Appunti per governare la mediamorfosi: negoziare l’algoritmo per l’autonomia professionale

Suscita una certa tenerezza vedere testate e redazioni fare a gara nel mettere in pagina gli artefatti di ChatGPT, nelle sue ultime versioni, con un florilegio di editoriali, cronache, rassegne stampa o interviste impossibili prodotte con il dispositivo di Microsoft.

Da una parte ci sembra di cogliere i prodromi di una sindrome di Stoccolma, in cui i prigionieri si trovano complici dei propri carcerieri, dall’altro affiora un patetico senso di frustrazione, che si vuole mitigare con la caccia all’errore che inevitabilmente si rintraccia nel dispositivo di intelligenza artificiale.
In entrambi i casi, la categoria ancora una volta si trova a focalizzare la propria attenzione sulle soluzioni tecnologiche invece che sulle ragioni e missioni sociali.

La narrazione conta più del contenuto

Come ci ha spiegato, ormai più di 20 anni fa, Manuel Castells, nella sua monumentale ed esaustiva trilogia de La Società in rete (Bocconi editore), i meccanismi digitali sono proiezioni e conseguenza di una domanda sociale, che deriva innanzitutto dalla scomposizione della dimensione di massa che produzione e consumo avevano affidato anche ai media.
Dagli anni ‘90, con la graduale diluizione degli apparati industriali fordisti, e la scomposizione delle forme di consumo massificato in profili sempre più personalizzati, muta la dinamica tipica del mercato dell’informazione, dove i mediatori selezionavano e distribuivano ai propri target le quote di contenuti, e

i lettori dovevano solo cedere il proprio tempo di attenzione che veniva poi tramutato in un costo contatto.
Siamo, insomma, dinanzi ad una trasformazione antropologica, che vede ogni individuo, sia nelle fasi più mature ed emancipate che in quelle anche più meccanicamente subordinate, costituire micro-comunità che amplificano i propri messaggi e identificano distintivamente il proprio profilo. Ciò avviene in un ambiente dove la stragrande maggioranza degli individui, come ci confermano tutte le più accreditate ricerche sociologiche sulle forme di produzione del PIL, non è più legata a processi di produzione materialmente subordinati e alienati, ma in attività dove aumentano sempre più le componenti di intraprendenza individuale, in cui è proprio la narrazione – più concretamente, l’informazione – la fase di reale produzione del valore. «Ogni oggetto coincide più con il suo racconto che con il suo contenuto», ci dicono oggi i guru del marketing.

Un cambiamento che valorizza la funzione del produttore di notizie, ma rende questa funzione meno professionale e più istintivamente intrinseca in ogni attività umana. Si scambiano informazioni per vivere, non per fare un mestiere.
In questa mutazione diventa assolutamente impensabile conservare modelli organizzativi, identità professionali e riconoscimenti sociali, se cambia il contributo e la missione dell’intera attività giornalistica.
Si deve allora ripensare al processo produttivo e alle forme di coinvolgimento sociale che la catena del valore della notizia ancora conserva.

La notizia “su misura”

Un contributo mi pare possa essere ricavato da quanto concretamente sta accadendo sul mercato americano, dove il giornalismo ha maturato le sue evoluzioni più innovative e prestigiose.
Come ci racconta nel suo ponderoso saggio “Mercanti di Verità” (Sellerio editore) Jill Abramson, già capo redattore del Wall Street Journal, vicedirettrice del Washington Post e prima donna al vertice del New York Times, che descrive, meticolosamente, la trasformazione delle redazioni negli ultimi 20 anni.

Un fenomeno che lei riassume con la formula dell’abbinamento: ogni notizia va abbinata ad ogni singolo utente. Oggi, spiega la Abramson, i giornalisti si trovano ad operare in un apparato sempre più dedicato a soddisfare gli utenti dei sistemi digitali, a cui si vogliono vendere servizi personalizzati, e per questo ognuno dei milioni di utenti va profilato e identificato per fornirgli l’assistenza più pregiata.

In questo modo, documenta l’ex direttrice del “New York Times”, le testate americane sono sopravvissute, diventando competitive ed autonome rispetto alle piattaforme che dominano il mercato.
Proprio l’autonomia e la competizione con Google e Facebook è oggi la formula che permette una alternativa vincente alle redazioni, certo al prezzo di adeguarsi alle condizioni e ai saperi del nuovo mondo.
Una mutazione genetica che ci costringe a definirci proprio rispetto all’abilità di programmare e adattare le potenze tecnologiche.

