Il giornalismo di pace, oggi
Nelle ore drammatiche della guerra in Ucraina anche il giornalismo si interroga sul proprio ruolo. Noi adesso riproponiamo l'articolo di Paola Springhetti (tratto dalla nostra rivista 'Desk) sul "giornalismo di pace". Come possiamo leggere, non si tratta certo di un giornalismo buonista. E neppure di un racconto che si limita ad auspicare un mondo senza guerre. E' qualcosa di diverso, di più ampio e profondo. probabilmente anche più incisivo però per risolvere un conflitto (ar)
Paola Springhetti
Nella parte finale di un messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali “La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace”, papa Francesco invitava a promuovere il giornalismo di pace, specificando che con questa espressione non intende «un giornalismo “buonista”, che neghi l’esistenza di problemi gravi e assuma toni sdolcinati», ma, al contrario, vuole indicare «un giornalismo senza infingimenti, ostile alle falsità, a slogan ad effetto e a dichiarazioni roboanti; un giornalismo fatto da persone per le persone, e che si comprende come servizio a tutte le persone, specialmente a quelle – sono al mondo la maggioranza – che non hanno voce; un giornalismo che non bruci le notizie, ma che si impegni nella ricerca delle cause reali dei conflitti, per favorirne la comprensione dalle radici e il superamento attraverso l’avviamento di processi virtuosi; un giornalismo impegnato a indicare soluzioni alternative alle escalation del clamore e della violenza verbale».
Che cosa è dunque e come si fa un Giornalismo di pace? Per riempire di contenuti più specifici questa espressione, è utile ricordare quando e perché è nata. Quella del Giornalismo di Pace (Peace Journalism) è infatti una teoria – e una proposta operativa – nata un bel po’ di anni fa grazie al sociologo norvegese Johan Galtung. Studioso dei temi della pace e del conflitto, Galtung aveva fondato nel 1959 il Peace Research Institute di Oslo e nel 1964 il “Journal of Peace Research”. Nel ’65, insieme alla politologa Mari Holmboe Ruge, pubblicò uno studio sulle notizie dall’estero (The structure of Foreign News), da cui nacque la riflessione sul ruolo dell’informazione nei conflitti e, appunto, l’idea di un Giornalismo di Pace.
Nei decenni successivi la riflessione è stata ripresa e sviluppata da vari studiosi e giornalisti: uno dei testi più importanti è quello di Jake Lynch e Annabel McGoldrick, Peace Journalism, uscito nel 2005, senza dimenticare il sito Trascend International, che ha sviluppato e continua a sviluppare le teorie di Galtung.
In Italia questo filone di riflessione è rimasto pressoché sconosciuto, anche per mancanza di una bibliografia nella nostra lingua: il tema è presente praticamente solo nel lavoro di alcune realtà impegnate sui temi della pace, come il Centro Sereno Regis di Torino, e in qualche Università, come l’Università Pontificia Salesiana di Roma. Finalmente, nel 2016 le Edizioni Gruppo Abele hanno raccolto una serie di contributi in un testo in italiano: si intitola “Giornalismo di pace”, ed è stato curato da Silvia De Michelis e da Nanni Salio, del Centro Sereno Regis.
Che cosa è il conflitto
Per capire cosa è e come si fa il Giornalismo di Pace, secondo questo filone di pensiero, occorre partire dall’idea di conflitto di Galtung, secondo il quale il conflitto non è sinonimo di guerra né di violenza. Si tratta piuttosto di una condizione sempre presente là dove esseri umani convivono e si relazionano tra loro. Il problema è: come affrontare i conflitti in modo da trasformarli in occasioni di crescita per tutti i soggetti coinvolti e senza ricorrere alla violenza, o ponendovi fine?
In questa prospettiva, i conflitti vanno prima di tutto capiti. Il che non è scontato: come scrivono Galtung e Lynch, «è indispensabile cominciare individuando la struttura del conflitto, le parti interessate con i loro obiettivi e le loro problematiche, senza cadere nella falsa convinzione che gli attori chiave siano là dove si consuma l’azione violenta... Non sempre il problema nasce dove si manifestano i sintomi: ciò è valido per il corpo umano come per l’analisi dei conflitti, per una lotta di classe come per un minore maltrattato, finanche per i conflitti nazionali o internazionali».
In fondo, i conflitti nascono dal fatto che diversi soggetti o gruppi si propongono obiettivi che sono, o sembrano, in contraddizione tra di loro e, se non si trova una mediazione, si può arrivare all’aggressione e alla violenza per raggiungerli. Ma dietro comportamenti aggressivi e violenti c’è qualcosa di più che non il semplice tentativo di raggiungere l’obiettivo: sullo sfondo c’è una violenza culturale e strutturale, che spesso determina i comportamenti. Ed è anche per questo che la violenza non risolve affatto i conflitti: determina chi vince o chi perde, e lascia sul campo, insieme alle vittime e ai perdenti, una frustrazione che molto facilmente diventerà causa di ulteriori conflitti.
Galtung, ovviamente, crede nella nonviolenza come metodo costruttivo per trovare soluzioni di pace creative, che siano accettabili per tutti gli attori in gioco.
La critica al giornalismo di guerra
Secondo Galtung e Lynch esistono due modi di raccontare i conflitti: una via inferiore – quella del giornalismo di guerra – e una via superiore – quella del Giornalismo di Pace. «La via inferiore, quella del giornalismo della violenza, racconta un conflitto come una battaglia e la battaglia come un’arena sportiva. Le parti sono combattenti che cercano di imporre il loro obiettivo, come in un gigantesco tiro alla fune dove ognuno sta all’estremità della corda. Lo schema discorsivo di riferimento è quello del bollettino militare: chi guadagna terreno, chi lo abbandona; contare le perdite in termini di morti, feriti, danni materiali. La prospettiva del gioco a somma zero rimanda al giornalismo sportivo, dove “vincere non è tutto, è l’unica cosa”» (pp. 57-58).
