Durante il recupero della nave, l’evento Dig.it a Firenze è l’occasione per comprendere come i cronisti possano utilizzare appieno le tecnologie per raccontare gli eventi. E come superare lo stato dell’arte, tracciando un percorso evolutivo della professione. (il commento di Repubblica)
NELLA storia del giornalismo italiano il 16 settembre 2013 sarà, comunque, ricordato come “il giorno della Costa Concordia”: le operazioni di raddrizzamento della nave naufragata sulle coste dell’isola del Giglio sono state seguite minuto per minuto con livetweet, dirette video, in una esaltazione (si vedrà poi con quali risultati) delle capacità narrative “live” del giornalismo digitale…ma nelle stesse ore, non molti chilometri più in là, a Firenze, un gruppo di giornalisti era riunito per discutere in quanti modi il giornalismo digitale possa e debba allargarsi oltre il cosiddetto “real time”. Si intitola Dig-it: attrezzi per giornalisti online, frutto di un gruppo di giornalisti toscani che da anni si interrogano sull’evoluzione del mestiere. Qui il liveblogging della prima giornata. Era particolarmente significativo seguire i lavori in sala, o via twitter tramite l’hashtag #digitfi13, mentre sulle home page dei siti di informazione si accumulavano materiali provenienti dal Giglio. Qui si è cominciato subito a parlare di piattaforme di come o quanto occorra già guardare oltre il web, di metriche da riconsiderare e specialmente di sperimentazioni giornalistiche di nuovo tipo, con un’enfasi particolare sul cosiddetto “giornalismo dei dati”, l’esatto contrario della informazione cotta e mangiata, esemplificati da tre prodotti particolari: Il sito Cittadini reattivi, una piattaforma comunitaria per raccogliere e verificare dati sull’inquinamento ambientale; L’inchiesta “Ma chi me lo fa fare? Storie di giornalisti minacciati”, che mappa tutte le minacce delle quali sono stati oggetto cronisti italiani; Il progetto “Mar Mediterraneo tomba di migranti”, che ha raccolto e visualizzato in maniera dinamica tutti i casi di persone morte nel tentativo fallito di raggiungere l’Europa. Serve tempo, impegno e anche denaro per fare cose di questo genere, come per ogni inchiesta che si rispetti anche sui vecchi mezzi di comunicazione. Ma in più servono competenze che la gran parte dei giornalisti in questo momento in attività ancora non hanno: comprensione statistica, capacità di manovrare fogli di calcolo e database, fantasia e abilità nel visualizzare i dati raccolti. Anche per questo in una sala accanto partivano seminari sulla costruzione di mappe interattive, l’infografica e la visualizzazione dei dati, nell’ambito di una serie di workshop dedicati alle tecniche base del giornalismo digitale. Ma ci si interroga con difficoltà anche sulla legittimità del “brand journalism”, quei prodotti informativi finanziati da un’azienda o un ente che desiderano associare il loro marchio a contenuti giornalistici non necessariamente legati all’attività dell’azienda stessa. E’ “giornalismo”? E’ “pubblicità”? Fa parte in ogni caso di quell’area grigia della comunicazione che l’universo digitale ha reso possibile e che va esplorata. Martedì si continua, ancora con l’accento posto sul giornalismo digitale “che resta”, rispetto a quello che si consuma nell’arco di poche ore, domandosi chi e come può fare gli investimenti necessari per un giornalismo che conti e anche come si possa e debba trattare la “memoria digitale” di fronte agli attacchi concentrici di quei magistrati, avvocati e politici che pensano di poter in un certo senso riscrivere la Storia, modificando ex post quanto pubblicato. Poiché l’informazione sul web, lungi dall’essere una cosa che si consuma solo qui ed ora, è fatta per durare nel tempo e fa maturare i suoi frutti di significato (buoni o cattivi che siano) ben al di là del momento e del contesto nel quale è stata prodotta. (LAREPUBBLICA)

