I giornalisti sportivi e l'odio sul web: la prima regola è non essere tifosi, la seconda fare le domande giuste (4)

Sia in qualità di addetto ai lavori in materia di comunicazione che di appassionato di sport, ed in particolare di calcio, disciplina alla quale ho dedicato molti anni, non ho potuto esimermi dalla lettura, seppure sporadica, delle ultime vicissitudini di calciomercato e dei relativi commenti di colleghi della stampa e tifosi. In seguito al post di Matteo Billi e alle riflessioni dei colleghi dell'Unione cattolica della stampa italiana, l'interrogativo su come i giornalisti possano fermare il fenomeno dei commenti palesemente rabbiosi e offensivi dell'opinione pubblica via social network non mi ha ovviamente lasciato indifferente.

Se può essere utile alla riflessione in merito, condividerei tre appunti rapidamente:

1) Nel metodo. O si è tifosi, o si è giornalisti: ritengo che questo basilare ancoraggio alla deontologia sia fondamentale in ogni settore del mestiere, da quello politico a quello della cronaca giudiziaria, compreso quello sportivo, tanto più quando si rischia di aizzare animi di psicologie di massa, per definizione più volubili e inclini a rozze semplificazioni. Un giornalista ha il dovere di dettagliare, rendicontare ed interpretare, ed il controdovere che ne deriva di non schierarsi, se di cronista vuole davvero rivestire il nobile ruolo. Che poi determinate testate abbiano fatto del tifo il loro connotato, questo è altro inconveniente. Ma perché adeguarsi al tono e alla superficialità da bar sport anziché puntare a bellezza di forma e sostanza del messaggio?

2) Sempre nel metodo. Da tanti maestri del mestiere è stato insegnato come le domande giuste siano sempre gran parte del lavoro, perché consentono alla cronaca di trovare limpidezza e al e lettore di avere un'idea più vicina alla veridicità dei fatti. Ebbene, perché molte illustri testate non hanno chiesto direttamente e ripetutamente dettagli sulle operazioni finanziarie, sui costi presenti e futuri (vedi le spese pazze del Milan), sulle caratteristiche tecniche e sulle motivazioni tattiche che hanno portato giocatori del tutto sconosciuti, fino a poco prima che il fratello firmasse un contratto faraonico, a sottoscrivere contratti straricchi in società prestigiose (si veda sempre il Milan con il caso dei fratelli Donnarumma)? Domandare, dettagliare e chiarire: se non saremo noi giornalisti a dettare un metodo di informazione, chi lo farà?

3) Nel merito. Pendere dalle labbra di un uomo che ha il merito di tirare calci ad un pallone non è il massimo della gratificazione umana, spirituale e culturale né per un giornalista, né per un lettore. Come accennato da don Alessandro Andreini dunque, perché dare così tanto eco a figure che così poco onore concedono allo sport? Intendiamoci: il poco onore non è nel balletto di cifre che, senza essere fini economisti, sono motivate dalla straordinaria richiesta di spettacolo che il calcio riesce a richiamare in termini di spesa da parte di ogni italiano, compreso il sottoscritto (e pertanto sposta cifre enormi ma relativamente coerenti con il suo business) ma all'esaltazione e al dispiego di sconfinati spazi che i media dedicano a questi temi. Certo, ogni testata ha la sua vocazione, ma davvero Bonucci merita 10 volte lo spazio che un Roger Federer merita nonostante sia diventato agli occhi del mondo il più grande tennista di tutti i tempi? Ma, soprattutto, le esperienze virtuose di sport correlate a grandi valori meritano di restare nell'ombra perché un diciottenne come Donnarumma può permettersi di rifiutare contratti faraonici e anche l'esame di maturità, mentre solo un altro coetaneo su un milione nel mondo può permettersi la sua agiatezza, e non certo per il talento di parare un pallone meglio di altri?

Ultima modifica: Gio 20 Lug 2017

UCSI - PI 01949761009 - CF 08056910584 - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 224 del 29/09/2014 - Tutti i diritti riservati