L’irruzione dell’Intelligenza Artificiale
Come meglio descrive Luciano Floridi nel testo “La Quarta rivoluzione” (Cortina Editore, Milano, 2020): «la società dell’informazione è una società neo manifatturiera in cui l’informazione è sia un materiale grezzo che produciamo e manipoliamo, sia il prodotto finito che consumiamo. In una società siffatta, allorché si fa riferimento alla capacità, dobbiamo davvero porre più enfasi sulla così detta conoscenza del fare, vale a dire sulla conoscenza detenuta da coloro che sanno come disegnare e produrre gli artefatti, cioè coloro che sanno come creare, elaborare e trasformare l’informazione».

Se si delega ai service provider come appunto Google o Twitter, come tendono a fare numerosi editori nazionali senza pero essere contrastati, funzioni come le memorie, i data base, il flusso delle news, la relazione con i propri utenti, il destino è segnato.
In questa evoluzione irrompono ChatGPT e consimili, meccanismi che decentrano ad ogni individuo la potenza di calcolo che produce non più un’indicizzazione delle fonti di ogni argomento, come Google, ma una sintesi ragionata, ed elaborata di ordinamenti concettuali estratti dal sapere sociale.
Dunque ancora stavamo faticosamente digerendo quella mediamorfosi che aveva trasformato il giornalismo professionale in una conversazione sociale, che ci troviamo ora dinanzi ad un dispositivo che si candida a supportare, se non proprio sostituire, larghe parti del lavoro redazionale, aumentando per altro la capacità dei nostri lettori di mettersi in proprio, e di diventare autori diretti dell’informazione.

Un processo questo che non dovrebbe sorprenderci, perché proprio nel nostro Paese cominciò a prendere forma.
Lo aveva previsto quel grande editore di imprese, come si definiva, che era Adriano Olivetti, che nel lontano novembre del 1959, proprio anticipando la Programma 101, il primo vero personal computer che stava progettando in quei mesi, così descriveva il futuro dei cittadini: «...sottratto alla più faticosa routine, dotato di strumenti di previsioni, di elaborazione e di ordinamento, prima inimmaginabili, il responsabile di qualsiasi attività tecnica, produttiva, scientifica, può ora proporsi nuove, amplissime prospettive».
Una straordinaria visione profetica, che non riuscì a contaminare il suo Paese, né tanto meno il mondo dell’informazione.

Dalla produzione di contenuti all’elaborazione delle informazioni

I giornalisti contemplano la propria decadenza ma non riescono, come anche l’ultimo congresso della FNSI ha dimostrato, a trovare ruolo e ambizione nel mondo digitale.
Soprattutto non riescono a cogliere la natura sociale di queste trasformazioni, e si nascondono dietro l’imponderabile potenza dei giganti tecnologici.
In realtà proprio questa magia di disporre di “strumenti di previsioni, di elaborazione e di ordinamento“, come scandiva al suo tempo Olivetti, si chiama big data, il cosiddetto petrolio del nuovo millennio, che ci permette di prevedere, elaborare e ordinare le nostre attività.

La presenza dei dati sta mutando le condizioni di competizione sul mercato, trasformando l’artigianato giornalistico in una sistematica questione di calcolo: vince chi li riconosce, li raccoglie e li elabora, nel più breve tempo possibile.
Come spiega Lev Manovich nel saggio Cultur Analysis (Cortina editore, Milano 2023), «la differenza del nostro tempo è l’interattività che porta ogni individuo a manifestare la propria natura, i propri desideri, le proprie necessità, rendendo calcolabile la relazione sociale che tesse con la sua comunità».
In due decenni, i big data hanno riclassificato il sistema editoriale spostando dalla produzione di contenuti all’elaborazione delle informazioni il valore aggiunto della comunicazione.
Questa risorsa diventa la base dell’intelligenza artificiale, che si realizza proprio nella calcolabilità di questi infiniti serbatoi di dati, che profilano ognuno di noi.
ChatGPT esiste, possiamo dire, perché esiste un mondo parallelo dove confluiscono tutte le informazioni che la nostra vita digitale genera e che vengono elaborate e riconosciute da possenti algoritmi.

L’Intelligenza Artificiale come servizio pubblico

Se questa è la base del dominio, che esercitano le grandi piattaforme, allora il sistema giornalistico deve rivendicarne il controllo.
Come pensiamo di sopravvivere se appaltiamo, come sta accadendo, a Google i piani di formazione professionale? Come pensiamo di uscire dalla subalternità ai monopoli dell’algoritmo se continuiamo a delegare a loro le memorie e i dati delle testate? Come pensiamo di mantenere coerenza e dignità professionale, e dunque rivendicare riconoscimenti e trattamento retributivo, se accettiamo passivamente i vincoli di automatismi che guidano ormai le pubblicazioni on line dei nostri giornali?

La disponibilità di un agente artificiale che rispondendo alle tue domande, come capita a ChatGPT di Microsoft o a Bard di Google, certamente ci facilita il lavoro, riducendo le attività più faticose e ripetitive, ma inevitabilmente comporta forme di omologazione e di dipendenza nei comportamenti e nei linguaggi.

