Persecuzione e migrazione dei cristiani nel Medio Oriente: quale informazione

Oggi, in #deskdelladomenica, pubblichiamo anche sul nostro sito l'articolo di Giuseppe Caffulli (direttore di 'Terrasanta') che è tratto dal numero di dicenbre 2017 della nostra rivista Desk.

 di Giuseppe Caffulli (2017)

Ormai 23 anni fa un diplomatico francese di stanza a Gerusalemme, con lo pseudonimo di Jean-Pierre Valognes, dava alle stampe un ponderoso libro di 972 pagine dal titolo quanto mai assertivo: Vie et mort des chrétiens d’Orient.
La tesi dell’autore, illustrata attraverso una grande mole di dati, era chiara: si stava verificando una vera sparizione del cristianesimo in Oriente. Quando il libro uscì, fu accolto da grande interesse in Francia come nel resto d’Europa. Ma non mancarono le perplessità. Io stesso, ricordo, avevo ritenuto esageratamente catastrofiche le previsioni di Valognes. Il testo, anticipando i tempi, trasmetteva quella sensazione di soffocamento inesorabile del cristianesimo in Oriente che oggi appartiene al senso comune. Nel 1994, però, contraddiceva gli sforzi di dialogo fra Santa Sede e autorità islamiche sciite e sunnite. E poi, pur nelle difficoltà, la presenza cristiana in molti Paesi (Egitto, Iraq, Libano) sembrava tenere. Insomma, dare per scontata la fine del cristianesimo d’Oriente, proprio mentre gli episcopati locali cercavano di ravvivarlo, sembrava davvero troppo.
Il diplomatico francese aveva immaginato uno sradicamento incruento, figlio dell’«incapacità della società musulmana di accettare quelli che non le somigliano». Ma realtà ha superato le più cupe previsioni. Ben oltre la strategia soffocante di un certo Islam, il fenomeno della drastica riduzione (se non della totale sparizione) del cristianesimo dal Medio Oriente ha subito una tragica accelerazione a causa delle guerre scoppiate dopo le cosiddette Primavere arabe del 2011.

Già, ma quanti erano? E quanti sono oggi?

A dar retta a certe statistiche, alla fine della Seconda guerra mondiale i cristiani in Medio Oriente erano circa 50 milioni. Prima del 2011 la popolazione cristiana era stimata in circa 6 milioni (Egitto escluso, dove la popolazione cristiana è di almeno 8 milioni).
Le statistiche in Oriente sono quanto mai approssimative, ma aiutano comunque a capire. Prima dello scoppio delle cosiddette Primavere arabe, una fotografia realistica restituiva queste cifre: in Turchia circa 100mila fedeli su 72 milioni di abitanti, in maggioranza musulmani; in Iran 200mila, soprattutto armeni ed assiri. In Egitto il governo stimava i copti in 6 milioni; 12 milioni invece secondo i dati della Chiesa copta. Come abbiamo già detto il numero più credibile è di circa 8 milioni. In Iraq l’invasione americana ha decimato la comunità cristiana, facendo passare l’idea dei cristiani locali come nemici e stranieri in patria. Erano un milione e 250mila, soprattutto caldei. Sono scesi sotto i 400mila, e l’esodo continua... Le cronache hanno raccontato la fuga dei cristiani dalla Piana di Ninive, una delle aree a maggioranza cristiana del Paese, e la distruzione di chiese e monasteri.
In Giordania i cristiani si stimano in circa 160mila, un milione e mezzo (cattolici di rito maronita) in Libano. Per quanto riguarda la Terra Santa, i cristiani locali, comprendendo cattolici, ortodossi e protestanti, non si ritiene superino le 175mila unità. In Siria prima del 2011 si stimavano un milione e mezzo di cristiani. Quanti siano oggi, nessuno lo può sapere. Nel novero del mezzo milione di vittime del conflitto siriano, sono numerosi i cristiani (specialmente aleppini). Dopo la rivoluzione di Piazza Taharir, al Cairo, altre decine di migliaia di cristiani copti hanno lasciato l’Egitto (dove continuano le vessazioni e non si contano gli attentati). Quel che è certo è che in Turchia, Libano e Giordania, il numero dei cristiani in fuga che bussa alle porte delle chiese è aumentato in maniera vertiginosa.

