San Francesco di Sales e il dialogo tra vangelo e cultura

Pubblichiamo il lungo e intenso contributo che don Alessnadro Andreini ci ha consegnato sulla figura di San Francesco di Sales e sul dialogo che realizza tra vangelo e cultura. E' stato il tema al centro di una iniziativa di Ucsi Toscana (di cui don  Andreini è consulente ecclesiastico), per celebrare il nostro patrono (ar)

Fare down

In psicologia viene chiamato “fare un down”. Ovvero abbassarsi volontariamente per entrare in sintonia con una situazione, con i sentimenti di una persona, con la percezione di un gruppo. È un’operazione preziosa, perfino indispensabile se si cerca di stabilire un contatto più ravvicinato con l’altro o gli altri, oppure quando si ha bisogno di modificare alcune consuetudini che si sono cristallizzate fino a diventare veri e propri pregiudizi che bloccano la comunicazione. Fare un down per mostrarmi diverso da quello che sono sempre stato o da come appaio o percepisco di apparire, magari anche per stupire e sorprendere, riuscendo chissà a far saltare dinamiche consolidate e sterili. Un movimento che posso volere oppure subire.

Un down clamoroso e “imposto” è certamente quello di san Paolo nell’esperienza della conversione: e forse non è un caso che la sua festa sia così vicina a quella del nostro patrono. In effetti, come nota giustamente Albert Vanhoye, «è possibile essere pieni di zelo per Dio, ma in modo sbagliato». Paolo stesso – probabilmente ripensando alla propria esperienza – ne prenderà atto nella lettera ai Romani: «rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza» (10,2). Appunto, proprio al culmine del suo zelo amaro che lo sta conducendo a Damasco, ecco il down, la caduta – non da cavallo! – che lo pone improvvisamente in una condizione del tutto diversa, lì dove può finalmente comprendere di non essere in nessun modo al di sopra degli altri, ma solo e soltanto un fratello. È la richiesta di Colui che gli è apparso: nessuna conversione individualistica, priva di rapporto con gli altri discepoli, Paolo è mandato alla Chiesa perché solo nella Chiesa si può vivere la vera fede.

È precisamente uno di questi down che ha permesso al giovane presbitero francese Francesco di Sales di dare una svolta alla propria vita. Siamo nel 1602, a Parigi, dove Francesco è stato inviato dal suo vescovo, il benedettino Claude de Granier che più tardi lo vorrà come suo successore a Génève-Annecy, per una delicata missione diplomatica che si rivela un quasi totale fallimento. «Dopo nove mesi interi, sono stato costretto a tornare sui miei passi senza aver concluso quasi nulla», scrive in proposito Francesco di Sales a papa Clemente VIII. Mesi e mesi trascorsi nella capitale francese senza portare a casa niente.

Ma è veramente così? Papa Francesco prende spunto proprio da questa esperienza singolarissima e dalla condizione di totale impotenza che Francesco sperimenta a Parigi per mettere a fuoco l’aspetto a suo avviso cruciale dell’esperienza umana e spirituale del patrono degli scrittori – e dunque anche dei giornalisti – cattolici. Una condizione di fallimento e di sterilità che la Chiesa avrebbe a poco a poco dovuto accettare, ma che appariva quasi del tutto sconosciuta in quegli anni. Certo, se ne erano avute delle avvisaglie, la più eclatante delle quali la drammatica e cruenta separazione dell’Inghilterra dalla Chiesa di Roma nel 1534. Eppure, per Francesco, per il suo vescovo Claude e per il Papa si trattava ancora di una situazione inedita e imbarazzante. Non un down scelto, insomma, ma imposto. Senza tacere che si tratta, dopo più di 400 anni e di un concilio Vaticano II che ne ha ampiamente dibattuto e scritto, da Lumen gentium a Gaudium et spes, di una questione ancora sostanzialmente e incredibilmente aperta: quale deve essere la “posizione” della Chiesa secondo il vangelo?

