il giornalismo davanti alla resurrezione

È per rinascere che siamo nati” ha scritto Pablo Neruda. Ma da e per cosa? Parlare di risurrezione è sempre più anacronistico, per i giornalisti “è sempre meno notiziabile”, perché il termine è stato svuotato e umiliato dalla filosofia otto-novecentesca.

Eppure risurrezione da re-surgere vuol dire: rialzarsi dallo star curvo, o piegato, o in ginocchio; per gli astri è l’innalzarsi sull'orizzonte; nel linguaggio figurativo indica tutto ciò che viene fuori, sgorga, nasce. Risorgere aggiunge "un nuovo" a parole come risorgimento, risorsa e cosi via. Ma risurrezione non è ripristinare ciò che c’era. Non è il semplice ritorno dal regno dei morti. Indica tutto ciò nasce oltre la morte.

Per la cultura contadina è ciò che nasce quando il bruco muore e appare la farfalla, oppure quando la notte lascia spazio a un nuovo giorno, oppure quando un seme muore e spunta un ramoscello. Tutto ciò che c’era prima è morte, ma tutto ciò che c’è dopo è vita che nasce dopo la morte. Per la mitologia è la fenice, l’uccello che rinasce dalle proprie ceneri dopo la morte. Ne parlarono per primi gli antichi egizi con la storia di Bennu che nelle leggende greche divenne la fenice per dire che l’uomo è da sempre spinto a capire cosa sia risorgere.

Anche il giornalismo è chiamato a interrogarsi davanti a ciò che risorge. E chi risorge lo fa per aver attraversato la morte. Basta un niente: un amore tradito, una guerra, un fallimento, una malattia, una violenza personale o sociale... e la vita che viene dopo germina da quella morte. È questa la resurrezione che va narrata.

Non è scontato però che il giornalismo parli di risurrezione perché la radice della parola può portare a due scelte opposte: davanti alla mortalità e alle paure alcuni giornalisti con i loro racconti insorgono, “si levano contro”, costruiscono muri, stanno sempre e solo al-di-qua della morte e del sangue versato; altri risorgono, “si elevano verso” e vedono oltre, raccontano segni di rinascita oltre la morte.

È un giornalismo risorto quello che dopo la guerra sa parlare di pace, dopo lo sfruttamento del lavoro parla di diritti e dignità, quello che vede nell’accoglienza una possibilità di rinascita, quello che dopo ogni scandalo vede una possibilità di condannare il male e riabilitare chi ha fallito. O si vive l’al-di-qua, o si vive nell-al-di la. E quest’ultima esperienza la chiamiamo un segno della resurrezione. È già un giornalismo risorto quello che si autoregola a correggersi e scusarsi, alla rettifica e ad essere trasparenti ma anche che racconta la vita dopo ogni morte.

Lo è stato per chi aveva raccontato la risurrezione 2000 anni fa. Lo dovrebbe essere per chi la racconta oggi. La risurrezione è un’esperienza meta storica, si dà nella storia ma i suoi effetti solo oltre la storia.

Da Gesù viene definita da due avverbi, deuro (che vuol dire qui ma anche ora) e exo (fuori, ma anche "oltre" i confini). Gesù non usa alcun verbo per definirla come resuscitare, è lui stesso la risurrezione e la vita, lo aveva detto a Maria: Ἐγώ εἰμι ἡ ἀνάστασις καὶ ἡ ζωή. Senza equivoci sull’ordine: prima la morte, poi la resurrezione e poi la vita.

C’è un però che complica l’immediata comprensione della resurrezione. La risurrezione non è automatica alla morte, ma è il suo frutto maturo: per darsi nella mia storia ha bisogno di tempo (i tre giorni), di un’iniziativa del Signore (le apparizioni) e della missione, avere la forza annunciare che “Cristo è veramente risorto”. Sono queste le tre condizioni che permettono alla Chiesa e ai credenti di vivere una vita già risorta tra le contraddizioni del mondo.

 

foto di Alberta Cuccia

* L'autore è scrittore de 'La Civiltà Cattolica' e consulente ecclesiastico nazionale dell'Ucsi

 

Ultima modifica: Sab 20 Apr 2019