Pandemia, uno spartiacque per curare l'infodemia (e non solo)

«Pensare significa anticipare»
(Michel Serres)

La pandemia da Covid-19 del 2020, con il conseguente disordine informativo − in termini di infodemia, disinformazione, fake news, clima di confusione e sfiducia collettiva − è uno spartiacque significativo da cui prendere le mosse, per affrontare un tema complesso e trasversale come la (perdita di) credibilità di molti enti intermedi (sistema comunicativo in primis, ma non solo) nell’attuale paesaggio mediatico. Una deriva che viene del resto da lontano, come dimostrano tra i tanti studi gli ultimi quindici (preziosi) Rapporti UCSI-Censis sulla comunicazione che hanno analizzato, anche in prospettiva comparata, l’evoluzione delle “diete mediatiche” degli italiani dagli inizi del nuovo millennio fino al 2018: monitorando non solo la fenomenologia dei consumi dei media nella loro trasformazione incessante, ma anche gli effetti di frammentazione sull’immaginario collettivo, sulla formazione dell’opinione pubblica, sull’uso politico dei social network, nonché sul “nichilismo light” dei giovani (all’avanguardia del nomadismo mediatico e del disincanto) di questa vera e propria “rivoluzione copernicana”. Sintetizzabile, fra il resto, in un’accentuata polarizzazione tra giovani e anziani con l’avvio del ciclo della economia della disintermediazione digitale (terreno fertile per il populismo), con l’ingresso nella cosiddetta “era biomediatica” della post-verità e con i processi di personalizzazione, soggettivizzazione e desincronizzazione dei palinsesti, preludio all’attuale avvento dell’Intelligenza Artificiale “generativa”, come, ad esempio, il software ChatGPT-4 su cui è opportunamente intervenuto Michele Mezza con il suo originale, attento e provocatorio contributo per Desk (leggi qui). 

MUTAZIONI ANTROPOLOGICHE

Sono dinamiche e processi di mutazione di paradigmi antropologici inarrestabili − ma su cui occorre evidentemente riflettere per governarli − che hanno notoriamente posto l’io-utente al centro del sistema comunicativo, con tanto di lifelogging compulsivo, scardinando la gerarchia tradizionale dei mezzi che attribuiva a fonti professionali e autorevoli dell’informazione mainstream un ruolo esclusivo.

Con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: come la “fede” nei dispositivi di self-tracking e nei servizi di social networking che, sempre secondo i dati degli ultimi Rapporti UCSI-Censis, hanno però scavato un nuovo solco tra élite e popolo. Anche in termini di perdita di fiducia, autorevolezza e credibilità, appunto. E in quella che il filosofo Gino Roncaglia, già autore di La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro (Laterza, Bari 2010), definisce L’età della frammentazione (Laterza, Bari 2018), dove con la rivoluzione digitale si è passati dalla multimedialità all’attuale transmedialità, serve allora, più che mai, una epistemologia della complessità tra cultura, civilizzazione ed educazione: teorizzata, tra gli altri, dal filosofo e sociologo Edgar Morin come antidoto all’atomizzazione, alla separazione e ad un progresso fuori contesto, incapace di rispondere alle urgenti sfide educative, e ambientali, della post-modernità.

Occorrono insomma, per parafrasare ancora Morin (e una convinzione di Montaigne), sempre più “teste ben fatte”, anziché “ben piene”: per una auspicabile, e per certi versi ineludibile, «riforma del pensiero» (e della formazione) centrata sulla necessità di una nuova conoscenza (e coscienza: ecologica, civica, dialogica, antropologica) che riguarda anche il giornalismo contemporaneo in Italia, troppo spesso immemore della propria identità originaria, storicamente plurale e scaturita da una peculiare vocazione «missonaria e pedagogista», almeno nella sua fase aurorale tra XVIII e XIX secolo (come ci ricorda Giovanni Gozzini nella sua Storia del giornalismo, Bruno Mondadori, Milano 2000).

Di fronte a quella che Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini definiscono La cultura orizzontale, in un loro recente e agile testo (Laterza, Roma-Bari 2020) ricco di dati e di analisi utili a comprendere uno scenario in cui «si legge in modo diverso dal passato, ci si informa in maniera più complessa di come lo si faceva solo pochi anni fa e sono soprattutto i giovani ad avere abitudini di consumo culturale e mediale assai lontane da quelle dei loro genitori», è pertanto opportuno allora ragionare a più voci anche sugli effetti che la Rete sta producendo sulla trasmissione, sulla produzione e sul concetto stesso di cultura, e sul mondo dell’informazione, in un mediascape dove la coesistenza di unità e di molteplicità in una dimensione glocale − intesa come coabitazione, nell’ecosistema globale e territorializzato, di locale e planetario − segna la trasformazione di culture e identità. Con una complessità cognitiva e sociale e nuovi modelli di intelligenza e di comunicazione che pongono sempre nuove sfide.