Servire l’uomo

Lo “sguardo dal basso”, come lo chiamava Dietrich Bonhoeffer, la condizione di debolezza e impotenza ci mette sempre in grado di vedere gli altri e le cose con occhi nuovi. Per una Chiesa che non ha più il potere di un tempo e che deve registrare l’affermarsi di altre logiche e altre supremazie, il mondo non può che apparire diverso. E il tempo trascorso da Francesco di Sales in attesa di convocazione o nelle anticamere di coloro che contano può diventare un tempo di nuovo ascolto, di scoperta e di conversione. È proprio quello che accade al presbitero trentacinquenne: se, fino ad allora, era stato, anche suo malgrado, un ingranaggio della Chiesa in lotta per un potere che stava evaporando, ora Francesco di Sales inizia a lasciarsi «toccare e interrogare dai grandi problemi insorgenti del mondo e dal modo nuovo di osservarli, dalla sorprendente domanda di spiritualità che era nata, come dalle inedite questioni che essa poneva». In breve, conclude papa Francesco, «si accorse di un vero “passaggio d’epoca”, cui occorreva rispondere attraverso linguaggi antichi e nuovi».

Parigi non è più l’anticamera dell’inferno, ma un luogo benedetto dove ci sono molte persone che, insospettatamente, sono variamente assetate di Dio: «Incontrare quelle persone e riconoscere le loro domande – scrive papa Francesco – fu una delle circostanze provvidenziali più importanti della sua vita. Giorni apparentemente inutili e fallimentari si trasformarono, in tal modo, in una scuola incomparabile, al fine di leggere, senza mai blandirli, gli umori del tempo. In lui, l’abile e infaticabile controversista si andava trasformando, per grazia, in un fine interprete del tempo e straordinario direttore d’anime». È così che nascono le sue opere maggiori, per le quali è stato dichiarato dottore della Chiesa e che hanno formato generazioni di cristiani in tutto il mondo: dall’Introduzione alla vita devota al Trattato dell’amore di Dio. E senza dimenticare «le migliaia di lettere di amicizia spirituale che ne verranno, inviate dentro e fuori le mura dei conventi e dei monasteri a religiosi e monache, a uomini e donne di corte come alla gente comune». E ancora, l’incontro con Giovanna Francesca di Chantal e la stessa fondazione della Visitazione nel 1610.

Lo sguardo dal basso insegna a Francesco di Sales la profonda e inattesa vicinanza tra Vangelo e cultura e, di conseguenza, un vero e proprio nuovo metodo di annuncio. Un metodo – così lo sintetizza papa Francesco – «che rinuncia all’asprezza e conta pienamente sulla dignità e capacità di un’anima devota, nonostante le sue debolezze». È quanto emerge da una delle sue prime lettere di direzione spirituale, inviata a una delle comunità visitate a Parigi: «Mi viene il dubbio che si possa opporre alla vostra riforma anche un altro impedimento: forse coloro che ve l’hanno imposta, hanno curato la piaga con troppa durezza. [...] Io lodo il loro metodo, sebbene non sia quello che soglio usare, specialmente nei riguardi di spiriti nobili e ben educati come i vostri. Credo che sia meglio limitarsi a mostrar loro il male e mettere il bisturi nelle loro mani, perché pratichino essi stessi l’incisione necessaria. Ma non tralasciate per questo la riforma di cui avete bisogno».

Sembra di ascoltare le parole con le quali Giovanni XXIII indicava, nel suo discorso di apertura, lo scopo essenziale del concilio Vaticano II, assai opportunamente rievocate da papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo della Misericordia Misericordiae Vultus (11 aprile 2015): «Ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore...». Così come la sintesi conclusiva di Paolo VI: «Vogliamo notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità... L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio... Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore». E ancora: «Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette ... Un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità».

