei casi e nel 10% ha tentato di togliersi la vita.
  5. In Italia, nel 2015, in un solo anno, gli adolescenti che usano eroina sono passati dall’1% al 2%, mentre quelli che fumano cannabis sono aumentati dal 22% al 27%. Lo dice il CNR. Statisticamente, lo scostamento è di straordinaria evidenza. Eroina: più 100%. Cannabis: più 23%.

Cosa ci suggeriscono questi dati

Questi dati ci suggeriscono anzitutto che, all’arrivo nell’adolescenza, i minori sono stati per oltre un anno esposti a modelli antropologici promossi a livello globale da uno sparuto gruppo di produttori e che, in varie forme e nella diversità dei progetti, fanno loro una proposta piuttosto omogenea e che si può riassumere così: “il tuo tempo è il tempo del divertimento e nel tuo tempo fai quello che vuoi”.

Divertimento è uscire, andare fuori con il gruppo dei pari, stare lontano da tutto ciò che sa di ordine e regola, siano essi genitori, insegnanti, educatori o sacerdoti, percepiti come agenti allergenici o antidoti al vero divertimento. Ascoltando una canzone o vedendo un video musicale, per esempio, si può facilmente intuire che il divertimento ha due caratteristiche che richiamano l’epoca pagana: è orgiastico e dionisiaco, ovvero è finalizzato alla sovraeccitazione dei sensi (orgiastico) e all’andare fuori controllo con una sostanza additiva (dionisiaco), in un tempo sospeso tra altri pezzi di vita.

Il divertimento, detto in modo diverso, è un non-luogo e un non-tempo s-regolato, dove gli avversari da superare non sono, per esempio, i competitor sportivi, ma le proprie possibilità e la propria resistenza, talvolta anche in termini di ore senza dormire, alcol o sostanze psicotrope.

L’archetipo di questa prospettiva è ben rappresentato da We can’t stop di Miley Cyrus, che, ricordiamo, è stata la protagonista di Hannah Montana, fiction Disney, che canta: “Possiamo dire quel che vogliamo, è la nostra festa; possiamo amare chi vogliamo, possiamo baciare chi vogliamo, possiamo vivere come vogliamo. Ci piace fare festa, ballare con Miley, facendo quello che vogliamo; questa è la nostra casa, queste sono le nostre regole e non possiamo fermarci e non ci fermeremo: non capisci che è così che si possiede la notte? (…) E tutti in fila nel bagno provando a farsi una striscia:  siamo tutti così accesi, qui ci accendiamo, sì”.

Ci accendiamo sniffando, o ci calmiamo fumando, la proposta è grosso modo la stessa, anche senza andare negli Stati Uniti: prendiamo due esempi italiani, più diretti ai maschi rispetto alla proposta precedente che, invece, ha un target più femminile.

Nel brano “Fumo”, il rapper Clementino canta: “21 come lettere nell'alfabeto, 21 il giorno di dicembre che son nato, 21 se li sommi è perfetto consumo, 21 come le canne che fumo; si te piac 'o sound te piac 'a ganjaa”. Nel brano “Sempre vero” è Moreno a cantare: “Ormai sklero anche a prendere l’aereo (…) e mi controllano se (…) mi porto dell’ero quando al massimo trasporto due canne di nero pregio”.

Nel brano “Happy Meal”, Rocco Hunt canta: “E se faccio un disco d’oro lo appendo in quartiere in ricordo delle canne, delle birre e delle sere”.

Strettamente collegata al modello che via via si sta delineando, c’è la questione della genitalizzazione precoce, che cresce in un humus culturale ed etico alimentato continuamente dal sistema musicale mass-mediale. Per esempio, l’apparizione senza veli di Demi Lovato, che ha postato su Instagram una foto che poco lascia all’immaginazione per il lancio di un recente disco. Al senza veli e alla gestualità dai forti richiami sessuali ci ha abituato la già citata pop-star, Miley Cyrus, che si espone nei video musicali (tra tutti, Wrecking Ball), nei programmi televisivi (tra tutti, il World Music Award) e nella vita privata. Al twerking (danza erotica) si dedicano pop-star come Lady Gaga, Katy Perry e Taylor Swift.

