9 Aprile 2013
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RACCONTARE LA REALTA’, CREDENDO POSSIBILE UN MONDO MIGLIORE

UCSI-FNSIIntroduzione del presidente dell’UCSI, Andrea Melodia, al convegno dell’Osservatorio di Mediaetica su L’informazione politica – Roma, sede della FNSI, 10 aprile 2013
 
Sappiamo che il rapporto tra politica e sistemi di comunicazione, in quest’epoca che definiamo post-moderna, è giunto a punti di interconnessione talmente complessi e avviluppati da rendere spesso difficile operare una distinzione pratica tra i due mondi, oltre quella logica. Avremo occasione questa mattina di ascoltare studiosi di questi fenomeni, oltre ad alcuni direttori di testata, e tutti ci aiuteranno a collocare il problema in termini conoscitivi. Questo incontro peraltro non nasconde scopi pragmatici e non accademici: vogliamo cercare di capire se sia possibile fare qualcosa perché la confusione nel del rapporto tra i due sistemi non danneggi la democrazia, posto che restiamo convinti di non poter fare a meno di quest’ultima.
Permettetemi prima qualche parola sull’UCSI e sul nostro Osservatorio di Mediaetica. La necessità di riflettere sull’etica dei media e della professione giornalistica, e anche di quelle attività professionali che anche in assenza di iscrizione all’Ordine agiscono nel mondo dell’informazione, è una vecchia proposta dell’UCSI, risale agli anni ’90 e ha tratto ispirazione soprattutto da Giancarlo Zizola e Paolo Scandaletti. Però non è mai sfociata in una attività concreta.
Nell’ultimo anno l’UCSI l’ha rispolverata e rimessa a punto, con qualche differenza. Prima si pensava a un organo nazionale, istituzionalmente riconosciuto; ora a un work in progress che operi su tempi medio lunghi fornendo non giudizi ma riflessioni. Riflessioni sulle pratiche professionali, nei diversi generi e nelle diverse specialità, attraverso un lavoro di ricerca, di scrittura, di discussione nel quale mettere a confronto alcune possibili ricchezze del pensiero cattolico, e sapendo fin dall’inizio che solo un confronto aperto con punti di vista diversi dal nostro può portare a una utilità sociale diffusa.
L’Osservatorio di Mediaetica, al quale stiamo lavorando ormai da mesi e che oggi vede il suo primo incontro pubblico, non si esaurirà in qualche convegno. E’ costituito anzitutto da un gruppo di lavoro aperto nel quale confrontarsi sulle scelte del percorso. L’intenzione successiva è di affidare a ricercatori universitari il compito di approfondire alcuni temi specifici delle professioni, anche nel confronto internazionale, ben sapendo che nulla si risolve nella sola ricerca, ma che senza cultura nulla può essere migliorato. Dunque cercheremo di mantenere questo lavoro di ricerca ben ancorato alle professioni e alle loro pratiche.
I temi possibili sono tanti e fare scelte comporta rinunce. Ma la gerarchia delle urgenze ci deve venire in aiuto. Quella di oggi ci sembra sia l’urgenza delle urgenze, vista la piega che sta prendendo la situazione politica in Italia. Nella nostra mente un altro punto cardine è ridare pieno senso alla comunicazione di servizio pubblico, con l’idea, in particolare, che l’informazione è sempre un servizio ai cittadini, e che il servizio pubblico non è né solo radiotelevisivo, né solo RAI, né tantomeno solo Santoro. E visto che tra tre anni va rinnovata la convenzione Stato – RAI, e che la RAI resta al centro di ogni ipotesi ragionevole di servizio pubblico, occorre proprio cominciare a occuparsene.
Io non sono affatto convinto che il discredito della politica presso l’opinione pubblica, soprattutto giovanile, sia da considerare ineluttabile, anche se alcuni fenomeni sono mondiali e dunque più difficilmente controllabili. Forse l’Italia sta diventando anche in questo settore un vero campo di sperimentazione. Cerchiamo dunque di vedere se ci sia qualcosa di modificabile nel modo di fare informazione politica, qualcosa su cui riflettere e fare opinione in modo abbastanza convincente, tanto da ottenere nel tempo qualche correzione di rotta.
So bene che esiste nel mondo della professione giornalistica una propensione scettica: molti sono convinti che si debba cercare di far bene il proprio mestiere senza preoccuparsi troppo di teorizzazioni. Opinione rispettabile, perché già in quel “far bene” c’è una tensione etica. Meno rispettabile, mi pare, l’insistere ideologicamente sui presunti vulnus alla libertà di espressione che sarebbero nascosti nella pratica di autolimitarsi, nell’applicare con fatica l’arte del dubbio e delle scelte, quando si deve decidere cosa dire e cosa non dire.
Indicherò alcuni temi specifici per l’informazione politica, come repertorio per i nostri lavori.
1) Anzitutto la vecchia questione dell’agenda setting. La teoria, ammesso che di teoria si tratti, ha più di 30 anni e certo è rimasta allo stato fluido; di conseguenza i giornalisti preferiscono ignorarla del tutto. Ma mi pare fuori dubbio l’esistenza di un circolo vizioso, per esempio, tra i grandi quotidiani del mattino e i telegiornali della sera nel fare i titoli, in particolare di informazione politica; e questo circolo vizioso alimenta ormai i social network e condiziona la percezione della realtà politica e sociale. Troppo spesso accade che una ipotesi, una intuizione interpretativa più o meno originale e legittima diventi un fulcro verso il quale tutti per breve tempo convergono. Prevale la paura di bucare una informazione anche davanti a quello che informazione non è, ma è solo ipotesi. Salvo spostarsi rapidamente in altra direzione e ricominciare il ciclo. Il racconto della politica che arriva al cittadino può così divenire la descrizione di un sistema perennemente instabile, schizofrenico
E’ possibile spezzare questa spirale? Forse se cinque o sei grandi testate ci provassero, sforzandosi di non copiarsi a vicenda, si potrebbe ottenere un racconto della politica più equilibrato.
Vorrei anche dare un premio a quel caporedattore di interni che presentandosi alla riunione di redazione dicesse: “oggi non ci sono notizie, ci dedicheremo a spiegare meglio questioni note e a commentarle autorevolmente ”.
2) L’informazione politica nei TG. Vorrei che si cominciasse a non offrire il microfono ai politici se non c’è qualcuno che fa domande vere, a valorizzare il commento più che il pastone, magari affidato a giornalisti di opinione volta per volta diversa. Anche i politici ne avrebbero da guadagnare: può darsi che il singolo portavoce guadagni visibilità comparendo di continuo nei TG, ma la parte politica che rappresenta e le relative pseudo-opinioni possono diventare insopportabili.
3) La questione della spettacolarizzazione della politica, dei talk show litigiosi, delle ospitate in cui ha ragione non chi ha ragione ma chi sa comunicare meglio. Io vengo dalla televisione, so bene quanto sia difficile chiedere rinunce. Però lo script della politica in televisione deve essere quello della competizione, e la competizione si fa solo se si rispettano le regole. Il metodo della competizione è quello del riconoscimento dell’alternanza, della possibilità di rivincita, non quello della distruzione dell’avversario. E’ possibile riportare, almeno in televisione, il confronto politico in condizioni di gestione più rigorosa, sottraendolo alle logiche esclusive dei conduttori che devono badare alla propria audience? Non può farlo almeno il servizio pubblico ufficiale?
4) L’informazione politica andrebbe lasciata fuori dall’infotainment, dai programmi di intrattenimento informativo, anche se sappiamo che i confini sono incerti. Anche in questo caso, pratiche più rigorose a cominciare dal servizio pubblico ufficiale non potrebbero portare a un miglioramento generale? Solo i talk show abituati e capaci di occuparsi di cose serie, e non di amenità, dovrebbero essere legittimati a occuparsi di politica.
5) Non basta separare politica e spettacolo, occorre anche tenere molto distinte le immagini pubbliche di chi fa politica rispetto a quelle di altre funzioni di pubblico interesse. Il conflitto di interessi non riguarda solo politica e industria: sono in conflitto anche le immagini pubbliche dei politici e dei giornalisti, dei politici e dei giudici, dei politici e dei grand commis dello Stato, dei politici e dei divi. Non si tratta di limitare libertà individuali ma di rendersi conto di quanto queste sovrapposizioni di ruoli, in una parte significativa dell’opinione pubblica, danneggi la politica. Del resto, che giornalisti e politici risultino appaiati in termini di scarsa credibilità per italiano medio mi pare sia sotto gli occhi di tutti.
Un serio lavoro per ricostruire la immagine compromessa del giornalismo professionale dovrebbe comprendere un impegno diffuso a minimizzare la visibilità degli orientamenti di parte, sia nella applicazione delle linee editoriali sia nel lavoro dei singoli; o al contrario, a dichiararli esplicitamente quando sono incontenibili; e in questo caso buona norma sarebbe quella di fare pratica di equilibrio e di astensione dalla rissa.
6) Nuove regole, nuove norme deontologiche per i giornalisti? Non credo che siano indispensabili, meglio riflettere pubblicamente, convincere, e applicare seriamente le norme esistenti, attività questa che sola legittima la sussistenza di un Ordine professionale. Ma il richiamo all’etica della responsabilità non può risuonare come retorico.
7) Non sono inutili né una seria applicazione di uno statuto di autonomia, né interventi nelle pratiche di autoregolazione, e neppure il richiamo alla necessità che il lavoro giornalistico sia dignitosamente retribuito. Però questi messaggi sul lavoro giornalistico troveranno accoglienza pubblica solo se si mostrerà molta determinazione nel colpire le distorsioni più evidenti della pratica professionale, piuttosto che esaltare la specificità della corporazione, che oggi appare ampliamente “fuori mercato”.
 