Interprete del cambiamento d’epoca

È una trasformazione che ha al centro «la nostra regina, la carità» –afferma Francesco di Sales – che «fa tutto per i suoi figli». E che si piega, si immerge, non perché sconfitta, ma perché spinta a immedesimarsi sempre di più con la verità delle donne e degli uomini del suo tempo. «Ho tenuto presente la mentalità delle persone di questo secolo e non potevo fare diversamente – scrive nella prefazione al Trattato dell’amore di Dio –; è molto importante tener conto del tempo in cui si scrive». Ancora una volta, riecheggiano qui alcune espressioni cruciali del Vaticano II, e precisamente le riflessioni sulla cultura contenute in Gaudium et spes, dove si esortano tutti i fedeli affinché «vivano in strettissima unione con gli uomini del loro tempo, e si sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e di sentire, quali si esprimono mediante la cultura» (GS 62).

Come nota ancora papa Francesco, Francesco di Sales è ben consapevole del cambiamento che il suo down ha innescato in lui e che si va riflettendo nel suo stesso modo di argomentare e di scrivere. «Se trovi che lo stile è un po’ diverso da quello usato nella Filotea, ed entrambi molto distanti da quello della Difesa della croce, tieni presente che in diciannove anni si imparano e si dimenticano molte cose». Ancora più precisamente, e proprio in direzione di quello sguardo dal basso che si conquista proprio nell’impotenza: «il linguaggio della guerra è diverso da quello della pace». È proprio questo il dono che il patrono dei giornalisti ci consegna oggi, commenta ancora il Papa: la sua duttilità e la sua capacità di visione. Un dono di Dio e il frutto dell’indole personale, ma anche della sua tenace coltivazione del vissuto e della sua incessante riflessione che gli hanno dischiuso una nitida percezione del cambiamento dei tempi.

Si tratta di una grande lezione per la Chiesa del nostro tempo: «È quanto ci attende come compito essenziale anche per questo nostro passaggio d’epoca: una Chiesa non autoreferenziale, libera da ogni mondanità ma capace di abitare il mondo, di condividere la vita della gente, di camminare insieme, di ascoltare e accogliere». Francesco di Sales, afferma ancora il Papa, «ci invita a uscire da una preoccupazione eccessiva per noi stessi, per le strutture, per l’immagine sociale e a chiederci piuttosto quali sono i bisogni concreti e le attese spirituali del nostro popolo».

Patrono dei giornalisti?

Prima di provare a individuare, sempre con l’aiuto di papa Francesco, alcune delle scelte cruciali di Francesco di Sales che ci aiutino ad abitare il cambiamento d’epoca con saggezza evangelica, vale la pena soffermarsi sulla lettura che del nostro Patrono volle dare papa Pio XI, in occasione, cento anni fa, del trecentesimo anniversario della morte. È a papa Ratti che si deve l’individuazione di san Francesco di Sales come patrono dei giornalisti e degli scrittori cattolici, proprio in occasione di quel terzo centenario. E con un documento che ne spiega e motiva le ragioni, a dire il vero distanti dal vero genio del vescovo di Génève-Annecy che stiamo cercando di mettere in luce.

Il papa durante il cui pontificato (1922-1939) si assiste alla prima esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, particolarmente la radio, promulga il 26 gennaio 1923 l’enciclica Rerum omnium perturbationem con la quale, appunto, proclama san Francesco di Sales patrono dei giornalisti e degli scrittori cattolici. Una scelta indubbiamente indovinata, e che, tuttavia, come accennavamo, nasconde una concezione della missione della Chiesa profondamente diversa da quella che papa Francesco ha messo a fuoco. Pax Christi in Regno Christi è il motto episcopale e pontificio di papa Pio XI: una sorta di prosecuzione e sviluppo di quell’Instaurare omnia in Christo che era stato di Pio X, il papa dell’enciclica Pascendi e della lotta al “modernismo”. Come ben riassume Raffaella Perin in un recente studio, «fin dalla sua prima enciclica, Ubi arcano (23 dicembre 1922), Pio XI chiarì quale sarebbe stato l’intento principe del suo pontificato, quello di restaurare il Regno di Cristo nella società moderna, afflitta dai mali generatisi dall’esclusione di Dio dalla vita pubblica e da quella privata degli individui. Ciò significava che solo la Chiesa poteva rivestire il suo ruolo di guida della società verso una pacifica convivenza dei popoli, In quanto essa sola era stata insignita dal suo fondatore del privilegio di trasmettere infallibilmente i suoi insegnamenti» (R. Perin, Le Chiese, le guerre mondiali, i totalitarismi, in Storia del cristianesimo, vol. IV, Carocci, Roma 2015, p. 250).