La cultura stessa cambia funzione, nel mondo “liquido”, come ci ricordava Zygmunt Bauman nel volume Per tutti i gusti. La cultura nell’età dei consumi (Laterza, Roma-Bari 2016): e da “stimolante”, si trasforma in “tranquillante” per trasformarci, tutti, in prosumer (anglicismo che da qualche anno connota una nuova figura che è al tempo stesso un po’ producer e un po’ consumer)...

CULTURA ORIZZONTALE E “DISEREDATI”

Qualche dato orientativo: a poco più di mezzo secolo dalla sua invenzione, gli utenti di Internet, che erano 4,39 miliardi nel 2019 (ossia il 57% della popolazione mondiale), hanno un ritmo di crescita di oltre 1 milione al giorno (entro il 2025 si prevede che diventeranno 7 miliardi); i social media sono usati mediamente per due ore al giorno dal 45% dell’umanità (ma gli utilizzatori sono raddoppiati nel giro degli ultimi cinque anni) e in un solo anno − dal gennaio 2020 al gennaio 2021 − gli utenti dei social media nel mondo sono aumentati del 13%: ovvero, mezzo miliardo in più. In media, sul web si trascorrono 6 ore e 42 minuti al giorno (circa la metà tramite connessione mobile), e i siti presenti sul web sono oltre 1 miliardo. Per il 42,5% degli italiani il problema numero uno di Internet è la diffusione di comportamenti violenti, dal cyber-bullismo alle diffamazioni e intimidazioni online; al secondo posto, il 41,5% colloca il tema della protezione della privacy, seguito dal rischio della manipolazione delle informazioni attraverso le fake news (40,4%).
Si potrebbe continuare, ma risulta evidente solo da questi pochi cenni che il fenomeno del disordine informativo è in aumento. E la posta in gioco molto alta: soprattutto rispetto a una rottura inedita avvenuta nella società occidentale, che il filosofo francese François-Xavier Bellamy ha messo a fuoco in un suo libro dal titolo I diseredati. Ovvero l’urgenza di trasmettere (Itaca, Castel Bolognese, RA 2016), incentrato sulla considerazione che una generazione ha rifiutato di trasmettere la propria eredità culturale, “disederedando” di fatto i più giovani. Con esiti letali.

Sconvolto sull’assassinio, il 12 marzo 2011 a Parigi, di un ragazzo ucciso da un coetaneo proprio a due passi dal liceo dove il giovane Bellamy insegnava, l’autore si è così arrovellato sull’assurdità di tale violenza, scaturita da una banalità (l’adolescente ammazzato, Samy, aveva solo attraversato la linea immaginaria tra due quartieri); ma si è inevitabilmente interrogato, anche, sul fallimento dell’educazione che nel suo vuoto lascia spazio a “ospiti inquietanti” e nichilismo, laddove famiglie poco attente e docenti-mediatori perdono − appunto − credibilità e autorevolezza: come sta continuando ad accadere, ancora oggi, alle agenzie educative tradizionali accanto ad altri enti intermedi come, ad esempio, i partiti politici. Con conseguenze sotto gli occhi di tutti, confinate in casi di cronaca ahinoi sempre più frequenti, ma in realtà interconnessi, in questo scenario al bivio tra deresponsabilizzazione e corresponsabilità collettiva in cui l’emergenza educativa, più volte profeticamente denunciata dalla Chiesa, è ora ineludibile. Bellamy si chiede: su cosa rifondare la didattica e l’educazione? E conclude: «L’emergenza assoluta oggi consiste nel rifondare la trasmissione. Urge riconciliarsi con il significato stesso dell’educazione per far vivere in ognuno la cultura, per mezzo della quale l’uomo diventa umano, la libertà effettiva e un futuro comune possibile».

In quest’ottica, la pandemia del 2020 ha funzionato come vaso di Pandora, per le gravi conseguenze del suo impatto anche sui ragazzi, in termini di diseguaglianze da didattica a distanza e disagio da lockdown, con sintomi di regressione cognitivo-emotiva (il 71% dei minori sopra i 6 anni) e arretramento nel rendimento a scuola del 35% denunciati da ricerche e insegnanti, con un boom di accessi psichiatrici in ospedali pediatrici: fino all’esplosione di casi di autolesionismo, suicidi e violenza minorile.

