Passerà alla storia come la sentenza della “tempesta emotiva”. Vissuta, nel mondo femminile e non solo, come un ennesimo passo indietro nel cammino dei diritti delle donne, scese in piazza con sdegno per protestare contro la scelta della Corte di assise di appello di Bologna – impugnata dalla Procura generale di Bologna che farà ricorso in Cassazione – di dimezzare la pena per Michele Castaldo: l’ulteriore femminicida, reo confesso, dell’ex fidanzata Olga Matei, ultima vittima di una scia di violenza che non accenna a cessare né a diminuire. E non soltanto in Italia. Ma questo fatto di cronaca - echeggiante stagioni, che si pensavano superate, di attenuanti giuridiche da “raptus” maschili e “delitti d’onore” - induce anche a riflettere più in profondità su quanto il filo della violenza sia tessuto, negli àmbiti in apparenza più diversi o distanti, dall’uso ipocrita e strumentale delle parole. Che passa sul corpo delle donne (e delle bambine e ragazze). E investe in pieno la nostra responsabilità di comunicatori sociali, nella corretta (in)formazione dell’opinione pubblica.