Il cuore della missione, in brevi parole, risiede, per Pio XI, nell’apostolato cattolico, strumento per eccellenza «dell’azione ecclesiale per l’instaurazione della pace di Cristo nel regno di Cristo» (V. Marinelli, Francesco di Sales comunicatore, Youcanprint, Lecce 2021, pp. 17-18). Un apostolato predittivo, si direbbe, che parte dall’assunto che chi parla già detiene la verità, in una prospettiva davvero distante da quella che farà sua il concilio Vaticano II, particolarmente nella Dei Verbum. È in questa prospettiva che Francesco di Sales viene proposto come patrono e modello per tutti coloro che contribuiscono all’apostolato cattolico con il loro lavoro di scrittura, di fatto non valorizzando quella parabola che abbiamo rievocato e che ne fa, a tutti gli effetti, un patrono davvero prezioso per tutti coloro che non si limitano a rilanciare una verità altrui, ma sanno mettersi in ascolto a partire dal loro “sguardo dal basso”.

Non c’è dubbio che, con Pio XI, si compie un considerevole passo avanti nella considerazione del lavoro dei giornalisti e del ruolo dei media rispetto, per esempio, alle durissime denunce di Pio X e dello stesso Benedetto XV. Se non mancano, anche nei suoi discorsi, gli accenni al grave rischio che i giornalisti si riducano a pericolosi «maneggiatori di anime», sempre più si va sviluppando la coscienza del potere che i mezzi di comunicazione hanno nel mondo contemporaneo. Ne è prova, fra i tanti, il discorso pronunciato da Pio XI – il papa che darà vita alla radio vaticana – il 28 gennaio 1933, indirizzato alla ditta Magneti Marelli: «che cosa c’è di più meraviglioso di questo mezzo pertanto facilitare rapporti vicini e lontani, sociali e politici dei popoli? E che cosa ci darà esso domani di quei segreti della natura ha in parte soltanto rivelati, e che si dischiuderanno ancor maggiormente in un avvenire forse non lontano? Pensiamo allo sviluppo che queste tre forze (aeroplani, automobili, radio), che questi tre potenti mezzi di moto hanno dato e daranno all’opera grandiosa dei missionari, all’evangelizzazione nel mondo, alla dilatazione del divino Regno di Cristo Signore». E dove, com’è facile cogliere, papa Pio XI torna ad associare, per così dire, il “carisma” di san Francesco di Sales alla campagna di evangelizzazione e dilatazione del regno di Dio.

Una comprensione, per così dire, “muscolare”, se, dopo aver elogiato la dolcezza del nostro patrono nei confronti del prossimo, particolarmente di peccatori, apostati, carcerati, domestici, eretici, Pio XI mette in evidenza anche altre sue virtù a lui evidentemente più congeniali: «il suo zelo, l’inalterabilità del carattere, il vigore della costanza». Tratti che, meglio della sua dottrina e della sua eloquenza, hanno favorito la conversione di molte persone. Dolcezza, dunque, ma anche e soprattutto fermezza e risolutezza. Così scrive ancora nell’enciclica citata, esaltando la fermezza con cui Francesco di Sales non si prestava ad accondiscendere ai vizi e alle passioni, ma piuttosto li smascherava per indirizzare alla virtù e alla pietà: «E così fu solito riprovare con evangelica libertà i vizi pubblici e smascherare l’ipocrisia, simulatrice di virtù e di pietà; e, benché rispettoso, quanto altri mai, verso i sovrani, giammai si piegò a lusingarne le passioni o ad accondiscendere alle loro smodate pretese».

