La pasqua di chi racconta la pasqua
Quanti di noi giornalisti siamo stati chiamati in queste ore a “raccontare” la pasqua! Nel mio caso l’ho fatto in tv, con i servizi, le interviste, le dirette delle celebrazioni. C’è chi lo ha fatto alla radio o sul giornale e chi sul web e sui social, con le inevitabili particolarità di quelle forme di comunicazione.
La domanda che anche stavolta mi sono posto è questa: come faccio a raccontarla bene, la pasqua, da giornalista credente, attraverso un media laico e per giunta ad una platea di telespettatori vasta ed eterogenea? E’ un pubblico che in gran parte ormai non vive più la dimensione religiosa e non ha dimestichezza con i riti e la liturgia.
La mia risposta “sul campo” di solito è la mediazione del linguaggio. Descrivo, cerco di spiegare, non do mai nulla per scontato. E’ un po’ come se parlassi in parole semplici di un evento che accade attorno a me. Non so se è una formula efficace, di certo evito ogni tipo di retorica e cerco di astenermi da ogni forma di autoreferenzialità.
Alla vigilia di questa pasqua ho intervistato un professore e ricercatore di filosofia, Giovanni Scarafile, e gliel’ho chiesto direttamente (qui l'intervista completa). Ho fatto ben presenti i due rischi a cui si può andare incontro: far ricorso ai soliti luoghi comuni oppure parlare di cose che non capisce più nessuno.
La sua risposta è stata bella e un po’ spiazzante: «Dobbiamo riposizionarci e passare dalla “ricorrenza” (noi facciamo memoria di un evento con tutto il suo carico di tradizioni, di schemi già vissuti) all’”evento”». Scarafile cita il filosofo francese Merleau-Ponty, che diceva: «Bisogna andare dalle parole parlate, cioè da quelle già sentite, alle parole parlanti, che non hanno mai smesso di riportarsi nei pressi dell’evento che vogliono nominare. Insomma bisogna trovare ogni volta parole nuove per dire questo grande amore che abbiamo vissuto nella nostra vita».
D’ora in poi’, nel mio “racconto” cercherò allora di usare sempre di più “parole parlanti”.