Restano molti problemi essenziali che ho solo sfiorato. La crisi dei sistemi informativi “pesanti” e l’avanzata di quelli “liquidi”, che trovano più facile legittimazione giovanile ma che favoriscono radicalismi e emarginazioni.
La difficoltà ad accettare i cambiamenti, a riorientare l’attenzione verso pratiche innovative come il fact checking.
La scarsa propensione a convincersi che il rispetto sacrale verso le istituzioni, quelle politiche come quelle religiose, debba essere equilibrato dalla disponibilità a vederle trasformare, anche sostanzialmente.
In definitiva, la consapevolezza che non spetta solo a noi giornalisti salvare il mondo, ma che credere nella possibilità di un mondo migliore anche quando se ne raccontano le nefandezze costituisce una medicina salutare per tutti.
Permettetemi di aggiungere che in questi giorni abbiamo ricevuto grandi lezioni di buona comunicazione e di volontà di cambiamento nel volto e nei gesti di un anziano papa sudamericano.
Mi fermo qui. Siamo abbastanza abituati, anche in questa sede e soprattutto negli ultimi tempi, a dire e a sentire cose spiacevoli sul giornalismo. Io spero di avere fatto la mia parte mettendo sul tavolo alcuni problemi. Ora sentiamo i nostri ospiti.