Appunto, ancora una volta, più le «armi del rigore» che la «medicina della misericordia»! Come a dire che il magistero di san Francesco di Sales dottore della Chiesa e patrono dei giornalisti e degli scrittori cattolici ha dovuto attendere quasi quattrocento anni per essere effettivamente compreso e accolto nella vita della Chiesa. E non senza difficoltà e obiezioni fino a oggi.

Abitare il cambiamento con saggezza evangelica: raccontare Dio

Tre sono, secondo papa Francesco, le indicazioni cruciali per il nostro tempo che emergono dall’esperienza umana e spirituale di Francesco di Sales. In primo luogo, una scelta narrativa, ovvero la sfida di provare a raccontare con parole e forme nuove l’antica storia di Dio con l’uomo: «In realtà – scrive nell’introduzione al Trattato dell’amore di Dio –, mi sono proposto soltanto di rappresentare con semplicità e genuinità, senza artifici e, a maggior ragione, senza fronzoli, la storia della nascita, della crescita, della decadenza, delle operazioni, delle proprietà, dei vantaggi e delle eccelse qualità dell’amore divino». Francesco di Sales non vuole più utilizzare le minacce e le catene di ferro che si usano con i tori e i bufali, piuttosto «inviti, attrattive deliziose – scrive ancora sul Trattato dell’amore di Dio –, e sante ispirazioni, che poi sono i legami di Adamo e dell’umanità; ossia adatti e convenienti al cuore umano, per il quale la libertà è naturale».

La grazia di Dio, continua nel Trattato ben a ragione ampiamente citato da papa Francesco nella sua lettera, ha forza, ma non per costringere, semmai per attirare il cuore: «possiede una santa violenza, non per violare, ma per rendere amorosa la nostra libertà; agisce con forza, ma tanto soavemente che la nostra volontà non rimane schiacciata sotto un’azione così potente; ci spinge, ma non soffoca la nostra libertà: per cui ci è possibile, di fronte a tutta la sua potenza, consentire o resistere ai suoi movimenti, a nostro piacimento». Un racconto, quello di Francesco di Sales, ricchissimo di immagini e metafore estremamente efficaci. Come quella degli apodi, un riferimento che il nostro patrono trae da Aristotele, e che noi possiamo confermare con l’ornitologia: si tratta degli apodidi, la cui conformazione perfettamente adattata a un'esistenza condotta quasi ininterrottamente in volo: corpo allungato, tale da ridurre al minimo l'attrito; ali molto lunghe, a semiluna; coda costituita da dieci timoniere, più comunemente biforcuta, talvolta quadrata; cranio appiattito. Le zampe sono cortissime, con 4 dita robuste e dotate di forti unghie rivolte in avanti. Insomma, ed è quello che più interessa, gli apodidi sono eccezionali volatori: è assai raro osservarli a terra, data la grande difficoltà che poi incontrerebbero nel levarsi nuovamente in volo.

È proprio su questo punto che Francesco di Sales concentra la sua riflessione, ancora una volta largamente citata da papa Francesco: «Ci sono certi uccelli – scrive sempre nel Trattato –, che Aristotele chiama “apodi”, perché hanno gambe talmente corte e piedi così deboli, che non se ne possono servire, proprio come se non li avessero; e se, per caso, si appoggiano a terra, ci rimangono, senza poter riprendere il volo da soli, perché, non avendo l’uso delle gambe, né quello dei piedi, non hanno modo di spingersi e lanciarsi in aria; per cui rimangono accovacciati per terra e vi muoiono, a meno che il vento, sostituendosi alla loro incapacità, con folate sul terreno li prenda e li sollevi, come fa con molte altre cose. In tal caso se, servendosi delle ali, assecondano lo slancio e la prima spinta che dà loro il vento, lo stesso vento continua a venire in loro aiuto spingendoli sempre più in alto per aiutarli e riprendere il volo». L’applicazione è ben intuibile: l’uomo è come gli apodidi, fatto da Dio per volare e dispiegare tutte le sue potenzialità nella chiamata all’amore, rischia di diventare incapace di spiccare il volo quando cade a terra e non acconsente a riaprire le ali alla brezza dello Spirito.

