Padre Occhetta: come costruire il 'bene comune' dell'informazione. Con quali priorità, con quali strumenti (compreso l'Ordine)

Intervista a Padre Francesco Occhetta alla vigilia del confronto del 29 settembre (ore 18, sede de "La Civiltà Cattolica" a Roma) sul tema “Il bene comune dell’informazione. Quando le parole sono ponti e non sono pietre".

Ne discutono dal vivo  Vania De Luca, presidente nazionale dell’Ucsi, Giuseppe Giulietti, presidente della Fnsi, Roberto Natale, di Articolo 21, Carlo Verna, presidente dell’Ordine dei Giornalisti. Noi abbiamo chiesto qualche spunto a padre Occhetta, scrittore de "La Civiltà Cattolica" e consulenete ecclesiastico dell'Ucsi, che coordina l'incontro. 

È possibile individuare un ‘bene comune’, pienamente condiviso, dell’informazione?

Direi di no, se osserviamo la realtà. Anzi, sembra che l’informazione abbia come fine la costruzione del “male comune”: lancia parole come pietre, distrugge la reputazione delle persone, istiga la violenza con l’hate speech, ridicolizza le voci delle istituzioni, tocca le emozioni e le credenze più irrazionali degli utenti, inietta sospetto sui fatti, inventa le «bufale», costruisce fake news ad hoc...
Le parole sono come piccole fiammelle che incendiano e devastano ciò che di buono è stato costruito (e condiviso) dopo la seconda guerra mondiale. L’informazione è diventata politica ed è così perforante che porta a essere l’idealismo (astratto), una sorta di «spirito puro» di matrice hegeliana. Le idee di nazione e della purezza del sangue, la nostalgia di un passato epico e utopico, l’illusione di un governo perfetto, il riferimento al leader ‘padre e padrone’ diventano superiori a qualsiasi realtà e fatto concreto.

Come si può uscire da questa situazione?

Vedo una condizione sola per costruire il ‘bene comune’: risvegliare la coscienza sociale assopita, che non sa riconoscere e distinguere il bene dal male, l’interesse di tutti da quelli di parte. Perché anche nell’informazione, direbbe Ignazio di Loyola, il fondatore dei Gesuiti, ciò che nega il bene comune si può presentare sub specie boni, sotto apparenza di bene e di buono.

Ma come si costruisce il ‘bene comune’ nell’informazione?

La costruzione del bene comune è anzitutto testimoniarlo come valore. O meglio: è sapere che il contenuto e il modo di ciò che si si comunica sono una forma di comunicarsi agli altri. Allora costruisce ‘bene comune’ l’informazione che nasce dalla grammatica comune della coscienza, quella che sente come appello morale difendere la vita, rispettare il dolore, fare verità, chiamare con il loro nome persone e fatti.
La verità dei fatti è soprattutto questione di sguardi e di linguaggio, ha affermato Paolo Ruffini. È «saper vedere ciò che altri non vedono, mettere in rete ciò che altri scartano, essere sale e lievito che non addormentano, ma aiutano conoscenza e trasformazione». Possiamo ripartire da qui.

La realtà dei fatti sembra aver superato ormai certi steccati tradizionali tra ‘chi fa’ l’informazione e ‘chi è’ formalmente giornalista. E'davvero così?

La Rete e l’uso dei social hanno apparentemente democratizzato l’informazione. Il motto “uno vale uno” è però efficace solo per la pars destruens, ma non per la pars construens. Tutti comunque si sentono comunicatori anche se sono autoreferenziali e chiusi nei propri gruppi in cui vengono rassicurati e mai contraddetti.
È qui che emerge la differenza: il giornalista è sempre un comunicatore, mentre un comunicatore può non essere giornalista; inoltre, il giornalista dovrebbe sempre lavorare per un’informazione che sia a servizio del pubblico mentre il comunicatore potrebbe limitarsi ad auto-promuoversi e a servire interessi privati e particolari.
Se viviamo un momento di crisi è anche certo per la responsabilità dei giornalisti, non per il crescente numero dei comunicatori. Se la categoria compisse a regola d’arte il proprio dovere non presterebbe il fianco alla cattiva informazione. Anzi, sarebbe un argine sicuro.

E allora su quali priorità oggi si deve basare la deontologia del giornalismo?

La responsabilità, ovvero il saper valutare gli effetti e le conseguenze della notizia; la preparazione rigorosa, che significa conoscere e applicare le tecniche della professione; la credibilità, vale a dire rispettare la verità sostanziale dei fatti. Altrimenti, «quando si disconosce il significato del fatto, si finisce col dissolvere il fatto; il misconoscimento del significato tende a riversarsi sul fatto e a dissolverlo».

Qualcuno pensa che ormai si possa addirittura abolire il nostro Ordine. Sarebbe, secondo lei, un salto all’indietro? Quali rischi ci sarebbero?

A mio giudizio l’Ordine va riformato, ma non abolito, rimane una sorta di certificazione sulla correttezza e sull’affidabilità dei comportamenti dei giornalisti da cui dipende la qualità delle notizie. Deve osare di più, uscire dall’autoreferenzialità, garantire equità a tutti, in particolare ai giornalisti con le ‘partite iva’. Deve poi alzare il livello dell’asticella culturale e scommettere su ciò che costruisce comunità e coesione, non gossip e sudditanza.
La differenza tra una notizia data da un comunicatore e quella data da un giornalista è la stessa che c’è tra un parere legale rilasciato da uno studente di giurisprudenza e un avvocato. Se ci si fida più dei primi, i secondi sono chiamati a ripensarsi. Ma un rimedio c’è. Parlare in prima persona, assumersi la responsabilità del proprio dire, poiché la realtà è complessa e la verità non può mai essere afferrata nella sua interezza. Tutto questo deve caratterizzare i giornalisti, che sono anche testimoni.

civcat 29set

Ultima modifica: Sab 29 Set 2018