Nello scorso gennaio le grandi religioni monoteiste hanno siglato una carta d’intesa, “Call for Ethics, troppo poco diffusa e condivisa, in cui si contestano i domini etici e le forme di commercializzazione di procedure che comportano discriminazione e sopraffazione culturale.

Un messaggio che potrebbe aiutarci a porci il tema di una negoziazione professionale e sociale dei valori etici e culturali nel mercato digitale. Pensiamo alla partita sulla trasparenza dei dati, e sulle forme di condivisione dei meccanismi di calcolo che rimangono uno spazio pubblico, come abbiamo definito spazio pubblico la Tv, chiunque ne sia il titolare. Si pone oggi, con urgenza, la necessità di introdurre modelli di contrattazione dei meccanismi automatici. Una strategia che non ha più bisogno di specializzate abilità informatiche, quanto invece di una padronanza dei processi di evoluzione e ibridazione dei meccanismi automatici, che l’informatica propone.

Infatti proprio le capacità di auto programmazione, che hanno sviluppato i sistemi come ChatGPT, che reagiscono su input trasmessi in linguaggio naturale, determina una situazione per cui le abilità tecniche sono assolte dal dispositivo che sviluppa software su richiesta diretta degli utenti, in base a fini o a accortezze che vengono indicate dai committenti. Non bisogna avere un camice bianco per riprogrammare questi algoritmi. Bisogna invece avere una visione delle tendenze e delle strategie dei gruppi informatici per poterne contrattare e contestare l’invadenza, soprattutto nelle fasi della ricerca e della prototipazione dei dispositivi.
L’intelligenza artificiale, così come la ricerca sanitaria o biologica, deve diventare un servizio pubblico, che risponde ai bisogni sociali e alle pretese professionali di una comunità, come il mondo dell’informazione di un paese. Sono in ballo anche aspetti di sicurezza e autonomia nazionale: l’informazione oggi è anche il terreno di una guerra ibrida che non possiamo certo reggere in sub appalto.

Uno sforzo corale per rovesciare il tavolo

Al tempo stesso dobbiamo giocare la partita con le armi proprie di questa nuova realtà. Se l’offerta chiavi in mano di soluzioni, linguaggi e condizioni che ci fanno le grandi piattaforme sono oggi la vera minaccia di un declino inarrestabile del nostro mestiere, dobbiamo avere la capacità e la fantasia di rovesciare il tavolo, mettendo in campo tutte le opportunità che l’attualità di ci propone.

La sicurezza nazionale è oggi un elemento da usare come protezione contro l’invasione degli ultracorpi digitali, per riprogrammare i sistemi, non certo per inibirli.
Lo stesso bisogna fare sulle risorse dell’intelligenza artificiale.

Siamo ormai alla vigilia di nuovi modelli che saranno sempre più verticali, sempre più specializzati sui singoli settori. L’informazione è un terreno su cui si concentra l’attenzione delle grandi corporation. Dobbiamo attivare con il sistema istituzionale italiano, a partire dalle autority della comunicazione e della privacy, una riflessione sulle forme di tutela dei cittadini, come il caso Tik Tok ci ha mostrato. Ma anche di riorganizzazione attiva dei meccanismi.

La Fondazione Mozilla, uno dei principali e più prestigiosi gruppi che ha sempre lavorato sulla valorizzazione dell’open source rispetto ai software proprietari, oggi lancia un progetto per riprogrammare i sistemi intelligenti in rete, mediante forme sussidiarie e cooperative. Una vera mobilitazione che dovrebbe diventare un vero manifesto dell’intelligenza artificiale socialmente utile.
Si tratta di supplire ai costi ingenti dell’addestramento privato degli agenti intelligenti con modalità associative, che permettono una maggiore pertinenza e sensibilità del dispositivo sulle particolari esigenze linguistiche o culturali, o di gusto e sensibilità di una certa comunità o territorio.

L’intelligenza artificiale, così come la ricerca sanitaria o biologica, si propone così come una grande strategia corale, a cui, progressivamente, i singoli operatori possono dare forma e carattere senza dover subire domini o vincoli. Il giornalismo può raccogliere questa sfida, diventando uno dei contendenti e non più un semplice utilizzatore finale?

* L'autore, Michele Mezza, è giornalista e insegna Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi e Culture Digitali all’Università Federico II Napoli. Il suo ultimo libro è “Net-war. Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra” (Donzelli, 2022)

Sul tema della credibilità dell’informazione, leggi anche: Unione Cattolica Stampa Italiana - Sulla credibilità, più domande che risposte (ucsi.it)

La foto di copertina, “Algoritmo”, è di Fabio Rava/Flickr

Ultima modifica: Sab 17 Giu 2023