Luci e ombre nella nuova convenzione Rai

È stato pubblicato un testo, non sappiamo quanto definitivo, dello Schema di convenzione tra il Ministero dello sviluppo economico e la RAI per la concessione del servizio pubblico televisivo, radiofonico e multimediale...

Trova conferma la principale anticipazione di stampa, cioè il riconoscimento della unicità della RAI nell’esercizio della concessione. Si evita così che le risorse da canone si perdano nei rivoli delle contrattazioni politiche e clientelari, ma insieme si torna ad attribuire alla RAI una responsabilità che non è stata sempre garantita nel passato.

Il servizio pubblico “deve intendersi come servizio di interesse generale, consistente nell’attività di produzione e diffusione su tutte le piattaforme distributive di contenuti audiovisivi e multimediali diretti, anche attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie, a garantire una informazione corretta e imparziale, nonché a favorire l’istruzione, la crescita civile, il progresso e la coesione sociale, promuovere la lingua italiana, la cultura e la creatività, salvaguardare l’identità nazionale e assicurare prestazioni di utilità sociale”.

Si tratta di una discreta definizione dei compiti, che potrebbe utilmente essere completata con riferimenti espliciti all’obbiettivo di ridurre i gap generazionali e culturali, e di promuovere la pace e il sentimento di Europa.
Separatamente da questa definizione iniziale – ma meglio sarebbe integrarle – troviamo poi scritto che “l’informazione e i programmi della società concessionaria devono ispirarsi ai principi di imparzialità, obbiettività e completezza propri del servizio pubblico, chiamato a contribuire al corretto svolgimento della vita democratica”.

“Trasparenza, efficacia, efficienza e competitività” devono ispirare l’azione della RAI: di conseguenza si dovrà predisporre un piano editoriale coerente con la missione e gli obblighi di servizio pubblico, che “può prevedere la rimodulazione del numero dei canali non generalisti” anche per la riduzione dei costi e il migliore uso delle risorse interne.

Mi sembra che la formulazione intenda sia metter fine alle richieste di vendita di un canale – dopo che altri potenti soggetti internazionali sono entrati nel mercato italiano, occupando i tasti 8 e 9, la RAI conserva i primi tre numeri del telecomando – sia voglia proporre la necessità di un profondo ripensamento che potrebbe estendersi alla struttura organizzativa di tutto il comparto televisivo RAI, dando preminenza ai generi e ai target prima che alle aggregazioni di distribuzione, come i canali e i media diversi.

Per quanto riguarda la qualità dell’informazione, dopo i doverosi richiami a “completezza, obbiettività, indipendenza, imparzialità e pluralismo”, alla parità uomo-donna, e al rigoroso rispetto della dignità delle persone, troviamo anche – e questa mi pare una novità – che la RAI dovrà garantire la deontologia professionale dei giornalisti. A mio giudizio, per esercitare davvero questa garanzia la RAI dovrà mettere in campo un rigoroso piano di formazione delle risorse interne specificamente orientato all’etica professionale del servizio pubblico.

Sarebbe stato molto opportuno, a questo proposito, un riferimento alla questione della informazione fuori testata. La RAI è il luogo dove deve essere regolata prioritariamente, anche tenendo conto dei vincoli legislativi esistenti (ma non immodificabili), la relazione tra giornalisti e programmisti/autori. Deve essere ridefinita la questione della responsabilità, soprattutto nell’ottica del servizio pubblico, e superata ogni rendita di posizione corporativa.

Subito dopo le dichiarazioni di principio troviamo una nuova, significativa – e forse inevitabile – invasione nel campo della struttura aziendale: per un uso più efficiente delle risorse su tutte le piattaforme distributive, si può prevedere anche la ridefinizione del numero delle Testate giornalistiche.
La formulazione generica si presta, ovviamente, a tutte le interpretazioni, tanto da far dubitare della sua necessità in un documento di portata decennale. Le opinioni correnti portano a leggerla come un segnale di stop alla intenzione della RAI di istituire una nuova testata per l’informazione web, da affidare a Milena Gabanelli; tanto che l’azienda ha smentito formalmente che questo progetto sia imminente, e ricordato le competenze del Consiglio di amministrazione in materia.

Potremmo anche leggere l’invito a rivedere il numero delle testate, per forza di cose in senso riduttivo – altrimenti non avrebbe senso il richiamo contestuale alla riduzione dei costi – come un incoraggiamento ai vertici RAI perché procedano a riforme strutturali senza troppo curarsi delle vigorose lobby contrarie, interne e esterne.

Per quanto mi riguarda posso solo esprimere la gioia che una professionista come Milena Gabanelli si dedichi alla informazione via web, e l’assoluta contrarietà che ciò avvenga in una struttura separata da quelle che attualmente producono la maggiore quantità di informazione RAI, e che invece devono affrontare accorpamenti sia per riacquistare efficienza, sia per rigenerare la propria missione di servizio pubblico nel modo adeguato ai tempi, cioè pensando ai target di pubblico e alle modalità d’uso delle diverse piattaforme, piuttosto che ai filoni politico-ideologici che trascinano dalla nascita. Se così non fosse, la Gabanelli avrebbe vita durissima e poco cambierebbe nella sostanza.

Ovvero: affidiamo alla Gabanelli l’informazione via web e insieme chiudiamo TG1, TG2, TG3 e TGR: sotto un’unica testata RAI, con un direttore senior editor all’americana, che si occupi di etica professionale, dei conflitti interni e dell’equilibrio del sistema, e i suoi vice a gestire, alla pari, i contenuti nei canali di diffusione, con organici ridotti rispetto agli attuali, ma con la disponibilità di una grande newsgathering unitaria estesa alle redazioni regionali. Se ben gestita, questa operazione potrebbe dare un enorme impulso alla informazione RAI in rete senza togliere le necessarie differenze e autorevolezza agli appuntamenti sui canali tradizionali.

