La buona scrittura di don Milani.

L’articolo che pubblichiamo è solo una parte del lungo intervento di don Alessandro Andreini nella prima giornata dei giornalisti dell’Ucsi Toscana a Barbiana (giugno 2014).

Il vertice, per così dire, della riflessione di don Milani sul valore della parola e della scrittura è contenuto senza dubbio nel suo “scritto” più famoso, Lettera a una professoressa. In essa, in primo luogo, sono espresse quelle Regole dello scrivere che non smettono di affascinare per la loro stringatezza e per il rigore morale che contengono:

Aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Non porsi limiti di tempo .

Pochissime frasi, ma dove è detto veramente l’essenziale di ogni possibile esperienza di scrittura, a livello di metodo – si noti il riferimento alla logica, all’asciuttezza del discorso, alla necessità di prendersi tutto il tempo che serve –, ma anche e soprattutto a livello delle motivazioni della scrittura – la messa a fuoco di qualcosa di importante da dire, mancando il quale è davvero preferibile il silenzio, l’individuazione chiara dei destinatari, poiché non si scrive mai in astratto, ma sempre e solo a qualcuno, la consapevolezza che ciò che si vuole scrivere sia davvero utile, se non a tutti, a molti –.

Nel suo saggio, Carmelo Mezzasalma (in “Don Lorenzo Milani, un prete tra fede e cultura”, pp. 31-64 di “Lorenzo Milani. L’etica della scrittura”, Ed. Feeria-Comunità di San Leolino, Panzano in Chianti  - Firenze - 2005) stabilisce un parallelo molto opportuno tra queste regole e i consigli dati a un giovane poeta da parte di Rainer Maria Rilke, e dove il grande poeta tedesco scriveva: «Mi domanda se i versi che lei manda alle riviste sono buoni. Ormai (poiché mi permette di darle dei consigli) la prego di rinunciare a tutto questo. Il suo sguardo è rivolto fuori: proprio questo adesso non deve più fare. Nessuno può consigliarla, aiutarla, nessuno. Non c’è che una sola strada. Entri in se stesso, cerchi il bisogno che la fa scrivere: veda se affonda le radici nel più profondo del cuore. Confessi a se stesso: morirebbe se le fosse impedito di scrivere? Questo soprattutto: si interroghi nell’ora più silenziosa della notte: sono stato veramente costretto a scrivere?» ...

...L’assunto da cui la Lettera prende avvio nel descrivere il metodo è decisivo: l’arte di scrivere, così come ogni altra arte, può essere insegnata. E se tra i giovani di Barbiana si è discusso a lungo se fosse opportuno rivelare i segreti dell’arte, la tecnica “piccina” che ne sta alla base, con il rischio di esserne derisi, la decisione finale è stata quella di far conoscere il metodo «a uso di quei lettori che ci vorranno bene» . Ecco, dunque, il metodo, che analizziamo fase per fase . Il punto di partenza è quello che noi definiremmo, in termini contemporanei, un lavoro di brainstorming:

Per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola.

Il secondo passaggio è poi quello del riordino delle idee che sono state raccolte:

Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano a uno a uno per scartare i doppioni. Poi si riuniscono i foglietti imparentati in grandi monti e son capitoli. Ogni capitolo si divide in monticini e son paragrafi.

È un lavoro di rilettura e di sintesi, di suddivisione e di prima, sommaria organizzazione del discorso. Si mettono accanto, in modo fisico, le idee che si avvicinano, e si inizia anche ad articolare le varie sezioni, i capitoli, in sezioni più piccole, i paragrafi. Non c’è dubbio che un simile lavoro sarà tanto più ricco e significativo, tanto più ricca e varia sarà stata la fase di accumulo delle idee.
Il passaggio successivo è più direttamente dedicato al contenuto:

Ora si prova a dare un nome a ogni paragrafo. Se non si riesce vuol dire che non contiene nulla o che contiene troppe cose. Qualche paragrafo sparisce. Qualcuno diventa due.

