La solidarietà? inizia dagli ultimi! #Ripensiamoci / 8

Si è fatto un bel parlare, soprattutto durante le settimane del confinamento, che l’esperienza della pandemia ci avrebbe cambiato in profondità. Così come avrebbe aiutato a farci scoprire, una volta per tutte, la fratellanza fra tutti gli esseri umani, tutti ugualmente esposti al rischio di contagio. In realtà, lo spettacolo a cui assistiamo proprio in questi giorni in cui, dalla cosiddetta “fase 2”, stiamo rischiando di tornare a una impensabile “fase 1”, sta dimostrando che non è veramente così. E bene va facendo papa Francesco – nelle catechesi del mercoledì mattina – a provare a rimettere al centro i punti fermi che il vangelo ci propone, «il principio della dignità della persona, il principio del bene comune, il principio dell’opzione preferenziale per i poveri, il principio della destinazione universale dei beni, il principio della solidarietà, della sussidiarietà, il principio della cura per la nostra casa comune» (5 agosto 2020), immaginando che proprio la messa a fuoco di tali principi potrà aiutarci a navigare nelle acque di questa crisi mondiale.

Perché dovremo pur cominciare a riconoscere quali siano le persone che stanno soffrendo maggiormente a causa della pandemia e che pagano un prezzo altissimo a motivo della loro fragilità. Così come bisognerà che risuoni con sempre maggiore decisione l’invito alla responsabilità per chi gode di buona salute, giovinezza e libertà e ne sta facendo un uso non di rado assai discutibile.

Eravamo partiti di lì, da quella che è stata definita – la cronaca giornalistica ci si è soffermata a lungo – la “strage” delle Rsa, dall’evidenza clinica che il virus colpiva soprattutto gli anziani e che la sua azione “selettiva” richiedeva un’attenzione tutta speciale, appunto, per le persone più esposte. Che occorreva proteggerle e tenerle al riparo e che le strutture più virtuose erano state proprio quelle che per prime e con il massimo rigore avevano interrotto tutti i legami con l’esterno. Ma da luoghi di difesa e di protezione, ecco che si sono trasformate in ambienti di vera e propria reclusione, spesso di relativo o perfino grave abbandono. Isolamento, solitudine e incuria: senza dimenticare l’imbarazzante caccia alle infermiere e agli infermieri che vi lavoravano e che si sono visti offrire assunzioni a tempo indeterminato negli ospedali privando le altre strutture del personale indispensabile.

E ancora, entrando più a fondo nelle pieghe del nostro tessuto sociale, le persone disabili, i malati mentali, i senzatetto, gli stessi migranti presi di mira e bollati come untori: persone che sopravvivono per una cura e un’assistenza quotidiane che proprio l’emergenza ha messo in discussione. E poi le persone già malate di altre patologie o che si stanno ammalando proprio in questi mesi. Si doveva partire non dalle esigenze dei sani, ma dei malati, non dei benestanti, ma di chi soffre. La storia lo insegna con dovizia di esempi: le società che si disinteressano di coloro che, al proprio interno, sono i più deboli, che innescano o anche solo permettono logiche di selezione finiscono per implodere e rimanere strangolate dal proprio egoismo.

Ci si ingegna in mille modi per far riaprire le discoteche e le sale da ballo, per rimettere in mare le navi da crociera, si afferma con forza che mascherine, distanziamento e igiene frequente sono la risposta semplice e sufficiente per bloccare il contagio – per altro del tutto ignorata proprio da coloro che si credono inattaccabili, oppure hanno sentenziato che il virus non è altro che una montatura politica –, e invece i luoghi di cura restano inaccessibili a tutte quelle forme di assistenza esterna che potrebbero essere di sollievo e, in non pochi casi, letteralmente di sopravvivenza per tante persone abbandonate a sé stesse. Non si morirà di Covid-19, ma si finisce per morire di inedia e di abbandono.

C’è davvero qualcosa che non va se il messaggio che sta arrivando a tante italiane e italiani – complice certo la calura estiva di mezz’agosto – è quello di divertirsi a ogni costo, di pensare a sé stessi e di gettarsi alle spalle tutto il resto. Come invertire questa tendenza così pericolosa? Da chi dovrebbe essere pronunciato il forte appello morale, appunto, alla responsabilità e alla solidarietà, alla cura degli ultimi e alla coesione sociale?

Senza tacere – e sui social qualcuno ha cominciato a sottolinearlo – che paradossalmente i luoghi in cui maggiormente si rispettano le regole sanitarie sono proprio le chiese: stanno dando un buon esempio, oppure si rivelano per quello che purtroppo spesso sono diventate, luoghi abbandonati e irrilevanti nello stile di vita dei nostri contemporanei? Dove, per chi li frequenta, stringere i denti per un po’ per poi tornare a vivere altrove?

Le domande sono molte più delle risposte. Né è nostra intenzione dare man forte al qualunquismo o, peggio, al complottismo che si nutre di bufale confezionate ad arte. Certo è che sembra proprio che si sia imboccata una strada molto pericolosa e che il risveglio autunnale finirà per essere drammaticamente brusco e doloroso. Per non parlare – ma occorrerebbe una riflessione specifica – della crisi economica in atto e della situazione di tante donne e tanti uomini drasticamente precipitati nella povertà e che fino a oggi non hanno ricevuto praticamente alcun sussidio se non forse – ma l’ironia è magari eccessiva – quelli dei Robin Hood alla rovescia che abbiamo scoperto tra i nostri parlamentari e politici locali.

Bisogna che, a partire proprio dal mondo dell’informazione e della comunicazione, fermiamo questo treno che corre verso il nulla. E iniziare a prenderci cura degli ultimi, imparare che il bandolo della matassa sociale sono proprio loro e che una collettività che li dimentica è destinata a dissolversi. Forse siamo appena in tempo per correggere la direzione. E per fare di questa tragedia, nonostante tutto, una vera opportunità di trasformazione.

Ultima modifica: Sab 22 Ago 2020