Homo Sapiens e Macchina Sapiens: il futuro del lavoro
Anche nella nostra rubrica #deskdelladomenica, in queste settimane, proporremo scritti pubblicati sul numero di Desk interamente dedicato al lavoro (2017) e diffuso nell’imminenza delle 'Settimane Sociali’. Cominciamo dal contributo ricco di spunti di Paolo Benanti, docente di teologia morale e bioetica all'Università Gregoriana, che nei suoi studi descrive un futuro che è già presente e cha affronta il tema del rapporto tra uomo e macchina. Lo ha fatto anche durante la Scuola di Formazione dell’Ucsi, ad Assisi.
Paolo Benanti
Macchine sapiens
Il mondo del lavoro conosce oggi una nuova frontiera: quella delle interazioni e della coesistenza tra uomini e intelligenze artificiali. Prima di addentrarci ulteriormente nel significato di questa trasformazione dobbiamo considerare un implicito culturale che rischia di sviare la nostra comprensione del tema. Nello sviluppo delle intelligenze artificiali (AI) la divulgazione dei successi ottenuti da queste macchine è sempre stata presentata secondo un modello competitivo rispetto all’uomo.
Per fare un esempio, IBM ha presentato Deep Blue come l’intelligenza artificiale che nel 1996 riuscì a sconfiggere a scacchi il campione del mondo in carica, Garry Kasparov; e sempre IBM nel 2011 ha realizzato Watson, che ha sconfitto i campioni di un noto gioco televisivo sulla cultura generale Jeopardy!. Queste comparse mediatiche delle AI potrebbero farci pensare che questi siano sistemi che competono con l’uomo, e che tra Homo sapiens e questa nuova macchina sapiens si sia instaurata una rivalità di natura evolutiva che vedrà un solo vincitore e condannerà lo sconfitto a una inesorabile estinzione. In realtà queste macchine non sono mai state costruite per competere con l’uomo, bensì per realizzare una nuova simbiosi tra l’uomo e i suoi artefatti: (homo+machina) sapiens. Non sono le AI la minaccia di estinzione dell’uomo, anche se la tecnologia può essere pericolosa per la nostra sopravvivenza come specie: l’uomo ha già rischiato di estinguersi perché battuto da una macchina molto stupida come la bomba atomica. Tuttavia esistono sfide estremamente delicate nella società contemporanea, in cui la variabile più importante non è l’intelligenza quanto piuttosto il poco tempo a disposizione per decidere. Le macchine cognitive trovano qui grande interesse applicativo.
Si apre a questo livello una serie di problematiche etiche su come validare la cognizione della macchina alla luce della velocità della risposta che si cerca di implementare e ottenere. Tuttavia il pericolo maggiore non viene dalle AI in se stesse ma dal non conoscere queste tecnologie e dal lasciare decidere sul loro impiego a una classe dirigente assolutamente non preparata a gestire il tema.
Se l’orizzonte lavorativo del prossimo futuro – in realtà già del nostro presente – è quello di una cooperazione tra intelligenza umana e intelligenza artificiale e tra agenti umani e agenti robotici autonomi, diviene urgente cercare di capire in che maniera questa realtà mista, composta da agenti autonomi umani e agenti autonomi robotici, possa coesistere.
Primum non nocere
Il primo e più urgente punto che le intelligenze artificiali pongono nell’agenda dell’innovazione del lavoro è quello di adattare le nostre strutture sociali a questa nuova e inedita società fatta di agenti autonomi misti.
Una primissima sfida è di natura filosofica e antropologica. Queste frontiere dell’innovazione, la realizzazione di queste macchine sapiens, per utilizzare un termine molto evocativo, ci interrogano in profondità sulla specificità dell’Homo sapiens e in particolare su quale sia la specifica componente e qualità umana del lavoro rispetto a quella macchina: le rivoluzioni industriali hanno già dimostrato che non è l’energia, non è la velocità - e ora, che anche la cognizione e l’adattabilità alla situazione - non sono specifiche solamente umane.
