'La vita dentro la morte'. Il testo della meditazione per l'incontro Ucsi in Lombardia

 

A pochi giorni dalla Pasqua, l’Ucsi della Lombardia ha offerto a tutti i giornalisti anche un momento di spiritualità e preghiera. Nella Cappella Acli di via della Signora a Milano, don Stefano Stimamiglio ha proposto una meditazione sul tema 'Vivere la vita dentro la morte', di cui pubblichiamo ampi stralci.

 meditazione di don Stefano Stimamiglio 

LA VITA DENTRO LA MORTE

À      I profeti dicono che il deserto diventerà un giardino. La morte si trasformerà in vita. In Is 41,17-18, ad esempio, leggiamo:

«I miseri e i poveri cercano acqua ma non ce n'è la loro lingua è riarsa per la sete; io, il Signore, li ascolterò; io, Dio di Israele, non li abbandonerò. Farò scaturire fiumi su brulle colline, fontane in mezzo alle valli; cambierò il deserto in un lago d'acqua, la terra arida in sorgenti».

Benedetto XVI ha riflettuto sul fatto che l’Eden si sia trasformato in un deserto a causa della disobbedienza dei progenitori. Il Messia farà l’opposto, nella sua morte trasformerà il deserto in giardino attraverso l’obbedienza. Maria Maddalena al sepolcro penserà di Gesù, non riconoscendolo subito, che era il custode del giardino (Gv 20,15).

À      È questa la speranza pasquale che ci sostiene, che il Verbo crocifisso e ucciso è in realtà vivo e che ci restituisce dalla morte alla vita. Nel suo sangue ci ridà la gioia del giardino delle origini. «So che non morirò perché sento la vita che sgorga dentro di me», dice un Padre della Chiesa, san Simeone. La vita che pulsa nella morte, ecco il grido di Pasqua.

À      Ma per accedere davvero al mistero della salvezza donataci nella Pasqua dobbiamo capire che siamo morti e che la salvezza non è conquistata ma donata. Dobbiamo ricordare che il giardino che il Padre ci ridona nel Figlio e che avevamo perso col peccato ci è ora ridonato proprio perché siamo morti. È nella morte di Gesù, se accettiamo e decidiamo di entrare con lui nel sepolcro, che si attua il passaggio da quello che siamo in virtù del peccato (= la nostra separazione volontaria da Dio), cioè  individui (= senso di autosufficienza), a esseri comunionali, cioè “in comunione”, come Gesù è in comunione col Padre. In Gesù siamo comunione col Padre.

À      È lo Spirito Santo che, rispettando la nostra libertà, ci abilita a condividere la divino-umanità di Cristo Signore, cioè della sua forma di vita (che è l’Amore), e quindi ad assumere gli stessi pensieri di Dio, a cogliere i nessi tra le cose, le concordanze, il legame di ogni cosa con l’altra, della nostra vita con quella di Dio, di nostra moglie, dei nostri figli, dei confratelli, dei vicini, degli amici, dei nemici...

À      Come si arriva a vivere della vita di Cristo, dei suoi pensieri? Come si arriva a volere in lui? Come si può sostituire il nostro cuore di pietra con il suo cuore di carne? Come si può vivere la vita dentro la morte? Come si fa a passare da uomini e donne “individuali” a uomini e donne “comunionali”?

À      Questo avviene se accettiamo di integrare nella nostra vita quello che significa la divino-umanità di Cristo. Nel grembo verginale di Maria Dio si fa carne in Gesù Cristo. Divino e umano convivono nella stessa carne, senza confusione né mescolanza. Non sono più contrapposti. Non hanno più senso i voli prometeici alla ricerca di Dio, la volontà di potenza dell’uomo di farsi lui stesso Dio, di crearsi idoli e di adorarli (fossimo pure noi stessi…). Umano e divino si uniscono nella libertà del Figlio. È questa la novità assoluta cristiana, il farsi altro da sé, cosa che solo l’Amore è capace di fare.