PREVENIRE E CURARE. CON L’EDUCAZIONE

Ma anche qui, purtroppo, si tratta di una deriva di onda lunga: già sei anni fa il pedagogista Daniele Novara, fondatore e direttore del CPP (il Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti a Piacenza e a Milano), aveva infatti denunciato in un suo articolo, alla vigilia del convegno nazionale dell’8 aprile 2017 a Milano «Curare con l’educazione», la sospetta “epidemia di malattie psichiatriche”, che da tempo sembra aver colpito le scuole italiane, con il raddoppio di certificazioni di disabilità (legge 104), la quadruplicazione di Dsa (Disturbi specifici di apprendimento – legge 170/2010) e il dilagare dei cosiddetti Bes (Bisogni educativi speciali). Miriadi di casi supportati da fior fiore di diagnosi neuropsichiatriche, con relativa esigenza di docenti di sostegno o programmi specifici con facilitazioni, attinenti anche alle prove di verifica. «Il risultato finale è che in una classe elementare italiana un bambino su 4 è in media portatore di una diagnosi attinente a un deficit specifico», sottolineava Novara nel suo intervento (Oltre l’eccesso di medicalizzazione psichiatrica. È ora di curare con l’educazione, sul quotidiano “Avvenire”, 7 aprile 2017), con una provocazione ancora attuale: ma davvero così tanti bambini sono malati? O, semmai, ad essere malata oggi è l’educazione?

Un tema che avrebbe di sicuro appassionato il cronista di razza Gianni Rodari (1920-1980), giornalista, poeta, scrittore, pedagogista e intellettuale militante a tutto tondo del Novecento che ai problemi della scuola, dei bambini e delle famiglie ha dedicato attenzione costante che però non sembra avere simile riscontro, oggi, nel mainstream comunicativo.
Per tornare allo spartiacque-pandemia, nello specifico sanitario lo tsunami di notizie connotato dalla Treccani come «circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili» si collega altresì strettamente alla centralità di una comunicazione sociale dotata invece di un bagaglio tecnico e scientifico rigoroso, per veicolare con gli strumenti giusti quella comunicazione del “rischio” riconosciuta anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come fondamentale nella gestione delle emergenze, e non solo: in quanto rappresenta, anche nell’ordinarietà della vita quotidiana, la prima vera forma di soccorso e di prevenzione del male (la conoscenza come consapevolezza), che fa la differenza. Perché l’informazione (corretta) è una differenza che genera differenze. E serve a proteggere tutta la comunità.

Ne parla un libro appena uscito, a cui vale la pena, in conclusione, di rinviare per una ulteriore prospettiva sul tema della credibilità (fondamentale in ogni settore, come si è accennato, ma cruciale per la sanità e salute pubblica). Ne sono autori Cesare Buquicchio, Cristiana Pulcinelli e Diana Romersi: si intitola La comunicazione nelle emergenze sanitarie. Gestione dell’infodemia e contrasto alla disinformazione come strumenti di sanità pubblica (Pensiero Scientifico Editore, Roma 2023), si avvale della presentazione di Elena Savoia dell’Harvard T.H. School of public Health, della premessa di Caterina Rizzo dell’università di Pisa e mette a fuoco una sorta di “infoterapia” per lasciarsi definitivamente alle spalle la stagione dell’infodemia da Sars-CoV-2 facendo tesoro di questa drammatica (ed emblematica) esperienza per integrarla con le indicazioni più aggiornate sulla letteratura e le linee guida delle istituzioni sanitarie internazionali, con box di approfondimento e sintesi per punti chiave che rendono agile la struttura del libro, aperto non a caso da una citazione apocrifa (subito smascherata, per far comprendere quanto sia facile cadere nella trappola delle “fake news”), e chiuso con una domanda su quale sarà la prossima crisi. La migliore risposta, in mancanza di evidenze, è un’ammissione sincera: «non lo sappiamo».

