Per un giornalista che voglia essere davvero tale, omettere e/o nascondere una notizia dovrebbe equivalere a una sorta di bestemmia. Una oscenità. Non si è giornalisti se si entra in possesso di una notizia e poi, per motivi che possono essere i più vari, la si nasconde. Uno non fa il giornalista per omettere ciò che, magari con fatica e a rischio, è riuscito a scovare. Eppure tutti noi abbiamo esperienze, anche dirette e personali, di particolari (e certo anche di notizie) omesse, travisate, nascoste. I motivi? Magari quel nascondimento faceva piacere a qualcuno, magari noi stessi sapevamo che omettere quel particolare, o quella notizia, o anche solo ritardarne la pubblicazione, ci avrebbe evitato un sacco di guai. Eccetera.
I motivi del nascondimento (che fa rima con “tradimento”. Ma anche con “purtroppo capita, perché stupirsi?”) possono essere tanti, ma l’esercizio del peccato é frequente e non c’è confessore indulgente che tenga: se fatto in mala fede, trattasi di azione che non ammette assoluzione.
Alzi il dito chi non ha mai “nascosto” (e si è comportato così non per motivi etici, per salvare la dignità di qualcuno magari già debole di suo, la segretezza della fonte, il possibile sviluppo di una indagine o di un racconto su fatti delicati): alzi la mano chi non ha commesso questo peccato sapendo bene che all’origine del peccato stesso stava, semplicemente, la cattiva fede di una tranquillità personale da non mettere a rischio, una “famiglia” da … tenere, un potente da non disturbare troppo, un capo che vuole proprio quello, un editore davanti cui scodinzolare.
E adesso che tutti, la manina, la teniamo alzata, adesso che si fa?
Notizie e dettagli scomodi scoperti grazie all’antica passione che un tempo ci ha fatto dire “voglio fare il giornalista”, continuiamo (quasi mai? talvolta? spesso? sempre?) a ometterli sapendo che, farlo, fa a pugni con il nostro “dover essere”? Padronissimi di farlo, certo. Però …