La ricerca di risposte su questo tema è quanto mai urgente e importante per non sancire un declino dell’uomo negli orizzonti del postumano. Gli appartenenti a questa corrente di pensiero propugnano l’idea di un uomo in crisi, incapace di saper gestire le macchine che lui stesso ha creato. L’uomo sarebbe destinato ad essere confinato in un passato fatto di residui archeologici. Il postumano si configura, quindi, attorno all’idea centrale di un’umanità sconfitta dal suo stesso progresso. Le difficoltà e le trasformazioni che ha conosciuto l’Occidente industrializzato nel Primo dopoguerra hanno fatto emergere una serie di dubbi sulle capacità dell’uomo di saper gestire la complessità tecnico-sociale che egli stesso andava producendo. La natura umana non sarebbe che una mera illusione, e la pretesa etica connessa alla dignità della persona umana svelerebbe così la sua infondatezza.
Un secondo e altrettanto urgente tema, è quello di definire come e in che maniera si può garantire la coesistenza tra uomo e AI, tra uomo e robots. Per rispondere a questa domanda procederemo nel seguente modo. In primo luogo cercheremo di formulare una direttiva fondamentale che deve essere garantita dalle AI e dai robots; poi cercheremo di definire cosa questi sistemi cognitivi autonomi devono imparare per poter convivere e lavorare cooperativamente con l’uomo.
La prima e fondamentale direttiva da implementare può essere racchiusa nell’adagio latino primum non nocere. La realizzazione di tecnologie controllate da sistemi di AI porta con sé una serie di problemi legati alla gestione dell’autonomia decisionale di cui questi apparati godono. La capacità dei robot di mutare il loro comportamento in base alle condizioni in cui operano, per analogia con l’essere umano, viene definita autonomia. Per indicare tutte le complessità che derivano da questo tipo di libertà decisionale di queste macchine si è introdotto il termine Artificial Moral Agent (AMA): parlando di AMA si indica quel settore che studia come definire dei criteri informatici per creare una sorta di moralità artificiale nei sistemi AI, portando alcuni studiosi a coniare l’espressione macchine morali per questi sistemi.
Quando si usa il termine autonomia legato al mondo della robotica si vuole intendere il funzionamento di sistemi di AI, la cui programmazione li rende in grado di adattare il loro comportamento in base alle circostanze in cui si trovano ad operare. Un esempio classico di applicazione di questa direttiva fondamentale, chiamato situazione dei due carrelli, è stato formulato da Philippa Foot nel 1967 mentre si sperimentavano i primi sistemi di guida automatica dei mezzi per il trasporto di passeggeri negli aeroporti. Nel caso presentato dalla Foot un veicolo si avvicina a un incrocio e realizza che un altro veicolo in direzione opposta, con cinque passeggeri, è in traiettoria di collisione. Il primo veicolo può o continuare sulla sua traiettoria e urtare il veicolo che procede verso di esso uccidendo i cinque passeggeri a bordo o sterzare e colpire un pedone uccidendolo. La Foot si chiedeva: se noi fossimo alla guida del veicolo cosa faremmo? E un sistema robotizzato cosa dovrebbe fare? Giungendo alla conclusione che la macchina autonoma deve essere programmata per evitare assolutamente di ferire o uccidere l’essere umano e che se, in situazioni estreme, non fosse possibile evitare di nuocere all’uomo deve scegliere il male minore.
Macchine calcolatrici e macchine emotive: la difficile convivenza
Tuttavia, la questione degli agenti morali autonomi, dell’utilizzo di robot cognitivi in un ambiente di lavoro misto umano-robotico non può esaurirsi in questa direttiva primaria. Sfruttando un linguaggio evocativo potremmo dire che le macchine sapiens, per poter coesistere con i lavoratori umani, devono imparare almeno quattro cose. Questi quattro elementi possiamo capirli come una declinazione operativa della dignità insita nel lavoratore umano. Solo se le macchine sapranno interagire con l’uomo secondo queste direzioni, allora non solo non nuoceranno alla persona ma ne sapranno tutelare la dignità e l’inventività senza mortificarne l’intrinseco valore.