L’eros diventa pornéia e non è più nemmeno riconducibile alla sfera privata di una coppia seppure non costituita stabilmente, ma ha una sua valenza pubblica ed è una sorta di visto sul passaporto per il gruppo, un must per la propria accettazione, nonché una validazione dell’identità. Che il gruppo sia quello della scuola o quello del pubblico planetario poco conta. È da qui che deriva pure l’abitudine diffusa a postare immagini intime, in una sorta di processo mimetico, per dirla con René Girard.

Il processo in atto è simile a quello che lo psicologo statunitense Stanley Milgram chiamava, già nel 1961, la generazione di uno “stato eteronomico”, che induce la persona a comportarsi come chiede chi è percepito come autorità in un dato momento o in un certo ambito. Per i preadolescenti e gli adolescenti, la star-cantante diventa perciò l’autorità, che determina non solo la percezione di ciò che è bello, cioè la forma artistica, ma anche di ciò che è vero e buono; in particolare, il sistema delle pop-star americane e lo star-system dei cantanti hip-hop si presenta oggi come un’uniforme e coerente autorità cui obbedire per imitazione.

Cosa possiamo fare?

Proponiamo alcuni semplici atteggiamenti che possono costituire, in questo specifico ambito, un punto di partenza.

Anzitutto, per dare un aiuto competente, occorre capire la situazione, che può essere riassunta così: i modelli musicali mass-mediali hanno affermato la cultura del divertimento come spazio preadolescenziale e adolescenziale imprescindibile e caratterizzante quell’età, che è orgiastico e dionisiaco.

In secondo luogo, bisognerebbe evitare di riba-dire il classico “più ballo, meno sballo”: sono vent’anni che sentiamo ripetere questo mantra quando, per esempio, un ragazzo muore di droga in discoteca, com’è accaduto al Cocoricò di Riccione, proprio nel 2015, l’anno in cui l’uso delle sostanza psicotrope è aumentato vertiginosamente. “Più ballo, meno sballo” è una terribile menzogna, che, tradotta, significa: è possibile sballare un pochino, ma non troppo; è possibile star fuori fino alle 7 del mattino, ballare e uscire col sorriso sulle labbra, tirati a nuovo come dall’estetista; basterebbe togliere droga, musica massacrante e sesso e le discoteche sarebbero degli oratori laici dove passare il tempo in compagnia di amici e amiche, magari parlando di come mettere su famiglia. In realtà, quel ballo, in quei luoghi, a quelle ore, con quella musica è, ontologicamente, “sballo”: l’uno senza l’altro sono inconcepibili nella mente formattata di chi in quei luoghi ci va “per lo sballo”: “sballo” di volume, frequenze basse e ritmo; “sballo” di ecstasy e di alcol; “sballo” erotico in pedana, sul cubo, nei bagni o nei parcheggi.

Infine, le comunità educanti, quelle cristiane in primis, dovrebbero iniziare a sostenere l’uso consapevole e critico dei prodotti musicali mass-mediali con specifici progetti di formazione per preadolescenti e adolescenti.

E i giornalisti cattolici?

È importante che i giornalisti cattolici continuino ad avere viva coscienza di essere un’agenzia educativa primaria e di svolgere un’originale quanto insostituibile attività pedagogica, in quanto, notiziando, generano costume e sostengono la diffusione di modelli antropologici. Con questa consapevolezza, hanno pertanto la possibilità missionaria di illuminare la zona grigia del divertimento dei minori, contribuendo a sollevare l’attenzione su cosa ascoltano, vedono e su come vivono tempi e spazi sempre più terra di nessuno. Il tutto, come opera ormai irrinunciabile oltre che interessante.

 

DALLA PARTE DEI RAGAZZI

di Stefano Gorla

Schermata 2017 01 19 alle 16.23.42Dichiaro subito qual è il punto di vista in cui mi colloco, lo schieramento che adotto come sfondo: io sto dalla parte di bambini e ragazzi, così semplicemente, senza demagogia.

Nella relazione tra media e minori, in quel mondo capovolto vagheggiato nel titolo della tavola rotonda che ha concluso la Scuola di formazione dell’UCSI, tenutasi a Assisi, io sto dalla loro parte, come indirizzo, prerequisito, scelta.

Non perché siano più deboli o per paternalismo ma perché nello scenario del nostro tempo penso che investire su bambini e ragazzi sia una scelta sensata, indispensabile e anche in qualche modo inevitabile, non avendo vere e altre alternative.