Migranti e perseguitati

Per capire cosa è successo a partire dal 2011 è utile leggere il quanto mai circostanziato Libro nero della condizione dei cristiani nel mondo, un’indagine che in 600 pagine documenta forme di vessazione e persecuzione in 139 Paesi, quasi tre quarti delle società del pianeta. E che dedica pagine memorabili alla situazione dei cristiani in Medio Oriente.
Per cogliere il fenomeno della persecuzione e della migrazione dei cristiani in quell’area, bisogna inserirlo nel contesto, specie alla luce della tragedia siriana. I numeri forniti dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) sono di una chiarezza immediata: «In Siria, 13 milioni e mezzo di persone necessitano di aiuti umanitari; 6 milioni e 300 mila sono sfollati interni; centinaia di migliaia hanno affrontato tragici viaggi in mare per cercare protezione; quasi 3 milioni di siriani sotto i 5 anni sono cresciuti vedendo solo la guerra; e 4 milioni e 900mila – in maggioranza donne e bambini – sono rifugiati negli Stati confinanti, sottoponendo i Paesi ospitanti ad un grande sforzo nel sostenere le ripercussioni politiche, sociali ed economiche».
In Giordania, Paese di 6 milioni di abitanti, si trovano attualmente 2 milioni e 700mila rifugiati (700mila siriani registrati ufficialmente, più altri 800mila non registrati; gli altri profughi sono iracheni fuggiti dopo le guerre del Golfo). In Libano, Paese di circa 4 milioni di abitanti, i profughi sono almeno 1 milione e mezzo (per due terzi siriani). La Turchia accoglie 2 milioni e mezzo di rifugiati. C’è una folta presenza di profughi anche in Egitto (più di 260mila): tra questi, 110mila sono siriani. In Iraq, i rifugiati siriani sono oltre 230mila.
Impossibile, come dicevamo, sapere con esattezza quanti siano i cristiani fuggiti dai contesti di guerra. Probabilmente sono in un numero superiore alla loro presenza statistica nella regione. Aleppo, per esempio, prima della guerra, contava oltre 300mila cristiani. Oggi ce ne sono 30 - 35mila. Soprattutto un livello d’istruzione più alto, una condizione economica più solida e maggiori agganci all’estero (la diaspora cristiana si è impiantata ormai stabilmente in molti Paesi di Europa, Nord e Sud America) hanno favorito una fuoriuscita più consistente rispetto alla componente musulmana.

Silence, please!

Fino a qualche anno fa, la situazione dei cristiani in Medio Oriente era avvolta da un pesante cono d’ombra, quando non dal silenzio. Viene spontaneo chiedersene la ragione.
Chi si occupa da anni di documentare e denunciare violenze, intimidazioni, uccisioni, violazioni sistematiche dei diritti umani perpetrate contro i cristiani nei Paesi dove sono minoranza, conosce bene quanto sia difficile raggiungere un pubblico più ampio dei ristretti gruppi interessati a questi temi. Fino a qualche anno fa un meritorio ruolo informativo lo svolgeva la stampa cosiddetta missionaria, che purtroppo ha visto negli ultimi tempi ridotta la sua presenza sia in termini sia di testate (cessate o sospese) che di lettori (avanti con gli anni e quindi sempre meno numerosi).
Un primo aspetto che spiega il silenzio è l’irrilevanza del fattore religioso nelle società occidentali, che ha come riflesso l’indifferenza dei media generalisti. Vanno poi aggiunti il pregiudizio degli ambienti laicisti e l’eccessiva preoccupazione per il politically correct. A farla da padrona, soprattutto l’enorme complessità di un fenomeno globale che costringe a sottrarsi dalle facili semplificazioni giornalistiche e impegna quotidianamente nella decodificazione di fatti e processi contraddittori.
Solo dal 2001, con l’attentato alle Torri Gemelle e l’ascesa del fanatismo islamista e del terrorismo - iniziato però ben prima: si legga a proposito Bandiere nere del Premio Pulitzer Joby Warrick - si sono accesi i riflettori sulla situazione delle minoranze cristiane e su alcuni episodi di persecuzione e/o discriminazione. Ma questo interesse è nella maggior parte dei casi ispirato, più che dalla vicinanza alla condizione dei cristiani, da una crescente islamofobia, che si alimenta di stereotipi e che è fomentata dal linguaggio dei media (e di certa politica becera). Insomma, più che marcare una vicinanza alle attese e alle ragioni dei cristiani mediorientali, l’informazione si è prestata a marcare una distanza, una differenza. Da una parte, quindi, noi dell’Occidente (cristiano?) e dall’altra parte il mondo musulmano, senza distinzioni e senza differenze. Con il risultato di rendere ancor più difficile la situazione delle minoranze cristiane, presentate come la “quinta colonna” di Paesi ostili.