Questo modo di raccontare i conflitti – abitualmente adottato dal giornalismo di guerra – crea molti problemi. Dà una visione semplicistica (spesso in campo ci sono due soggetti, ma in realtà quelli che sono coinvolti nel conflitto e che lo influenzano sono molti di più) e, nel tentativo di raccontare chi vince e chi perde, è facile schierarsi da una parte o dall’altra e soprattutto lasciarsi condizionare dalla propaganda, che accompagna sempre i conflitti. Tanto più che questo tipo di giornalismo si basa soprattutto su fonti istituzionali e su dati ufficiali.
Per questo rischia di alimentare ulteriormente il conflitto, approfondendo le divisioni e spingendo chi sta perdendo a reagire con ancora più violenza, per non essere sconfitto definitivamente. Infine, questo modo di fare informazione lascia fuori dal campo di ciò che è notiziabile i tentativi di dialogo, l’impegno di quei soggetti – non necessariamente istituzionali – che stanno cercando soluzioni e vie di uscita.
Cosa contraddistingue il Peace Journalism
Non è affatto detto che la fine del conflitto debba vedere un vinto e un vincitore. Per questo, la “via superiore”, secondo Galtung e Lynch, più che sul singolo atto violento – chi oggi ha guadagnato terreno, chi ha manifestato, chi ha messo una bomba – si concentra su come il conflitto cambia, evolve. Racconta, cioè cosa c’è sotto i singoli atti di violenza, che cosa spinge le persone a compierli. «L’obiettivo di un buon giornalista non è solo localizzare la pistola che ha sparato, ma rendere chiaro perché ha sparato».
Il Giornalismo di Pace perciò dedica particolare attenzione ad individuare la genesi del conflitto, anche al di là dei confini geografici all’interno dei quali esso si svolge; ad evidenziare le responsabilità e gli obiettivi – anche quelli non dichiarati – di tutte le parti coinvolte; a mettere in luce gli aspetti culturali e strutturali sottostanti... Si impegna a dare voce alle persone e non solo alle élite, ai Governi o ai vertici militari. Soprattutto dà spazio alla ricerca di soluzioni orientate alla “vittoria” di tutte le parti coinvolte e al racconto di come queste soluzioni vengono cercate. Insomma, non si ferma alla dinamica violenza-vittoria, fa un passo avanti verso la dinamica conflitto-trasformazione.
Naturalmente, il Giornalismo di Pace non può esimersi dal raccontare la violenza, ma lo fa dando spazio anche alle vittime e alla loro sofferenza, che spesso viene da più lontano, da quel contesto strutturale (ad esempio, l’ingiustizia) o culturale in cui la violenza si innesca. E quindi ha bisogno anche di fonti che non sono quelle ufficiali o comunque delle élite: dà voce al punto di vista e alle aspettative della gente comune.
Il ruolo del giornalismo
Dunque, secondo Galtung e Lynch, il giornalismo ha un ruolo e una responsabilità nell’evoluzione del conflitto, perché può contribuire ad approfondire le divisioni o viceversa a costruire dialogo e a trovare soluzioni creative ed efficaci.
Proprio questa considerazione ha suscitato alcune critiche: i giornalisti, si è detto, hanno il compito di raccontare ciò che accade, non devono interferire nei processi. I due studiosi rispondono che «Il giornalismo di pace è un modo serio, inquisitore, professionale di fare giornalismo, che rende il conflitto più trasparente. Ma non si batte per la pace: questo è un compito che spetta agli attivisti» (72). Anzi, i giornalisti devono essere “scomodi” per chi fa esplodere e usa il conflitto, ma anche per chi cerca la pace: non tutte le ipotesi e le proposte su cui si lavora sono effettivamente costruttive, così come non tutti coloro che le propongono sono effettivamente animati da buone intenzioni, e quindi anch’esse vanno analizzate criticamente.
Quel che è certo è che il giornalismo di pace rompe molti schemi. Non a caso, i giornalisti che cercano di spiegare da dove nasce la violenza vengono spesso accusati di complicità, addirittura, a volte – soprattutto dopo il 2001 -, di essere terroristi: ma spiegare le cause non vuol dire giustificare, vuol dire semplicemente cercare di rendere più trasparente il conflitto.
Un giornalismo di pace come quello prefigurato da Galtung e Lynch difficilmente trova adozione nelle redazioni dell’informazione mainstream: rispecchia piuttosto il modo di fare informazione del giornalismo alternativo, delle Ong, del volontariato, della parte più consapevole della società civile. E se fosse arrivato il momento di confrontarsi con questo modello, magari trovando il coraggio di mettere in discussione alcune prassi consolidate, alcuni pregiudizi professionali?
Si legge, in quel messaggio del Papa, che il miglior antidoto contro le falsità non sono le strategie, ma le persone: «persone che, libere dalla bramosia, sono pronte all’ascolto e attraverso la fatica di un dialogo sincero lasciano emergere la verità; persone che, attratte dal bene, si responsabilizzano nell’uso del linguaggio. Se la via d’uscita dal dilagare della disinformazione è la responsabilità, particolarmente coinvolto è chi per ufficio è tenuto ad essere responsabile nell’informare, ovvero il giornalista, custode delle notizie. Egli, nel mondo contemporaneo, non svolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione. Ha il compito, nella frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone. Informare è formare, è avere a che fare con la vita delle persone». Per trasformare il mestiere in missione è necessario, credo, mettersi in discussione.