E questo senza scordarci di un dato che è bene non dare per scontato: il bambino e il ragazzo non è oggetto di educazione ma soggetto, dotato di propria esperienza, sensibilità, inclinazione. Insomma, non possiamo camminare senza di lui. È un rischio? Assolutamente sì.

Prendere i ragazzi sul serio

Una scelta in qualche modo controcorrente di questi tempi. Al di là dei proclami, il mondo di bambini e ragazzi è sempre meno valutato, ci si pone poca attenzione. Al massimo lì si degna di uno sguardo fintamente protettivo o, più spesso, li si sfrutta, un po’ come avveniva nella Londra dickensiana, anche se ora lo sfruttamento è più emotivo che fisico. E anche per il mondo della comunicazione quando si pensa a bambini e ragazzi, raramente si pensa e si parla di un loro protagonismo, ma lì si immagina come menti da plasmare, come cuori e vite da riempire e, sostanzialmente, lì si sottovaluta.

Ma bambini e ragazzi vanno presi sul serio. È questo lo scenario che si presenta al comunicatore, al giornalista. C’è, nell’approccio al mondo dell’infanzia, una coniugazione che si avvicina all’educazione e, come ci ricorda, il poeta, scrittore e mistico irlandese William Butler Yeats: «Educare non è riempire un secchio ma accendere un fuoco». Questo chiede al comunicatore alcune attenzioni: l’ascolto, l’empatia e la capacità di fornire strumenti per leggere la realtà.

Abitare il mondo di bambini e ragazzi. Alla ricerca di una grammatica e una sintassi per comunicare con il mondo dell’infanzia

Se ascolto, empatia e capacità di fornire strumenti per leggere la realtà sono le direttive principe per comunicare con bambini e ragazzi, abitare il loro mondo porta con sé qualche attenzione in più. Si tratta di trovare un equilibrio, di sentirsi a casa propria in quel mondo. Ma come imparare a farlo? Si tratta di trovare e aprire canali di comunicazione, nel rispetto dell’altro come soggetto. Si tratta di porre in atto quel sapere pratico, quel saper fare comunicazione, quel parlare lingue comprensibili, aprendo canali di comunicazione adeguati, relazioni dove si giocano competenza e fantasia.

È di primaria importanza, non ci stancheremo di ripeterlo, il rispetto di ciò che bambini e ragazzi sono. Un sano bagno nella realtà. Non quella spiata attraverso sondaggi, ricerche e il bisogno insopprimibile di classificare, quel risistemare il mondo da adulti. Si tratta di misurarsi con l’esperienza, la sensibilità, le inclinazioni di bambini e ragazzi. Si tratta di esplorare il mondo di bambini e ragazzi.

Di chi stiamo parlando, quando cerchiamo di individuare qualche tratto delle persone che hanno dai 3 ai 17 anni?

È una domanda che chiede risposte articolate e complesse, nello sforzo di definire e categorizzare, sforzo che in genere si appoggia sulla cronaca dei casi, la sociologia dei dati, la psicologia dei ritratti e qualche volta il marketing dei target, con il rischio dell’eventizzazione del quotidiano e della sua narrazione compiaciuta (pensiamo, per esempio, al libro “Gli Sdraiati” di Michele Serra).

Elementi e dati tecnici che, al di là di qualche difficoltà lessicale, non sempre aiutano ad una migliore comprensione dei ragazzi. Uno sguardo che cerca di fornire un identikit dei ragazzi deve sempre coniugarsi con l’osservazione sul campo, un ascolto dei ragazzi concreti che ci si trova davanti o eventualmente, di quelli che si vanno a cercare nei loro luoghi di vita.

Nativi digitali

Tra le categorie più in voga di questi tempi, c’è certamente quella dei “nativi digitali” o “tecnoager”, definizioni che possono però rimanere vuote e che abbisognano di essere indagate meglio.

“Nativi digitali” è una definizione di grande successo introdotta da Marc Prensky nel 2001. Definizione che nel tempo ha assunto qualche livello di ambiguità che è bene sciogliere.

Normalmente si definiscono “nativi digitali” quelle persone che sono cresciute con le tecnologie digitali e sono in grado di usare telefoni cellulari, riproduttori di MP3, telecomandi complessi, videogiochi, computer, social media con grande facilità; persone che si trovano a proprio agio nella rete digitale, percependo il mondo legato alla tecnologia come spazio d’assoluta normalità. L’approccio è corretto, ma è buona cosa ricordare che ci troviamo di fronte non a una definizione “anagrafica” ma esperienziale. Ovvero è nativo digitale chi usa intuitivamente, senza sforzo, le tecnologie digitali. È una questione di capacità non di età: si può essere “nativi digitali” a 40 anni e non esserlo a 14.

