Per un giornalismo di prossimità, memoria e verità nel tempo del Coronavirus

In queste settimane molti giornalisti stanno vivendo in prima linea l’emergenza causata dall’epidemia. Lo fanno per ricostruire e raccontare la cronaca che si fa storia di un Paese incredulo e impaurito.

Si posizionano davanti a ospedali per registrare gli sforzi del personale sanitario e cercare di dare voce agli ammalati e ai loro familiari. Li si vede nelle strade con microfono, telecamere, guanti e mascherine per intervistare le poche persone che circolano. Ad alcuni trema la voce, ad altri si legge la paura negli occhi. È il rischio anche di questa professione, una missione (laica) al servizio del bene comune e della coesione sociale. È sapere di pagare uno dei prezzi più alti. Chi comunica e si comunica può essere contagiato, ritornando infatti nelle proprie redazioni non sono mancati casi in cui chi viene infettato è anche colui che infetta. E tutto mentre si lavora come giornalisti.

Non si ha memoria di un periodo in cui la paura ci ha improvvisamente reso così fragili e bisognosi di aiuto, anche come categoria. Intere redazioni chiuse, la stessa Rai ha preso provvedimenti drastici e netti. Solo i colleghi che hanno vissuto in aree di guerra hanno provate paure più grandi. Lo ha recentemente precisato anche il presidente dell’Ordine, Carlo Verna (leggi qui dal nostro sito): “Dopo le professioni sanitarie che sono in prima linea, cui qualunque cittadino dovrebbe rivolgere un grato pensiero, in trincea ci sono anche i giornalisti che in un momento del genere svolgono una funzione essenziale. Le redazioni sono un luogo di resistenza e presidi di coscienza sociale e democratica”.

Il punto è proprio questo: a cosa dobbiamo resistere e per quale ragione essere “presidi di coscienza sociale e democratica”? Non possiamo negarlo, la paura e il panico in cui è caduto il Paese sono stati alimentati da un giornalismo confuso e impreciso, obbediente ad alcuni spregiudicati editori o in competizione con alcuni pericolosi comunicatori. Lo stillicidio dei numeri ha fatto dimenticare le storie, i nomi, i volti e le ragioni sociali che tengono insieme una comunità politica. Non parliamo poi di buona parte della comunicazione politica.

Il giornalismo deve restituire prossimità al vivere politico e civile in un momento in cui chi è contagiato sembra avere colpa, si muore soli, non sono permessi i funerali, è impossibile tenerci la mano. Si tratta di un’azione politica che restituisce la dimensione umana al nostro vivere. Abbiamo bisogno di un giornalismo che restituisca senso alle parole, che generi parole adatte al tempo che stiamo vivendo. Mentre il giornalismo genera parole vere e credibili, mette insieme la comunità nazionale del domani, quella che dovrà ricostruire e ricostruirsi dalle macerie. È in una parola ciò che ci ha insegnato Romano Guardini: “La vita regge gli opposti. Gli opposti si realizzano nella vita; sono i modi in cui la vita è viva”.

Ma c’è di più. Il giornalismo italiano è chiamato a difendere una memoria. Quella che ci hanno consegnato i nostri padri. Vengono alla mente le parole dei costituenti cattolici durante la Costituente quando dicevano che “la libertà è la responsabilità verso l’altro”. Ce lo insegnano i medici, gli infermieri e il personale sanitario impegnati in prima linea, a cui dobbiamo essere grati. La vulnerabilità che si racconta può solo essere curata da una solidarietà condivisa, prima delle ragioni del mercato c’è il valore della vita da salvaguardare. Ma non per tutti è così.

Preservare la memoria politica e sociale significa anche raccontare le scelte passate come quella fatta da Tina Anselmi, la prima donna ministro della Salute, e altri lungimiranti uomini politici, quando nel 1978 hanno scelto il Sistema sanitario nazionale che permette a tutti di curarsi. È per questo che in Italia un tampone è a carico dello Stato, mentre in America costa circa 3 mila dollari a chi lo chiede.

Come giornalisti credenti, anche noi dell’Ucsi, siamo chiamati ad aiutare a pregare. In questi nostri giorni di privazione in cui siamo “senza” incontri, senza celebrazioni, senza liturgie, possiamo fare nostra la domanda della Samaritana: dove e come andremo per adorare Dio? La risposta del Vangelo di Giovanni al cap. 4 è chiara: non nel tempio, nemmeno sul monte, nemmeno in casa, ma in quel luogo interiore in cui la presenza si fa incontro per se, per gli altri e per dare frutti per la vita del mondo. È aiutare a vivere “in spirito e verità” insieme al Signore della vita.

Ultima modifica: Sab 14 Mar 2020

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