a. Intuizione
Quando due esseri umani cooperano, normalmente l’uno riesce ad anticipare e assecondare le intenzioni dell’altro perché riesce ad intuire cosa sta facendo o cosa vuole fare. Si pensi alla situazione in cui vediamo una persona che cammina con le braccia piene di pacchi. Istintivamente capiamo che la persona sta trasportando quei pacchi e la aiutiamo rendendole il lavoro più semplice o trasportando per lei parte del fardello che le ingombra le braccia. Questa capacità umana è alla base della grande duttilità che caratterizza la nostra specie e che ci ha permesso di organizzarci fin dai tempi più antichi riuscendo a cooperare nella caccia, nell’agricoltura e poi nel lavoro. In un ambiente misto uomo-robots le AI devono essere in grado di intuire cosa gli uomini vogliono fare e adattarsi alle loro intenzioni cooperando. Solo in un ambiente di lavoro in cui le macchine sapranno capire l’uomo e assecondare il suo agire potremo veder rispettati l’ingegno e la duttilità umana. La macchina si deve adattare all’uomo e alla sua unicità e non viceversa.
b. Intellegibilità
I robots in quanto macchine operatrici funzionano secondo algoritmi di ottimizzazione. I software ottimizzano l’uso energetico dei loro servomotori, le traiettorie cinematiche e le velocità operative. Se un robot deve prendere un contenitore cilindrico da una fila di contenitori, il suo braccio meccanico scarterà verso il contenitore prescelto secondo una traiettoria di minimo consumo energetico e temporale. Un uomo, di contro, se deve prendere lo stesso barattolo si muoverà verso di esso in una maniera che fa capire a chi gli è intorno cosa sta tentando di fare. L’uomo è in grado, nel vedere un altro uomo che compie un’azione, di capire cosa sta per fare in forza non dell’ottimizzazione dell’azione altrui ma della sua intellegibilità. Il modo di compiere le azioni rende l’agito intellegibile e prevedibile. Se vogliamo garantire un ambiente di lavoro misto in cui l’uomo possa coesistere con la macchina, il modo di compiere le azioni della macchina dovrà essere intellegibile. Dovremmo far sì che la persona che condivide con la macchina lo spazio di lavoro possa sempre essere in grado di intuire qual è l’azione che la macchina sta per compiere. Questa caratteristica è necessaria, tra l’altro, per permettere all’uomo di coesistere in sicurezza con la macchina non esponendosi mai a eventuali situazioni dannose. Non è l’ottimizzazione dell’azione della macchina la più importante finalità che deve caratterizzare i suoi algoritmi, bensì il rispetto dell’uomo.
c. Adattabilità
Un robot dotato di AI si adatta all’ambiente e alle circostanze per compiere delle azioni autonome. Tuttavia non si tratta di progettare e realizzare algoritmi di intelligenza artificiale che siano in grado di adattarsi solo all’imprevedibile condizione dell’ambiente donando alla macchina una sorta di consapevolezza sulla realtà che la circonda. In una situazione di cooperazione e lavoro mista tra uomo e macchina, il robot deve adattarsi anche alla personalità umana con cui coopera. Per esemplificare questa caratteristica proviamo a fare un esempio. Supponiamo di avere un’automobile a guida autonoma. La macchina dovrà adattarsi alle condizioni del traffico: in condizioni di intenso traffico, se la macchina non possiede degli efficienti algoritmi di adattabilità rischia di rimanere sempre ferma perché gli altri veicoli a guida umana le passeranno sempre avanti cercando di evitare l’ingorgo. Oppure, se non fosse abbastanza adattabile, rischierebbe di causare degli incidenti non capendo l’intenzione furtiva di cambiare corsia del guidatore che ha davanti. Tuttavia vi è un ulteriore e più importante adattamento che la macchina deve saper fare: quello alla sensibilità dei suoi passeggeri. Qualcuno potrebbe trovare esasperante la lentezza della macchina nel cambiare corsia o, al contrario, potrebbe trovare il suo stile di guida troppo aggressivo e vivere tutto il viaggio con l’insostenibile angoscia che un incidente possa essere imminente. La macchina deve adattarsi alla personalità con cui interagisce. L’uomo non è solo un essere razionale ma anche un essere emotivo; l’agire della macchina deve perciò essere in grado di valutare e rispettare questa unica e peculiare caratteristica del suo partner di lavoro. La dignità della persona è espressa anche dalla sua unicità. Saper valorizzare e non mortificare questa unicità di natura razionale-emotiva è una caratteristica chiave per una coesistenza che non vada a detrimento della parte umana.