Resta un fatto che spesso sono gli adulti a essere tecnoscettici, e a volte tecnofobici oppure veri e propri “immigrati digitali” ma anche che esistono bambini e ragazzi che hanno una scarsa affinità con il mondo digitale. Questo per non dare nulla per scontato e per evitare banalizzazioni.

Quando si parla di mondo digitale, come per qualsiasi orizzonte, ci sono competenza e diverse “generazioni”. Il mondo digitale agito da bambini, ragazzi o adulti valorizza, per esempio, una modalità d’apprendimento più percettivo e meno simbolico; favorisce lo sviluppo di particolari abilità visivo-motorie e ha peculiari modalità aggregative che tendono a rarefarsi privilegiando la dimensione virtuale e modelli di socializzazione dove la strumentazione tecnica e il linguaggio digitale assumono un’importanza fondamentale.

Tutto ciò significa particolari approcci cognitivi (la modalità di apprendimento più diffusa sembra essere quella per prove ed errori) e capacità attentive peculiari, elementi da conoscere e considerare per poter aprire canali di comunicazione efficaci ed efficienti.

Mi sembra, in questa prospettiva, che il mondo dei bambini e dei ragazzi sia segnata da abilità multitasking ovvero quella modalità che nel linguaggio informatico identifica uno schema operativo che permette di eseguire più programmi contemporaneamente.

Siamo di fronte a generazioni che privilegiano la pluralità degli strumenti e non l’alternativa chiusa, l’«aut-aut»; un approccio che privilegia l’«et-et». Mi sembra che il problema principale, quindi, non sia quello di cercare il medium giusto per la comunicazione o la maggior efficacia della stessa. Penso che la discriminante vera sia nell’offrire diversi canali comunicativi e diversi prodotti, ponendo attenzione al contenuto di ciò che si offre più che al contenitore.

Altro dato che è necessario considerare è che i ragazzi, guardati dal punto di vista dei media elettronici, sono immersi in un mondo, in qualche misura totalizzante, dove con i media elettronici giocano, ascoltano musica, ricercano informazioni, fruiscono materiale multimediale soprattutto grazie a piattaforme come YouTube dove diversi linguaggi, il verbale, il visivo, l’audiovisivo si integrano. Questo, mediamente, valorizza la capacità di interagire con stimoli diversi e una certa abilità nell’integrare diversi elementi, riuscendo a elaborare immediatamente e in maniera flessibile le informazioni. Acquisiscono dati, molteplici informazioni e stimoli che imparano presto a gestire. Infine, conoscono il mondo e i linguaggi dei media che, come abbiamo detto, percepiscono come famigliare e parte naturalmente integrata nel loro ambiente di vita, quindi tendenzialmente percepiscono i media e i loro linguaggi come invisibili e armonicamente presenti nella quotidianità.

Abituati a particolari attenzioni nei loro confronti, bambini e ragazzi, si attendono queste da ogni adulto che interagisce con loro e le ritengo normali. Il loro orizzonte valoriale è definito dal prevalere dell’attenzione all’individuale più che al sociale e dalla dominanza del relazionale affettivo.

Non dimenticherei, tracciando questo orizzonte, il tema del fallimento, spesso sottovalutato o allontanato dalla vita di bambini e ragazzi come elemento disturbatore e fastidioso. Ma se al centro del nostro sguardo vogliamo mettere la vita reale di bambini e ragazzi, sarebbe un errore non considerare questa dimensione. Si tratta di una dimensione essenziale per articolare due aspetti che hanno a che fare con la vita di ognuno: ovvero il desiderio e il limite. Una dinamica d’aver ben presente nella relazione con il mondo dei ragazzi. Certo, è bene che l’adulto sia, almeno in parte, riconciliato con questo aspetto.

La porta d’ingresso della curiosità: educare divertendo, una formula strategica

C’è un varco che ci permette di entrare nell’universo di bambini e ragazzi, che ben afferisce alla professione giornalistica, ed è quello della curiosità, elemento che asseconda la voglia di bambini e ragazzi di scoprire sé stessi, gli altri, le cose, il mondo.