COMUNICAZIONE DEL RISCHIO E CREDIBILITÀ

Proprio l’onesta comunicazione dell’incertezza, difatti, è una delle basi della “comunicazione del rischio”, che permette di (ri)costruire fiducia. Torna qui in mente quanto preconizzava Martin Heidegger sulla «spaesatezza», che diventa «destino mondiale», come scrisse nella sua Lettera sull’umanismo pubblicata nel 1947, ma redatta nel dicembre del 1946 su sollecitazione di Jean Beaufret, amico e collega del filosofo tedesco che in quel tempo si domandava quale senso potesse ancora avere la parola umanismo. «La pandemia è stata l’occasione per mettere alla prova le nostre capacità di gestione e contrasto della disinformazione, ma oggi ci troviamo a dover compiere un ulteriore sforzo davanti alle possibili criticità legate all’intelligenza artificiale», ha affermato Cesare Buquicchio, che tra il 2019 e il 2022 è stato Capo Ufficio Stampa del ministero della Salute: «Dobbiamo avviare al più presto una riflessione – aggiunge − che coinvolga la sanità pubblica e cominciare a lavorare su nuove tecnologie e formazione interdisciplinare, perché questo non si ripresenti domani. L’eccesso di informazioni, spesso inesatte o distorte, adesso sta inquinando il racconto della guerra e in futuro potrebbe compromettere le crisi sanitarie legate al cambiamento climatico», conclude Buquicchio.
Già. Non è solo questione di deontologia professionale: in gioco, ci sono vite umane. Basti pensare all’incremento di mortalità indotto da false informazioni in un clima di confusione e sfiducia che ha acuito la crisi sanitaria: a inizio pandemia, ad esempio, 800 persone nel mondo sono morte e circa seimila sono state ricoverate per avvelenamento da metanolo, presentato come una cura per il Covid!

Difendersi dalla malainformazione che genera sfiducia e perdita di credibilità è difficile, ma non impossibile: gli esperti parlano di prebunking e debunking, ovvero di un lavoro sperimentale di demistificazione (debunking) preceduto, preferibilmente, da un lavoro altrettanto sperimentale di prevenzione delle “bufale”, detto appunto prebunking, definito “vaccinazione attitudinale”, messo in atto su You Tube, la popolare piattaforma di video sharing, e nato da uno studio peer reviewed pubblicato dalle università di Cambridge e Bristol identificando con You Tube e Jigsaw (una unità di Google che costruisce tool per giornalisti, attivisti e membri della società civile) un metodo nuovo per impedire agli utenti di social media e servizi web di scivolare nel buco nero della disinformazione. L’esperimento ha inserito negli slot pubblicitari di YouTube dei brevi video di un minuto e mezzo circa, per informare il pubblico sulle più comuni tecniche di manipolazione utilizzate per far passare notizie false o fuorvianti (manipolazione emotiva, false dicotomie, scape-goating, ovvero il trovare un capro espiatorio). Risulterebbe che i 30mila partecipanti all’esperimento, dopo aver visto le clip hanno aumentato la capacità di identificare informazioni false del 5%, acquisendo strumenti critici per poter scegliere consapevolmente le fonti, valutare una notizia e prendere decisioni. Utili soprattutto per la propria salute.

Certo, prevenire è meglio che curare a danno avvenuto. Anche se restano aperte molte domande sulla gestione e le metodologie di questo approccio preventivo focalizzato su macrocategorie: interrogativi dai risvolti etico-politici, su temi sensibili proprio come le attività di moderazione dei contenuti sulle piattaforme, e non solo. Si pensi solo al problema delle tecniche di influenza psicologica: non a caso Jon Roozenbeek, tra i ricercatori che hanno guidato l’esperimento di prebunking, dice che il test è solo una parte della soluzione del problema, che necessita di ulteriori sforzi trasversali, in un crossover con altre aree.
Ma – si sa – il cammino si fa andando. L’importante è mantenere la rotta, e la credibilità, navigando nel (tempestoso) mare della comunicazione sociale con la sola consapevolezza che il cambio di paradigma (e di sguardo) di questo viaggio passa – necessariamente – per la molteplicità. Come quella indicata dallo psicanalista Massimo Recalcati nel suo libro dedicato alla pratica dell’insegnamento (L’ora di lezione, Einaudi, Torino 2014) dove, riflettendo su cosa significhi essere insegnanti «in una società senza padri e senza maestri», rivela come «un bravo insegnante sia colui che sa fare esistere nuovi mondi, che sa fare del sapere un oggetto del desiderio in grado di mettere in moto la vita e di allargarne l’orizzonte». Ma non è forse il metodo che dovrebbe avere anche un buon giornalista, “interprete” e mediatore della realtà?

Leggi anche: Unione Cattolica Stampa Italiana - Il 'chi è chi' del giornalismo: attori e registi di un’informazione re-intermediatadi Lorenzo Ugolini

Ultima modifica: Sab 17 Giu 2023