Occuparsene oppure voltarsi altrove?

La situazione dei cristiani in Medio Oriente e in generale delle minoranze cristiane «ci riguarda tutti», come ricorda nel Libro nero della condizione dei cristiani nel mondo il filosofo razionalista francese André Comte-Sponville. Sono dunque importanti gli appelli contro la violenza perpetrata dai terroristi islamisti contro i cristiani come quelli sottoscritti da personalità come l’imam di Bordeaux Tareq Oibrou o come il gran rabbino di Francia Haim Korsia. Ma poi bisogna passare all’azione, a tutti i livelli: ecclesiale, umanitario e politico, con l’obiettivo di arrivare a pronunciamenti ufficiali capaci di andare oltre le mere logiche economiche e strategiche. Le violazioni di uno dei diritti umani fondamentali, quello della libertà di religione e di culto, non vanno passate sotto silenzio. Pericoloso per tutti voltarsi altrove.
In cosa potrebbe (dovrebbe) dunque aiutare l’informazione?
Prima di tutto: recuperare il senso della propria missione. Di recente il Washington Post ha aggiunto alla testata il motto: «La democrazia muore nelle tenebre». Noi potremmo aggiungere: l’umanità muore se non c’è rispetto per i diritti fondamentali della persona. Per questa ragione è importante denunciare sempre la condizione di persecuzione e discriminazione delle minoranze, a maggior ragione quelle cristiane.
Un ulteriore aspetto da rimarcare è questo: le comunità cristiane del Medio Oriente nel mirino dei fondamentalisti non sono costituite da stranieri, immigrati, occidentali, missionari, ma al contrario sono popolazioni autoctone che risiedono in quei Paesi fin dalla nascita stessa, proprio in quelle aree del cristianesimo e quindi da prima dell’avvento dell’Islam. La componente cristiana dei Paesi a maggioranza musulmana costituisce sempre la parte più dialogante e culturalmente attrezzata della nazione. Aiutare a tutelare le comunità cristiane del Medio Oriente significa dunque contribuire alla stabilità e alla pace in quelle aree. Condizioni che hanno certamente una ricaduta positiva anche in Occidente.

Serve poi che l’informazione faccia un serio esame di coscienza sul modo di trattare la notizia e sui linguaggi adottati.
Occorre non scambiare le opinioni per fatti. Sembra un paradosso: uno dei cardini del giornalismo dovrebbe essere quello di separare le opinioni dai fatti. In realtà, dando voce a questo o a quel capopopolo, si contrabbandano percezioni più o meno indotte nell’opinione pubblica come dati di fatto. Un esempio lampante è quello della presunta invasione dei migranti nel nostro Paese. Dobbiamo vigilare e distinguere, per non fare di tutta l’erba un fascio e aiutare a capire.
Altra questione: disarmare le parole. Occorre prestare attenzione a cosa si scrive e come si scrive. Nel suo L’Islam in 20 parole, Lorenzo Declich descrive bene il rischio che termini come fatwa e jihad, per esempio, nel linguaggio dei media fatto spesso di stereotipi e semplificazioni finiscano per tradire il loro vero significato, che è prima di tutto spirituale.

Un’ultima nota, valida soprattutto per il giornalismo televisivo, ma ugualmente importante quando si sceglie un’immagine per la carta stampata: prestare attenzione alla trappola del «montaggio analogico», cioè l’accostamento di elementi narrativi che finiscono alla fine per costruire un precorso di senso completamente diverso. Un esempio recente, preso da un Tg nazionale: il discorso di pace e di forte denuncia contro gli assassini di Barcellona tenuto a Bassano del Grappa da parte di Bouchajib Tanji, presidente della Federazione Islamica del Veneto. L’impaginazione prevedeva subito dopo il servizio sugli aderenti dello Stato islamico che minacciano Roma e papa Francesco. L’effetto dell’accostamento è chiaro: l’indebolimento (se non l’annichilimento) del messaggio di speranza offerto dalle comunità musulmane che condannano il terrorismo e la violenza, «mai in nome di Dio».
Sulla condizione delle minoranze cristiane in Oriente serve poi mettere in campo approfondimenti e letture storiche, che aiutino l’opinione pubblica occidentale (e di riflesso il livello della politica e delle diplomazie) a cogliere il contributo che i cristiani mediorientali hanno offerto alla civiltà. Chi conosce infatti la pluralità di riti e tradizioni delle Chiese d’Oriente − utile a proposito il libro di Alberto Elli Breve storia delle Chiese cattoliche d’Oriente? Chi conosce i grandi santi che hanno vissuto in quelle terre? Chi ha coscienza del fatto che molte figure che hanno fatto la storia e la cultura della nostra Europa, in varie epoche, provenivano da Oriente? Il cristianesimo non è nato a Roma, ma a Gerusalemme, Antiochia, Edessa, Efeso, Atene, Corinto...