Nella fascia dei piccoli è importante far crescere la curiosità attraverso giochi, un modo divertente per sviluppare logica e osservazione, e attività, modalità per stimolare la fantasia e la creatività. Per i bambini e ragazzi, la curiosità è una risorsa strategica che li ingaggia e lì porta a scoprire e a condividere le scoperte. Da un punto di vista cognitivo si tratta di assecondare la voglia di imparare qualcosa di nuovo e di avvincente e per questo è necessario fornire informazioni di qualità, uno sguardo avventuroso al mondo, alimentando il loro immaginario con narrazioni, informazioni e indicazioni di percorsi, nella consapevolezza che la curiosità sia la porta d’ingresso per un approccio critico al sapere, coniugando entertainment, divertimento, informazione e formazione.

C’è una formula nella storia dell’editoria periodica per ragazzi, in modo particolare quella che afferisce al mondo cattolico con riviste come il Giornalino e il Vittorioso, che è diventata paradigma: si tratta dell’«educare divertendo», quasi un motto per riviste come il Giornalino, la più longeva rivista europea per ragazzi. Una formula che sintetizza lo sforzo e la consapevolezza dell’offerta di un giornale che aiuta i ragazzi a far emergere interessi e curiosità, avendoli sempre come protagonisti.

Un esempio editoriale

Prendiamo a esempio di questo percorso, proprio il settimanale il Giornalino della Periodici San Paolo. Lasciando a lato le vicende storiche – il settimanale nacque nell’ottobre del 1924 – i due pilastri intorno ai quali si è costruita la rivista sono: i fumetti e il giornalismo per ragazzi, cui si sono affiancati la forte interattività e il dialogo con i lettori. I due pilastri hanno concorso a realizzare il progetto della rivista: fornire a bambini e ragazzi gli strumenti per leggere la realtà, la quotidianità, armonizzando uno sguardo attento ai gusti e ai consumi culturali dei lettori e una capacità di proposta tipica dell’educatore.

L’attenzione alla pluralità di temi e del dibattito societario ha portato il settimanale a offrire, a bambini e ragazzi, attraverso la grammatica e la sintassi dell’avventura e del divertimento, un immaginario con cui esprimersi e punti di riferimento per leggere la realtà. È emblematica da questo punto di vista la serie a fumetti “Il Commissario Spada” che ha fornito agli adolescenti degli anni ’70 del secolo scorso, la lingua per dire e comprendere il terrorismo, le sette sataniche, gli hippy e i traffici illeciti internazionali. Ma questo è solo un esempio. La costante interazione generazionale ha abitato storie e narrazioni: il dibattito e la complicità, le tensioni e le fatiche famigliari sono state indagate e raccontate, così come il tema della pace, dello sviluppo della società e dei sentimenti, le tematiche religiose, senza cadere nel didascalismo e con un particolare equilibrio per quanto riguarda l’educazione di genere, tenendo insieme temi esplicitamente femminili e temi maschili; offrendo la possibilità del confronto e della lettura non ruolizzata. Parole e immagini si sono sforzate di offrire modelli di donne e uomini, di ruoli e di relazioni, improntati all’alterità vissuta come ricchezza, facendo intuire strade per risolvere le inevitabili conflittualità. Stili e narrazioni, sia grafiche sia testuali, hanno contribuito in modo inequivocabile a questo processo puntando sulla dimensione della scoperta e della curiosità, vera porta d’ingresso dell’approfondimento e del formarsi del gusto e dell’interesse. Pur nelle diversità e nelle specificità di un tempo oggettivamente lungo, il Giornalino si è sforzato di dare ai lettori un giornalismo vero, contribuendo a creare il “genere” giornalismo per ragazzi. Un approccio ai diversi temi rispettoso dell’intelligenza e della sagacia dei lettori, consapevole dell’età e dell’esperienza dei lettori stessi.

Tradurre per bambini e ragazzi: quale lingua per informare e comunicare?

In conclusione, un accenno alla lingua necessaria per comunicare con bambini e ragazzi.

Diceva don Giacomo Alberione, il fondatore de il Giornalino, che «scrivere per fanciulli è arte singolarmente rara e difficile che, oltre una vocazione speciale, richiede nell’apostolo preparazione adeguata e attività sapiente». Erano gli anni ’40 del Novecento e una vent’anni dopo anche il laico, Dino Buzzati, ricordava che «scrivere per ragazzi è come scrivere per gli adulti, solo più difficile».

