Educazione e ricerca di senso sono gli antidoti alla crisi dell'informazione. Il confronto sul libro di Butera e Springhetti

La verità è solida, mentre la comunicazione è liquida. La verità è durevole, mentre la comunicazione, soprattutto quella di oggi, è evanescente. La verità riguarda tutti, la comunicazione è sempre più individualizzata e individualistica.
Insomma, sembra davvero difficile coniugare i due termini, verità e comunicazione, nelle modalità e con gli strumenti con cui quest’ultima è costruita oggi.

Se ne è parlato durante la presentazione del volume “È la verità che vi farà liberi. Dalle fake news al giornalismo di pace per una informazione responsabile”, curato da Renato Butera e Paola Springhetti (Ed. Las, Roma 2018), avvenuta l’altro giorno a Roma.
Non c’è dubbio che l’arrivo di internet, prima, dei blog poi e ancora di più dei social network, aveva fatto pensare che finalmente era arrivata l’epoca in cui tutti potevano prendere la parola, anche le minoranze, anche le singole persone, e avrebbero avuto spazio i temi trascurati e le verità oscurate dai media . Più libertà, più pluralismo e dunque più democrazia.

Per quel che riguarda l’informazione, le nuove prospettive sembravano incarnarsi nel citizen journalism, il giornalismo partecipativo, libero dalle tradizionali logiche di potere. Invece, «non c’è dubbio che siamo di fronte al fallimento di quel modo di fare informazione, che ha contribuito a creare un sovraccarico di informazioni inutili, ma soprattutto di fake news, per cui oggi siamo come naufraghi in mezzo al mare senza una bussola. Ed è solo l’informazione professionale che ci può dare questa bussola», ha detto il vaticanista Enzo Romeo. È alla professionalità che è affidata prima di tutto la responsabilità di scegliere le notizie da rilanciare al cittadino e «scegliere le notizie non è un’operazione disonesta, ma un servizio di discernimento».

Purtroppo però, oggi quella dei giornalisti è la categoria che gode del maggiore discredito da parte dell’opinione pubblica, dopo o forse insieme a quella dei politici. Secondo Andrea Melodia, l’idea diffusa è che «poiché la notizia non professionale nasce dal volontarismo, è disinteressata, mentre i giornalisti sono tutti legati al potere, e quindi non degni di fiducia». Un circolo vizioso difficile da rompere: si può farlo, secondo Melodia, «riscoprendo un giornalismo professionale che sia al servizio della gente. Perché, in fondo, una notizia è vera se è utile alla società». Un’informazione al servizio delle comunità, che faccia fact checking e si sottoponga la fact checking, che abbia una dimensione etica forte, fondata su questi due pilastri: bene comune e verità.
Certo suona strano ostinarsi a parlare di dimensione etica in un ambiente comunicativo sempre più dominato dagli algoritmi e dalle loro logiche ferree. Ma secondo Melodia anche questo tema andrebbe affrontato con spirito costruttivo: «fino ad ora gli algoritmi sono stati sfruttati sostanzialmente per vendere. È possibile gestirli in modo diverso, per finalità etiche (tacitare i troll, fermare la fake news e così via)?». Cercare una risposta positiva a questa domanda, tra l’altro, dovrebbe essere un investimento che spetta al servizio pubblico.

Più pessimista Fabio Pasqualetti, docente dell’Università Salesiana, che nel testo ha pubblicato un saggio sui big data e la società del calcolo. «Il problema è che oggi gli algoritmi, e i dati che raccolgono, si usano per vendere consenso elettorale; ma sono sfruttati anche dalle assicurazioni che vogliono sapere tutto di te prima di stipulare una polizza; dalle banche, che devono decidere se darti il mutuo o no e da chiunque debba decidere se può o non può fidarsi di te.»
Quegli algoritmi sono alla fina fine funzionali a una logica economica e politica che persegue uno scopo: «eliminare l’umano, cioè la parte emotiva dell’essere umano e delle relazioni, perché dà fastidio, intralcia l’idea che la verità è nei dati». E invece sappiamo che non è vero, perché «già quando si decide quali dati raccogliere e come, già quando si costruisce l’algoritmo, si è influenzati da condizionamenti socioculturali», inoltre «anche i dati hanno bisogno di essere letti, interpretati, e par farlo bisogna scegliere una logica, una cornice entro i quali leggerli». Insomma, anche gli algoritmi, e in genere la tecnologia sono al servizio del potere, e in più, invece di metterci in relazione con gli altri, ci rendono sempre più isolati, ci chiudono dentro bolle in cui vediamo solo persone, cose, idee che gli algoritmi hanno scelto per noi, personalizzandole, o meglio “individualizzandole”, secondo una logica che non siamo stati noi a scegliere. «Ma l’identità», secondo Pasqualetti, «non si autogenera: si costruisce nell’incontro con l’altro e nell’agire dentro relazioni (“ero affamato e mi hai dato da mangiare”), dunque dentro una comunità.

Allora, per reagire alla crisi della parola che ci attanaglia, serve un’educazione non solo tecnica, ma anche politica (Pasqualetti), un’informazione al servizio dei cittadini (Melodia), e la capacità di recuperare il senso dell’informazione e della comunicazione (Romeo).

Ultima modifica: Ven 25 Mag 2018