La brezza e le ali, commenta papa Francesco: niente di passivo in questa relazione: se il vento di Dio soffia sempre con forza, a noi è chiesto di dispiegare con fiducia le ali alla brezza divina. Il Papa lo spiega ricorrendo a una sua riflessione di qualche anno fa: «il futuro non dipende da un meccanismo invisibile di cui gli esseri umani sono spettatori passivi. No, siamo protagonisti, siamo – forzando la parola – cocreatori».

La vera e la falsa devozione

La seconda indicazione preziosa che Francesco di Sales ci offre riguarda la devozione. Un termine per noi oggi desueto, e che pure insiste su una dimensione tutt’altro che secondaria delle nostre esistenze. E che può illuminare non poco anche le vicende di cronaca relative alla Chiesa dei nostri anni, in una parola, la pretestuosa e surrettizia contrapposizione tra papa Benedetto XVI e papa Francesco che vari gruppi cristiani e mezzi di informazione hanno costruito e ampiamente alimentato, fino a oggi. Afferma il nostro patrono all’inizio del suo altro conosciutissimo capolavoro, la Filotea, che non è affatto facile riconoscere la vera devozione: «di vera ce n’è una sola, ma di false e vane ce ne sono tante; e se non sai distinguere la vera, puoi cadere in errore e perdere tempo correndo dietro a qualche devozione assurda e superstiziosa». Appunto: chi è il vero “devoto” e da cosa si riconosce la “vera devozione”, diremmo l’autentica e feconda vita spirituale? Segue quella che papa Francesco definisce giustamente una gustosa e sempre attuale esemplificazione di quale sia la falsa devozione, tutt’altro che rara e che pure merita di essere trattata, come fa Francesco di Sales, con un sano umorismo: «Chi si consacra al digiuno, penserà di essere devoto perché non mangia, mentre ha il cuore pieno di rancore; e mentre non se la sente di bagnare la lingua nel vino e neppure nell’acqua, per amore della sobrietà, non avrà alcuno scrupolo nel tuffarla nel sangue del prossimo con la maldicenza e la calunnia. Un altro penserà di essere devoto perché biascica tutto il giorno una filza interminabile di preghiere; e non darà peso alle parole cattive, arroganti e ingiuriose che la sua lingua rifilerà, per il resto della giornata, a domestici e vicini. Qualche altro metterà mano volentieri al portafoglio per fare l’elemosina ai poveri, ma non riuscirà a cavare un briciolo di dolcezza dal cuore per perdonare i nemici; ci sarà poi l’altro che perdonerà i nemici, ma di pagare i debiti non gli passerà neanche per la testa; ci vorrà il tribunale». Il nostro patrono conclude: «Tutta questa brava gente, dall’opinione comune è considerata devota, ma non lo è per niente».

Lo sguardo dal basso è davvero prezioso per vivere e anche per credere! E se vogliamo riconoscere la vera devozione dobbiamo guardare un po’ più in profondità e misurare la qualità del nostro amore, della nostra carità. Non c’è devozione senza amore e non può esserci amore senza vera devozione. Come il fuoco e la fiamma, altra efficacissima immagine di Francesco di Sales: «In conclusione, si può dire che la carità e la devozione differiscono tra loro come il fuoco dalla fiamma; la carità è un fuoco spirituale, che quando brucia con una forte fiamma si chiama devozione: la devozione aggiunge al fuoco della carità solo la fiamma che rende la carità pronta, attiva e diligente, non soltanto nell’osservanza dei Comandamenti di Dio, ma anche nell’esercizio dei consigli e delle ispirazioni del cielo». Si comprende facilmente, commenta papa Francesco, che «una devozione così intesa non ha nulla di astratto. È, piuttosto, uno stile di vita, un modo di essere nel concreto dell’esistenza quotidiana. Essa raccoglie e interpreta le piccole cose di ogni giorno, il cibo e il vestito, il lavoro e lo svago, l’amore e la generazione, l’attenzione agli obblighi professionali; in sintesi, illumina la vocazione di ognuno».