Quale lingua utilizzare, quindi? Un linguaggio articolato, come risorsa e insieme come strategia. Una costante sfida in cui coniugare avventura, informazione, educazione, fornendo ai ragazzi una grammatica e una sintassi per capirsi e dirsi, per capire e dire il mondo che li circonda, e non solo il mondo dei ragazzi ma il mondo tout court. Questo chiede al comunicatore una ricerca lessicale che insegua la semplicità senza essere banale o banalizzante, un linguaggio che sappia coniugare il verbale, il visivo e sappia mettersi in contatto con l’immaginario di bambini e ragazzi. Una lingua che sappia raccontare e non dimentichi di emozionare e avvincere. Una lingua che tenga lo sguardo fisso sull’interlocutore e non si autocompiaccia.

Questo richiede al comunicatore un esercizio costante, un’ascesi del linguaggio, una particolare attenzione ai lettori. Ma non è questa forse l’essenza della professione giornalistica?

Tante domande aperte

Elvira D’Amato

babeleNotizieL’esperienza della Polizia Postale sul campo del contrasto alla pedofilia in Rete parte dalla fine degli anni Novanta. Si comincia a parlare di Cyber Crime in tutto il mondo e di come approntare strutture specializzate nel contrasto a quel tipo di criminalità.

Dal ‘98, anno in cui nasce la nostra prima legge che ci consente di operare il contrasto alla pedopornografia on-line, sono passati diversi anni. Ma ancora oggi la nostra normativa è tra le migliori al mondo e grazie ad essa, scritta da addetti ai lavori, noi possiamo attivare identità di copertura on-line. L’attività sotto copertura è una cosa seria, non si improvvisa, si impara anche passando da insuccessi e osando. Significa incontrare, in tempo reale, interagire e comunicare con il nemico. In proposito è fondamentale approntare il coordinamento delle attività investigative, sia a livello nazionale - il cui ruolo è assolto dal Centro Nazionale per il contrasto della pedopornografia online della Polizia Postale- che internazionale. In tal senso oggi più che mai la sfida ha assunto attraverso la Rete dimensioni globali e pertanto l’interazione internazionale tra forze di polizia è fondamentale.

 

Le autostrade sotterranee del Dark Web

Vedo molti articoli abbastanza imprecisi e mi chiedo il perché. Se il tema è così scabroso, così importante e così vitale perché se ne parla spesso con approssimazione? È una sfida tremenda per noi investigatori il Dark Web.

Incontri come questo di Assisi sono preziosi proprio per supportare una più corretta informazione data la complessità delle tematiche del cybercrime.

Nelle reti darknet, quelle ove vige l’assoluto anonimato, vi sono ampi gruppi pedofili che si scambiano materiale, che si insegnano vicendevolmente “ i trucchi del mestiere” incluse le cautele per non essere intercettati. Le comunità pedofile oggi sono diverse da quelle di dieci anni fa. Sono comunità che si sono strutturate gerarchicamente e utilizzano forme di potere. Agiscono esattamente come la criminalità organizzata classica.

Spesso si sente dire che il darkweb sia la nuova frontiera dell’adescamento di giovani e tale affermazione sembra minimizzarne la reale portata che si rifà piuttosto a veri e propri soggetti abusanti che scambiano il proprio materiale autoprodotto.  

 

Il Cyber bullo

Sono i ragazzi oramai la longa manus di questo male sociale. Quando avviene la prevaricazione di un minore su un altro minore magari attraverso la divulgazione di materiale intimo, talvolta pedopornografico, prodotto dalle vittime ad opera dei nuovi “bulli”,ci si deve interrogare su come fornire le risposte adeguate.

Di fronte a tali fenomeni si deve guardare oltre il nostro ruolo di investigatori, cercando di ascoltare e capire cosa c’è dietro certi comportamenti dei più giovani. Di sovente, in effetti, molti genitori e molti insegnanti ancora non realizzano per tempo che si è verificato un episodio allarmante e quando sono costretti ad affrontarlo non sanno precisamente qual è il quadro istituzionale di riferimento.

 

La Rete replica il mondo ma non lo crea

La scuola si sta muovendo in proposito. Ha creato in primis delle figure che si chiamano «animatori digitali», ha stanziato fondi per formarli e promuovere progetti.

