Le parole (e i modi e i mezzi) dell'altra politica.

Si è conclusa venerdì la prima parte della campagna elettorale in più di mille comuni. Tra questi ci sono anche quattro città capoluogo di regione (Genova, Palermo, Catanzaro, L’Aquila) e altri centri di notevole importanza, come Como, Lecce, Lucca, Padova, Parma, Taranto, Verona.

L’appuntamento con le urne (l’11 giugno con possibilità del ballottaggio due settimane dopo) si presenta insomma come un test significativo, anche dal punto di vista politico più generale, soprattutto adesso che è partita la lunga corsa verso il voto per il Parlamento.

Ma quello che ci riguarda di più, in questa sede, è il linguaggio della politica locale, sono i mezzi di comunicazione prevalentemente utilizzati e magari i cambiamenti più evidenti rispetto al passato.

Per me, che da quando fu varata la legge elettorale per i comuni (diretta e maggioritaria) seguo le campagne elettorali nel mio territorio, ci sono un paio di sorprese e molte conferme.

Le novità di maggior rilievo mi sembrano da un lato la riscoperta di piccoli momenti di condivisione che sembravano persi per sempre (il ritrovo al bar del paese, per esempio, o il banchetto nelle piazze) e dall’altro una specie di clonazione, su scala ridotta, dei modi e dei termini dei leader nazionali di riferimento (quando ci sono). Quest’ultima situazione, senza dubbio, è molto più accentuata rispetto al passato ed è in parte il frutto dei canali di collegamento interni ai partiti, a loro volta più efficaci e più diretti. Sembra quasi che i social servano più a creare una comunicazione circolare all’interno di un gruppo politico che a penetrare nell’elettorato.
La contraddizione, semmai, è che si assiste talvolta a occasioni informali e ristrette (con poche persone) nelle quali tuttavia i modi di ragionare (e i termini, i gesti...) sembrano quelli delle grandi convention nazionali.

Se il giornale locale incide ancora molto negli orientamenti dell’opinione pubblica (ma più per le scelte editoriali e per l’agenda di temi che riesce a dettare che per l’intraprendenza e la buona volontà dei candidati) resta ancora molto importante la televisione. In tv si va per farsi conoscere e per crearsi una legittimazione, più ancora che per superare dialetticamente il concorrente. Ho sempre l’impressione che il piccolo schermo giochi un ruolo negativo per quei candidati che non si dimostrano all’altezza: insomma rischia di far perdere voti, più che di farli guadagnare.

A proposito di televisione, si riduce di molto il peso degli spot elettorali, sostituiti (almeno nelle intenzioni) da abbondanti e meno dispendiose campagne web e social. Ma soprattutto si esaurisce il filone creativo dei cosiddetti “messaggi autogestiti”, che la legge sulla “par condicio” nel 2000 aveva consacrato a “icona” e garanzia della parità di accesso per tutti, piccoli e grandi.
Questi cambiamenti, unitamente al crescente ruolo “deregolamentato” della rete e al mutato contesto politico, mi fanno pensare che non sia più rinviabile una riforma dell’intera normativa sulla comunicazione politica, che appare ormai vecchia e superata.

Ultima modifica: Dom 11 Giu 2017

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