d. Adeguatezza degli obiettivi
Un robot è governato da algoritmi che ne determinano le linee di condotta. Si pensi a uno di quei robot casalinghi in vendita nei negozi di elettrodomestici, che in maniera autonoma pulisce il pavimento raccogliendo la polvere. I suoi algoritmi sono programmati per questo; ma il robot è programmato per raccogliere la polvere o per raccogliere il massimo della polvere possibile? Se in un ambiente di sole macchine l’assolutezza dell’obiettivo è una policy adeguata, in un ambiente misto di lavoro uomo-robot questo paradigma non sembra essere del tutto valido. Se il robot vuole interagire con la persona in una maniera che sia conveniente e rispettosa della sua dignità deve poter aggiustare i suoi fini guardando la persona e cercando di capire qual è l’obiettivo adeguato in quella situazione. Si pensi a una situazione in cui un lavoratore e un robot cooperino nella realizzazione di un artefatto. Il robot non può avere come unica policy l’assolutezza del suo obiettivo come se fosse la cosa più importante e assoluta ma deve saper adeguare il suo agire in funzione dell’agire e dell’obiettivo che ha la persona che con lui coopera. In altre parole si tratta di acquisire, ci si perdoni il termine, una sorta di umiltà artificiale che, tornando all’esempio del robot aspirapolvere, consenta alla macchina di comprendere se deve aspirare tutta la polvere possibile o in questo momento aspirare solo un po’ di polvere e poi tornare a compiere questa funzione più tardi perché sono sorte altre priorità nelle persone che in quel momento sono nella stanza. Si tratta di stabilire che la priorità operativa non è nell’algoritmo ma nella persona che è luogo e sede di dignità. In un ambiente misto sono la persona e il suo valore unico a stabilire e gerarchizzare le priorità: è il robot che coopera con l’uomo, e non l’uomo che assiste la macchina.
Tempo di policies
Se queste quattro direttrici possono essere quattro dimensioni di tutela della dignità della persona nella nuova e inedita relazione tra uomo e macchina sapiens, bisogna poterle garantire in maniera certa e sicura. Si devono allora sviluppare degli algoritmi di verifica indipendenti, che sappiano in qualche modo quantificare e certificare questa capacità di intuizione, intellegibilità, adattabilità e adeguatezza degli obiettivi del robot. Questi algoritmi valutativi devono essere indipendenti e affidati ad enti terzi certificatori che si facciano garanti di questo. Serve implementare da parte del governo un framework operativo che, assumendo questa dimensione valoriale, la trasformi in strutture di standardizzazione, certificazione e controllo che tutelino la persona e il suo valore in questi ambienti misti uomo-robot. Si tratta di realizzare organismi che siano in qualche modo analoghi a quanto già in essere per la “Direttiva Macchine”: con l’entrata in vigore del DPR 459/1996 l’Italia era entrata a far parte dell’insieme degli Stati Europei che, avendo recepito la “Direttiva Macchine”, garantiscono la libera circolazione nel mercato comune europeo soltanto alle macchine che, rispettando determinati requisiti di sicurezza, possiedono la marcatura CE di conformità, la quale può essere rilasciata dal fabbricante o certificata da un organismo verificatore ufficiale. Ora non si tratta semplicemente di fare controlli sulla sicurezza di installazione e delle condizioni operative delle macchine ma di garantire che la componente autonoma di questi nuovi artefatti intelligenti rispetti sempre e in ogni condizione le direttive etiche fondamentali che abbiamo tracciato. Per cui non bastano standard ma servono algoritmi che sappiano valutare in maniera intelligente l’adeguatezza delle intelligenze artificiali destinate a coesistere e cooperare con il lavoratore umano. Solo in questa maniera potremmo non subire l’innovazione tecnologica ma guidarla e gestirla nell’ottica di un autentico sviluppo umano anche nell’era dei robots e delle intelligenze artificiali.