À      Cristo-Dio, assumendo la nostra carne, amandoci, fa la nostra stessa esperienza fondamentale della morte. Dio fa l’esperienza nella sua carne della nostra morte. Entra nel sepolcro, nello sheol, per noi. Soffre per questo in una misura inimmaginabile per noi. Ma proprio attraverso questo atto sacrificale che si apprestiamo a vivere nella Settimana Santa (“Autentica” nel rito ambrosiano) la morte è sconfitta nella sua Risurrezione della sua carne. Dio risorge. La carne morta ridiventa viva, per sempre. La sua carne, che è la nostra carne, risorge. La morte è sconfitta, dentro la morte vive la vita…

À      La cosa più difficile da capire e integrare per noi è che la vita ci viene come dono. Non è nostra. Non è meritata. Nemmeno la salvezza è meritata (come ci illudiamo spesso di meritare con le pratiche di pietà, la Messa, l’essere onesti, ecc.). Tutto è dono. Tutto ci è dato. Da noi nulla viene…

À      Ma la menzogna del serpente ci fa credere che siamo noi i padroni della vita, i padri di noi stessi. Egli ci fa credere che da soli ci possiamo salvare, anche quando pensiamo di costruire la nostra vita sul Vangelo, anche se in realtà lo facciamo incarnando l’uomo vecchio che vive del suo protagonismo, dell’osservanza della legge, che fonda la sua vita sul diritto del merito. In una parola: se ci illudiamo che ci conquistiamo da soli la salvezza. Questa è la mentalità di peccato. Su questo san Paolo ha parole durissime.

À      Così facendo ci priviamo del primo ed essenziale bene: la comunione con Dio. La vita è dono, oppure è morte, non c’è terza via. Da soli non ci possiamo salvare.

À      Il punto essenziale della vita in Dio che ci è donata nella sua Pasqua è allora, come detto, che l’incontro con Cristo avviene nella logica della sepoltura, esattamente come Dio l’ha sperimentata. Lo sperimentare che sono morto, che in me non ho la vita, e che c’è qualcuno che mi chiama fuori dalla tomba.

À      I poli della salvezza, della vita dentro la morte, sono allora due: l’iniziativa gratuita di Dio che mi chiama – ora! – fuori dalla tomba; e la mia accoglienza di questa chiamata, che è possibile solo se non ho attivato (o ho la fede di disattivare) meccanismi di auto salvezza (“non ne ho bisogno”). L’esperienza di Pasqua è, in una parola, la risposta a Dio che mi chiama: «Adamo dove sei?» (Gen 3,9). Adamo rispose di essere nudo, e fuggì da Dio nel deserto. Noi, nella morte di Cristo, possiamo rispondere: «Eccomi, Signore!».

À      Questo ci è difficile perché dopo la caduta noi non conosciamo più la nostra natura nella sua verità, ma la conosciamo e la viviamo segnate dalla tragedia del peccato. Solo Cristo dà compimento alla vocazione originaria dell’uomo, tradita in Adamo, di vivere l’umanità alla maniera di Dio e nutrire di questa vita relazionale tutto l’universo (l’Eden).

À      La vita dentro la morte è renderci conto che non possiamo tirarci fuori dalla situazione di morte in cui siamo se qualcun altro non ci chiama fuori. Il nostro incontro vero col Signore è, come direbbe Paolo, «affinché nessuna carne si vanti» (1Cor 1,29).

À      È forse il passaggio da una fede a cui siamo stati abituati, figli di una chiesa che si è resa mondana, devozionale, volta alla “perfezione” dell’individuo (oggi diremmo forse “benessere psico-spirituale”) e alla “realizzazione spirituale”, anticamera e presupposto della realizzazione nel mondo. Una fede fatta di fedeltà a pratiche, precetti, ritmi (volta ad alimentare la sete di realizzazione dell’io) che la post-modernità ha spazzato via in un battibaleno.

À      Per chiudere: la vita dentro la morte ci è data per partecipazione, libera e volontaria, all’esperienza salvifica di Cristo. Dare la vita per l’amato, per l’altro, anche per il nemico, accettare di morire, sapendo che nella vita abita la morte. Sapendo che sono così amato da Dio, che nulla potrà separarci da lui.

Ultima modifica: Mar 27 Mar 2018