Si comprende perché, se rettamente intesa, la devozione è anche un’esperienza di tutti, non legata a determinati stati di vita, ma che si può vivere ovunque e sempre, anche nelle redazioni dei giornali e delle Tv! È la vocazione universale alla santità, tema conciliare per eccellenza e che papa Francesco descrive qui con parole davvero ispirate a commento di quelle di Francesco di Sales: «Attraversare la città secolare, custodendo l’interiorità, coniugare il desiderio di perfezione con ogni stato di vita, ritrovando un centro che non si separa dal mondo, ma insegna ad abitarlo, ad apprezzarlo, imparando anche a prendere le giuste distanze da esso: [...] una lezione preziosa per ogni donna e uomo del nostro tempo».

L’estasi della vita

Se l’esistenza cristiana è fondata sulla relazione d’amore tra Dio e l’uomo, se non si tratta d’altro che aprire le ali alla brezza divina che ci solleva e ci sospinge nel cielo della vita, allora essa è necessariamente un’esperienza straordinaria, un’estasi continua. È il cuore dell’insegnamento di Francesco di Sales nel suo Trattato dell’amore di Dio, un messaggio potente e tutt’altro che datato e che ha a che fare con quella “differenza cristiana” sulla quale si è a lungo interrogato Enzo Bianchi e non solo lui. Appunto, come Gesù chiedeva ai suoi discepoli nel discorso della montagna: «se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,46-48).

Il nostro patrono ha una pagina formidabile su questo, che merita ripercorrere nella sua interezza, proprio al cuore del suo Trattato e in cui descrive l’eccesso felice della vita cristiana, lanciata oltre la mediocrità della mera osservanza: «Non rubare, non mentire, non commettere lussuria, pregare Dio, non giurare invano, amare e onorare il padre, non uccidere, è vivere secondo la ragione naturale dell’uomo; ma abbandonare tutti i nostri beni, amare la povertà, chiamarla e ritenerla una deliziosa padrona, considerare gli obbrobri, il disprezzo, le abiezioni, le persecuzioni, i martiri come felicità e beatitudini, mantenersi nei limiti di un’assoluta castità, e infine vivere nel mondo e in questa vita mortale contro tutte le opinioni e le massime del mondo e contro la corrente del fiume di questa vita, con abituale rassegnazione, rinuncia e abnegazione di noi stessi, non è vivere secondo la natura umana, ma al di sopra di essa; non è vivere in noi, ma fuori di noi e al di sopra di noi: e siccome nessuno può uscire in questo modo al di sopra di se stesso se non l’attira l’eterno Padre, ne consegue che tale modo di vivere deve essere un rapimento continuo e un’estasi perpetua d’azione e di operazione».

Ancora una volta, come per la devozione, il termine estasi potrebbe portarci lontano dalla realtà e verso un modello di religiosità assai rischioso e spesso fuorviante. Francesco di Sales ne è ben consapevole e ha un ottimo antidoto da suggerirci, come già per la distinzione tra falsa e vera devozione: «Quando si incontra una persona che nell’orazione ha dei rapimenti per mezzo dei quali esce e sale al di sopra di se stessa fino a Dio, e tuttavia non ha estasi della vita, ossia non conduce una vita elevata e congiunta a Dio, [...] soprattutto per mezzo di una continua carità, credimi, Teotimo, tutti i suoi rapimenti sono molto dubbi e pericolosi». Molto efficace è la sua conclusione: «Essere sopra di se stessi nell’orazione e al di sotto di se stessi nella vita e nell’azione, essere angelici nella meditazione e animali nella conversazione [...] è un vero segno che tali rapimenti e tali estasi non sono che divertimenti e inganni dello spirito maligno». Dopo tutto, commenta papa Francesco, è quello che già Paolo ricordava ai Corinti nell’inno alla carità: «Se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,2-3).