Ma occorre tener presente che la Rete non la si può imbrigliare, è neutrale. I contenuti sono creati dagli utenti. Di conseguenza, non sarebbe proficuo ragionare in termini di censura, bensì occorre parlare in termini di educazione e quindi chiamare in campo le categorie della “responsabilità” che non può prescindere da una corretta analisi sulle istanze digitali. La Rete è neutrale, replica il mondo ma non lo crea. Contribuisce però a distribuire viralmente tutto ciò che avviene, ad amplificare ciò che succede nel mondo.

 

Parole come abusi

Emerge quindi quanto sia importante l’utilizzo delle “parole giuste” soprattutto quando si affrontano casi riguardanti i minori. Solo dopo mesi di citazioni è stata bandita dai giornali l’espressione baby prostitute, spesso utilizzata per descrivere casi connessi alla prostituzione minorile di cui successivamente sia stato invocato il diritto all’oblio per il nome delle vittime coinvolte.

Per preservare i diritti dei minori occorre oggi fare appello a nuove categorie di intervento, che vanno delineandosi. E’ impossibile pensare oggi di dover affrontare le sfide delle comunicazioni globali in maniera isolata da parte delle famiglie, della scuola, delle Forze dell’Ordine, dei gestori Web. Le risposte risiedono nelle azioni congiunte a livello multidisciplinare da parte delle Istituzioni, del volontariato , di tutte le parti sociali in gioco e, non da ultimo, dell’importante ruolo dei media che costituiscono la cassa di risonanza delle azioni d’intervento.

 

Educazione e tutela

Credo che i mezzi di comunicazione possano avere davvero un grandissimo ruolo a proposito dell’educazione dei giovani.

La scuola stessa, gli educatori e tutti i soggetti che si occupano e agiscono per la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza si avvantaggiano dell’interazione in tavoli tecnici di lavoro ove l’approccio multidisciplinare rafforza le reciproche attività e culture, al fine di espandere il proprio campo d’azione per preservare non solo i “propri” bambini, quelli della propria scuola, della propria comunità intraprendendo linee guida per la salvaguardia di bambini di ogni condizione, razza, religione e scuola.

A questo proposito tutte le risorse in campo sono preziose e tra di esse si affaccia un concetto già divenuto realtà, quello che riguarda la c.d. educazione tra pari per la quali sono i ragazzi ad attivarsi per salvare altri giovani. Sono modelli che funzionano, sono minori che si fanno portatori sani di giusti principi che divengono sentinelle nel web contro i rischi nascosti delle vie telematiche. Si stanno espandendo le reti di ragazzi che si organizzano in autonomia per sconfiggere il bullismo con la loro presenza nei siti frequentati da coetanei, facendosi carico di situazioni concrete per segnalare le stesse in una rete di contatti predisposta ad hoc.

Anche in proposito quindi il racconto di questi modelli da parte dei media può contribuire ad esaltarne la funzione e favorirne la divulgazione.

 

Cooperazione internazionale e supporto dei media

Anche per quanto concerne le iniziative di prevenzione , le Forze di Polizia impegnate nel contrasto al cybercrime si avvalgono della cooperazione internazionale con altre Forze di Polizia ma anche con le Organizzazioni non governative e con gli operatori dell’Information Technology.

Ai media quindi l’onere di rappresentare in profondità quello che si fa in questo campo, quali i traguardi delle investigazioni e delle attività di prevenzione, quali sono i modelli negativi veicolati dai nuovi mezzi di comunicazione e i contro-modelli virtuosi da proporre.

La prevenzione impone alle Forze dell’ordine di interagire sempre più con altre componenti sociali impegnate nella difesa dei minori per individuare nuove metodologie efficaci ed approntare modelli d’intervento verso la costruzione di un sistema di condivisione delle responsabilità.

Non è certamente facile per i professionisti dell’informazione imparare a raccontare le brutture che vediamo tutti i giorni nelle nostre indagini ma è proprio l’importanza di rappresentare adeguatamente le storie che riguardano l’infanzia a muovere giornate dedicate a questi temi, come quella di oggi, nelle quali ci si interroga “insieme” sul cammino da intraprendere per dare migliori risposte che nascono dalla contaminazione continua delle reciproche professioni.

Ultima modifica: Mar 28 Mar 2017