Si tratterebbe anche di definire, in linea di principio – e perché non tentarlo? – se la pluralità delle voci si garantisca meglio sommando meccanicamente la loro parzialità, oppure cercando faticosamente di orientarsi a una sostanziale unità ben sapendo che questa non può e non deve mai essere raggiunta. Ovvero: opero nel mondo della comunicazione per mediare e pacificare, e insieme aborro il pensiero unico.

Tornando al testo della convenzione, troviamo: un esplicito riferimento alla informazione in lingua inglese (dalla quale si deduce che i programmi per l’estero dovranno avere duplice veste, in aggiunta alla difesa della lingua per gli italiani espatriati); l’accesso paritario dei soggetti politici in campagna elettorale; la trasmissione di comunicati ufficiali; infine, come novità interessante, il divieto assoluto di utilizzare tecniche di manipolazione delle informazioni in maniera non riconoscibile (per esempio, algoritmi di filtraggio delle opinioni secondo criteri non dichiarati).

Troviamo infine l’obbligo della gratuità del pubblico servizio su tutte le piattaforme, il sostegno alla industria nazionale dell’audiovisivo, il sostegno alla creatività, alla innovazione e alla sperimentazione, anche attraverso nuovi format da diffondere all’estero.
Le pagine successive ripropongono concetti già presenti nei contratti di servizio passati, che a mio giudizio richiedono ripensamenti. Ha davvero senso fare la conta delle ore dei contenuti “dedicati all’educazione”? Se davvero possiamo sensatamente distinguere cosa educa e cosa diseduca – certo non è facile ma non possiamo esimerci dal farlo – non sarebbe più corretto dire che “tutti i prodotti del servizio pubblico devono avere obbiettivi di qualità e evitare derive diseducative” o qualcosa di simile?

Intendiamoci: si possono anche stabilire a priori gli obbiettivi minimi di spazi interamente dedicati all’educazione. Ma si eviti con cura sia di legare questi spazi a generi prestabiliti (e invece vengono citati “opere” teatrali, cinematografiche, televisive, musicali di alto livello artistico: per la tranquillità delle diverse lobby coinvolte...) sia di collocarli in un orticello protetto, dal quale tutto il resto si senta autorizzato in qualche modo alla distanza. Questo non aiuta il ruolo educativo generale del servizio pubblico.

Altro concetto ripreso dal passato è quello relativo alle trasmissioni dell’accesso, modello sostanzialmente fallito sul quale occorre riflettere e non riproporre pedissequamente, come in altri passaggi, il vigente Testo unico sulla radiodiffusione che risale alla legge Gasparri.
Tra le lingue locali da salvaguardare viene citata per la prima volta quella sarda (già peraltro usata da radio Cagliari). Deve essere garantito l’accesso del pubblico agli archivi, e naturalmente devono essere tutelati i disabili.

I canali “tematici per bambini” devono essere senza pubblicità. Ma dal momento che il concetto di canale tematico è legato ai contenuti e non al target, un canale generalista per bambini – cioè un canale che trasmettesse programmi, informazione e tutto il resto per i bambini, e che sarebbe davvero necessario - in teoria potrebbe contenerla. È troppo chiedere proprietà e chiarezza di linguaggio?

Salvaguardate le sedi regionali per l’informazione, nulla invece si dice sulla ipotesi di tentare altre forme di produzione, non solo radiotelevisive, a livello territoriale (e non necessariamente soltanto regionale). Un altro campo di innovazione che appare decisamente opportuno.
Nel capitolo dedicato agli impianti tecnici si dice esplicitamente che il gruppo RAI potrà fare accordi con i privati per le reti distributive, apertura essenziale in vista di una razionalizzazione del sistema delle torri.
Per la pubblicità vengono confermati i limiti di affollamento esistenti. Viene introdotto un controllo sulla corretta gestione contrattuale del mercato, e troviamo un riferimento non molto chiaro alla corretta distribuzione dei messaggi pubblicitari tra i canali di trasmissione.

Non trova per ora accoglienza la proposta dell’AGCOM di fissare per 5 anni l’ammontare del canone, al fine di dare alla RAI certezza negli investimenti: resta la verifica annuale, e anzi viene introdotta la possibilità di ridurre i trasferimenti delle risorse nel caso di inadempienze accertate sia da parte del MISE sia dell’AGCOM.

Infine la vexata quaestio della contabilità separata: da una parte introiti e spese da canone, dall’altra quelli per attività commerciale. Finora il problema è stato risolto, molto malamente, affibbiando ai programmi etichette arbitrariamente legate ai generi e non alla qualità dei contenuti, tanto che tra i programmi “di servizio pubblico” troviamo anche talk show dei quali in alcuni momenti dovremmo vergognarci come italiani.
Difficilmente la questione cambierà. Se la distinzione è per generi, rischia di essere escluso dal servizio pubblico l’intrattenimento e persino la fiction, come se questi generi non fossero parte essenziale dell’identità nazionale. Se fosse per obbiettivi educativi, si darebbe per scontato che una parte dei programmi siano liberi di diseducare pur di fare cassa.
È incredibile come i paladini della divisione contabile, che hanno la meglio anche in Europa, non capiscano come la loro posizione sia ingestibile nella pratica e dannosa nella sostanza. Non sarebbe molto più semplice dire che “tutte le produzioni della RAI hanno obblighi di servizio pubblico” e che “gli introiti commerciali derivati dalla attività devono essere reinvestiti in produzioni di servizio pubblico”?

Ultima modifica: Mer 15 Mar 2017