Ormai vent’anni fa il gesuita Samir Khalil Samir si era fatto promotore di una iniziativa, denominata Patrimonio culturale arabo cristiano, in seno al Gruppo di ricerca arabo-cristiano, con lo scopo proprio di togliere dall’oblio «i cristiani che hanno raccolto l’eredità scientifica e filosofica dei Greci».
«Di conseguenza − scriveva il religioso − i califfi musulmani li chiameranno alla corte di Damasco e poi a Baghdad per farne i loro medici privati e i loro accreditati consiglieri. (...) Molto più tardi, dalla fine del XVI secolo, saranno ancora i cristiani a venire a formarsi in Occidente. Al loro ritorno, creeranno in Libano collegi moderni e tipo¬grafie, e si faranno diffusori dei metodi delle scienze moderne. Inversamente, sempre nei secoli XVII e XVIII essi saranno i primi orientalisti che inizieranno l’Oc¬ci¬dente al mondo orientale, musulmano e cristiano. Nel XIX secolo saranno nuovamente gli artefici incontestati della nahḍah, il Rinascimento arabo, creando giornali e riviste, sviluppando il teatro, il romanzo e più tardi il cinema, diffondendo l’Aufklärung (Illuminismo) a tutti i livelli: politico, sociale, culturale, linguistico e religioso».
Da ultimo: serve poi uno sguardo approfondito sull’attualità. Chi conosce la situazione delle comunità cristiane in Paesi come l’Iran, la Turchia, l’Armenia? Chi sa come vivono i cristiani nella Penisola arabica (Arabia Saudita, Emirati arabi uniti, Yemen, Oman), dove proprio di recente l’immigrazione di cristiani dall’Estremo Oriente – ma anche dai Paesi del Vicino Oriente in guerra - sta cambiando alcuni storici equilibri? Chi ha cognizione della nuova fase che stanno vivendo le Chiese in Terra Santa, con il massiccio arrivo di immigrati filippini e indiani, la consistente comunità russa con radici cristiane (forse 300mila), la presenza di migranti cristiani dal Sud Sudan (cattolici latini) e dall’Eritrea, accanto alla tradizionale presenza arabo-cristiana?

Attraversare il deserto

Pur nella situazione catastrofica che ha sconvolto la regione, l’impegno degli operatori dell’informazione, in particolare di coloro che si prefiggono di offrire un contributo di testimonianza nella professione giornalistica, è dunque quello di non tacere persecuzioni e violazione dei diritti umani, di favorire la conoscenza della pluralità che è ricchezza, di sfuggire alle semplificazioni, di non alimentare la catena dell’odio e di favorire il dialogo.
Quello della questione cristiana è un elemento importante che troppo spesso viene trascurato dai governi occidentali. Da una parte, strumentalmente, i fondamentalisti islamici identificano il cristianesimo con l’Occidente, facendone un unico nemico. Dall’altra parte, i governi occidentali - in nome di una malintesa laicità - ritengono di non dover tutelare le minoranze cristiane in Medio Oriente (quando poi non capita che tacciano per non inficiare rapporti politici ed economici).
Ma se papa Francesco lancia un appello perché venga tutelata e difesa la minoranza musulmana Rohingya del Myanmar (durante l’Angelus del 27 agosto), appare più che mai chiara la necessità di affermare un principio, che vale per i musulmani dell’ex Birmania ma a maggior ragione deve valere con forza per le minoranze cristiane. Attraversare il deserto (anzi: farlo rifiorire) significa lavorare per affermare la libertà dell’uomo, sotto ogni cielo, di poter esprimere la propria fede.
Ha detto bene il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin al Meeting di Rimini (26 agosto 2017): «La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, di esclusione ma di integrazione. (...). Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro».
Chi opera nell’informazione e ha a cuore il bene della comunità degli uomini, non può che prendere seriamente queste indicazioni.

 

Ultima modifica: Sab 26 Mag 2018

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