Il fatto di poter dare un nome al “monticino” significa che è possibile identificarne in modo chiaro e sufficientemente definito il contenuto: un criterio molto materiale, ma altrettanto oggettivo e funzionale. Se il nome non si trova, le possibilità non sono che due: o il paragrafo è troppo ricco e va ulteriormente suddiviso, oppure è vuoto e non ha ragion d’essere.
A questo punto, e solo a questo punto, si cerca, analizzando l’elenco dei paragrafi così identificati un possibile ordine logico del discorso:

Coi nomi dei paragrafi si discute l’ordine logico finché nasce uno schema. Con lo schema si riordinano i monticini.

L’impostazione è sorprendente e davvero rivoluzionaria: non si tratta di uno schema deciso a priori, ma di una riflessione che si organizza a partire da ciò che è stato pensato, che si costruisce logicamente dall’interno, dal basso e non dall’alto. Ed è un criterio che, dopo aver prodotto l’impostazione generale, si estende anche all’organizzazione dei singoli paragrafi:

Si prende il primo monticino, si stendono sul tavolo i suoi foglietti e se ne trova l’ordine. Ora si butta giù il testo come viene viene.

Ha poi inizio, diremmo, la fase più appassionante del lavoro, quella revisione contenutistica e stilistica del testo suddivisa anch’essa in più momenti, di cui il primo è quasi un secondo brainstorming, magari il primo non fosse stato sufficiente:

Si ciclostila per averlo davanti tutti eguale. Poi forbici, colla e matite colorate. Si butta tutto all’aria. Si aggiungono foglietti nuovi. Si ciclostila un’altra volta.

È la fase, in altri termini, in cui è possibile tornare a formulare idee, che ora possono avere un orientamento più preciso e definito proprio perché si tratta di un lavoro di riflessione sostenuto da un impianto concettuale e logico già messo a punto: in un certo senso, è una fase altrettanto cruciale della prima.
Segue, poi, la parte più materiale della revisione del testo, dove, tuttavia, coerentemente con le Regole dello scrivere che abbiamo analizzato in precedenza, il lavoro di stile è anche un lavoro concettuale, lo scavo della parola è anche sempre un lavoro sul suo significato, sul dire. È un’arte in levare piuttosto che in mettere, così come la vera letteratura ci insegna:

Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola.

Siamo ormai quasi al termine del processo di scrittura collettiva. E giunge il momento in cui si chiamano in causa persone estranee, particolarmente persone non eccessivamente istruite, la cui lettura del testo sarà preziosissima per misurarne il grado di chiarezza e comprensibilità:

Si chiama un estraneo dopo l’altro. Si bada che non siano stati troppo a scuola. Gli si fa leggere a alta voce. Si guarda se hanno inteso quello che volevamo dire.

Se i lettori esterni offrono dei consigli, il criterio per la loro accettazione torna a essere l’esigenza di schierarsi unita a quella della chiarezza e dell’essenzialità:

Si accettano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza.

Siamo arrivati alla conclusione, e la sorpresa, non di rado, è che qualcuno scambi il lavoro collettivo per un lavoro individuale, secondo il concetto borghese di cultura che tanto male ha fatto e continua a fare soprattutto a livello pedagogico:

Dopo che s’è fatta tutta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti, si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: ‘Questa lettera ha uno stile personalissimo’.

C’è un ultimo dettaglio che non deve sfuggirci. Dicevamo che il presupposto fondamentale di questo esercizio di scrittura collettiva è la convinzione – che si oppone all’idea tipicamente borghese del genio – che non è impossibile imparare l’arte di scrivere.

Don Milani ne è fermamente convinto: basta lavorare a un solo scritto collettivo ogni anno per apprendere l’arte dello scrivere. Dopo tutto, sentenzia con grande acutezza, «l’arte è il contrario di pigrizia». E basterebbe questa intuizione a demolire qualsiasi ideologia borghese delle inclinazioni naturali e, appunto, del presunto genio.

* L'autore Alessandro Andreini è consulente ecclesiastico dell'Ucsi Toscana e presbitero della Comunità di San Leolino.

Ultima modifica: Ven 7 Lug 2017

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