In sintesi, per Francesco di Sales «la vita cristiana non è mai senza estasi e, tuttavia, l’estasi non è autentica senza la vita. Infatti, la vita senza l’estasi rischia di ridursi a un’obbedienza opaca, a un Vangelo che ha dimenticato la sua gioia. D’altro lato, l’estasi senza la vita si espone facilmente all’illusione e all’inganno del Maligno. Le grandi polarità della vita cristiana non si possono risolvere l’una nell’altra. Semmai l’una mantiene l’altra nella sua autenticità. In tal modo, la verità non è senza giustizia, il compiacimento senza responsabilità, la spontaneità senza legge; e viceversa.

Conclusione

La descrizione dell’estasi della vita che Francesco di Sales ci ha presentato potrebbe apparire una prospettiva inarrivabile e datata, ma basterà ricordare la scelta di fratel Biagio Conte, a Palermo, per renderci conto che si tratta di qualcosa di molto reale e concreto che ancora parla, agisce, vince e convince donne e uomini che vivono accanto a noi. Così affermava il missionario laico la cui scelta costituisce una provocazione salutare per tutti noi: «Carissima e amata umanità: coraggio, non perdiamo la preziosa speranza di un mondo migliore e più giusto. Sento nel cuore, grazie al buon Dio, di incoraggiare questa sofferente società e ogni essere vivente, ogni uomo ed ogni donna di questa terra, aiutiamoci gli uni con gli altri per ricostruire insieme la pace e la vera speranza». E precisava: «In ognuno di noi c’è un eremita, ma bisogna staccare la spina. Se non staccavo la spina tutto questo mondo non l’avrei scoperto».

Ecco il punto: ritrovare il cuore del cuore della vita e non perderlo più di vista. In proposito, Francesco di Sales non ha dubbi, come spiega ancora papa Francesco commentando un’altra pagina del Trattato: la sorgente profonda dell’estasi della vita, della scelta di fratel Biagio e di tante altre e altri come lui, è l’amore manifestato dal Figlio incarnato. Se, da un lato, è vero che «l’amore è il primo atto e il principio della nostra vita devota o spirituale, per mezzo della quale viviamo, sentiamo, ci commuoviamo» e, dall’altro, che «la vita spirituale è tale quali sono i nostri movimenti affettivi», è chiaro che «un cuore che non ha affetto non ha amore», come pure che «un cuore che ha amore non è senza movimento affettivo».

Ma la sorgente di questo amore che attrae il cuore è la vita di Gesù Cristo: «Niente fa pressione sul cuore dell’uomo quanto l’amore», e il culmine di tale pressione è che «Gesù Cristo è morto per noi, ci ha dato la vita con la sua morte. Noi viviamo soltanto perché egli è morto ed è morto per noi, a nostro vantaggio e in noi». È la consegna di Francesco di Sales, di papa Francesco, di fratel Biagio, di tutte e tutti coloro che si sono incamminati nella scelta del vangelo: custodire e coltivare una viva e profonda amicizia con Gesù. Era il tema costante delle sue lettere di direzione spirituale: «Gesù Cristo sia il nostro cuore, il suo cuore sia il nostro coraggio, il suo coraggio sia la nostra forza e la sua forza sia il nostro sostegno». E ancora: «La miglior preghiera e meditazione è quella che ci tiene così occupati nel pensiero di Dio che non pensiamo più a noi stessi né a quello che facciamo». Un suggerimento straordinario e concretissimo, non c’è che da viverlo.

Ultima modifica: Sab 28 Gen 2023