L'attesa e il desiderio dei Magi
Il tema della luce domina le feste del Natale e dell’Epifania, che anticamente - e ancora oggi in Oriente erano unite in una sola grande “festa delle luci”.
Per i Magi, venuti dall’Oriente ad adorarlo, la luce del re neonato assume la forma di un astro del cielo, così splendido da attirare i loro sguardi e guidarli fino a Gerusalemme e poi dal palazzo reale di Erode a Gerusalemme ad nuovo Palazzo reale: la grotta-stalla di Betlemme.
Questa Stella indica la strada a questi cercatori d’Infinito, perché guardano il cielo e cercano di ben interpretarne i segni. Quindi i Magi sono persone che si interrogano sulla realtà, non accontentandosi della risposta degli altri. Cercano una intelligenza più profonda della realtà e il senso della vita.
Come i Magi, oggi noi giornalisti e comunicatori dobbiamo interrogarci e siamo invitati a rinnovare, davanti al Verbo incarnato, il nostro atto di fedele adesione, offrendo non solamente quel poco o tanto che abbiamo, ma noi stessi come sacrificio santo e a Lui gradito. Ed è proprio grazie a questa quotidiana offerta di sé che noi diventiamo, nel mondo e per il mondo, segni della nuova umanità, strumenti di una nuova comunicazione.
Noi tutti operatori della comunicazione e giornalisti cattolici, nella celebrazione della Epifania, dobbiamo essere capaci di raccontare le attese, le gioie, e le preoccupazioni di un mondo in continuo cambiamento. I Magi e i Pastori, prima ancora, hanno vissuto l’attesa dell’arrivo del Signore con grande trepidazione e con il cuore aperto al nuovo messaggio di liberazione e di salvezza. Oggi l’attesa è, invece, vissuta molte volte come una perdita di tempo, come un elemento incomodo da affrontare prima che si verifichi altro.
Pensiamo alle stesse “sale di attesa” di stazioni, aeroporti o ambulatori: spesso a chi aspetta offrono un diversivo (tv, riviste, ...) che distragga dall’attesa stessa, che intrattenga chi aspetta, che riduca cioè al minimo il disagio dell’attendere. Eppure l’attesa ha un proprio valore. Il verbo attendere deriva dal latino ad-tendere, “distendersi, aspirare, mirare”. L’attesa implica una tensione verso qualcosa. Se da un punto di vista pratico, in giornate piene e indaffarate come sono diventate d’abitudine le nostre, l’attesa può essere fastidiosa, dal punto di vista ecclesiale ed educativo invece, è importante imparare a saper attendere. Perché?
L’attesa è legata al tempo. Il tempo è una risorsa preziosa. L’attesa può diventarlo se riflettiamo sull’attesa che ci aiuta a:
1. chiederci quale valore ciò che desideriamo ha veramente, che senso abbia per noi, quali eventuali sacrifici siamo disposti a fare per raggiungerlo/ottenerlo. Con l’attesa soffermiamo lo sguardo. Siamo stimolati a riflettere e interrogarci.
2. scoprirsi: l’attesa ci permette di vivere in uno spazio/tempo molto singolare, “sospeso” tra ciò che è già e ciò che non è ancora. Attendere è mettersi in ascolto di se stessi. Con pazienza, tempo, amore per sé.
3. riconoscersi capaci di trovare soluzioni alternative a ciò che, almeno temporaneamente, ci manca. Proprio perché attendere implica una tensione verso qualcosa, solitamente ciò che si vuole è ciò che non abbiamo. Nel desiderare ciò che manca si attivano capacità volte al raggiungimento dello scopo.
4. a darsi tempo: l’attesa è un tempo necessario, a volte fisiologico, perché qualcosa accada. Pensiamo all’attesa della gravidanza (chiamata, appunto, dolce attesa).
5. imparare a desiderare: attendere e desiderare sono due azioni strettamente collegate. Essendo oggi tutto più veloce, questo vale anche per i desideri. Si passa talvolta frettolosamente da un desiderio all’altro perché un desiderio può essere soddisfatto spesso in tempi molto brevi.
Nelle feste di Natale, dunque, l’attenzione è tutta rivolta al bambino che nasce: desta tenerezza, anche per le condizioni della provvisorietà e della povertà. L’attenzione emozionale rilancia la domanda centrale: perché un Dio dovrebbe essersi fatto uomo?
Diventando uomo Cristo incoraggia e accompagna la parte dell’uomo che più assomiglia a Dio: il suo spirito, la sua anima, la parte intelligente e volenterosa si accomuna nella dimensione spirituale propriamente divina. Il nesso tra Dio e le aspirazioni umane diventano un tutt’uno, così che si possa dire che Dio si è fatto uomo, ma l’uomo è diventato simile a Dio.
E’ un’intuizione intelligente che si sperimenta nella vita: un buon pensiero, un atto di generosità, il perdono, la gratitudine sono sentimenti e azioni che elevano l’uomo dalla dimensione semplicemente corporale a quella spirituale, avvicinandosi agli angeli. E’ consolazione, ma anche incoraggiamento.
Noi giornalisti siamo chiamati, in questo Natale, ma anche nel giorno dell’Epifania del Signore, a riscoprire la nostra vocazione, ma anche la nostra professione mettendo a centro del nostro lavoro e dei nostri servizi giornalistici il rispetto per l’uomo e la sua dignità. Siamo chiamati ad essere “lievito” per raccontare sempre la “verità”, affinché possiamo costruire nuovi ponti di pace e di verità.