Vittorio Sammarco
È ancora possibile contrastare lo Spirito del tempo, quella diffusa e consolidata opinione che vedrebbe il cittadino italiano ormai fermamente radicato nell’attenzione al suo “particolare” interesse, e di conseguenza disinteressato di ogni cosa che – essendo pubblica – viene definita (in automatico) di tutti e di nessuno? Sì, non solo è possibile, ma anche necessario. Vitale, si potrebbe dire. Perché nella logica – appunto – del personale ed esclusivo interesse, a soccombere è sempre e soltanto chi non ha forza, voce, amicizie, sostegno, cultura, idee, capacità di azione o di reazione. E, per quel che ci riguarda come operatori della comunicazione, soccombe chi non ha la parola, o sufficienti e opportune parole da impiegare a difesa dei propri diritti. Don Milani docet.
Si guardi, ad esempio, allo stato in cui vivono le nostre comunità cittadine, quelle dove con più concretezza e visibilità (con plasticità, si potrebbe scrivere) convivono, a volte quasi senza soluzione di continuità, le sorti felici e vivibili delle famiglie e delle persone più fortunate e, a poche centinaia di metri di distanza, quelle disagiate e spesso invivibili di quartieri, condomini, isolati (quindi non solo le classiche periferie), in condizioni precarie e non mantenute in modo idoneo. Perché è chiaro a molti che le città sono sempre più porose, verso l’esterno, ma anche al loro interno. Filtrano e confondono. L’evoluzione di piani regolatori, quelli sviluppati, ma anche quelli solo abbozzati, ha disegnato un volto di comunità cittadine (soprattutto in gran parte del centro-sud, ma non solo) non facilmente delineabili a tratti netti e definiti. Cioè all’interno di perimetri mutabili anche in tempi brevi, le comunità si intrecciano e si toccano, contaminandosi senza chiare distinzioni di condizioni sociali e culturali, anagrafiche e politiche. Sì, ci sono zone (come alcuni centri di città storiche) sempre più disabitate e dedite ormai solo a turismo e commercio. E – ovviamente – ci sono anche molte periferie che la densità abitativa, il degrado ambientale e la lontananza dai centri, rendono zone di vita complicate. Ma non per questo, in modo automatico, da considerare luoghi abbandonati e senza speranza. Anzi…
Le persone dietro ai beni comuni
Spesso sono luoghi in cui quella umanità considerata negletta e apparentemente in mera modalità “di attesa” (di servizi, attenzioni, soldi, politiche attive, interventi strutturali, ecc. ecc.), spesso, nel quotidiano, intorno a quei beni che animano relazioni, fiducia, speranze, progetti, idee, bisogni, si ritrova e si attiva sentendosi parte di un insieme più ampio dello stesso quartiere e più positivo della semplicistica e approssimativa vulgata che la vorrebbe solo rancorosa. Sono beni, materiali e immateriali, di proprietà privata o pubblica (ma con simili funzioni destinate alla collettività, quindi comuni), che – come ama dire uno dei principali sostenitori del loro valore politico-sociale, Gregorio Arena – «se vengono arricchiti, arricchiscono tutti, se si impoveriscono, impoveriscono tutti».
Il motivo di ciò è molto semplice: dietro a questo tipo di beni ci sono le persone. «E quello che conta non sono i beni in sé, ma ciò che i beni consentono di fare. I beni comuni consentono a milioni di persone di vivere in condizioni infinitamente migliori di quanto sarebbe possibile senza di essi; per questo prendersi cura dei beni comuni equivale a prendersi cura delle persone che stanno “dietro”, per così dire, a tali beni, aiutandole a vivere meglio» (Arena, in un recente contributo per un convegno sul pensiero di Don Sturzo).
E sono tanti, diffusissimi in Italia, che a volte si stenta a crederli veri in un Paese considerato, come si diceva all’inizio, dilaniato da sterili contrapposizioni alimentate dal risentimento reciproco. Eppure migliaia e migliaia di persone si attivano ogni giorno per prendersi cura di strade, piazze, giardini, edifici, monumenti, biblioteche, eccetera. Rimettendoci tempo e risorse. A volte rischiando, per l’incolumità personale e per eventuali rischi di legittimità delle operazioni di …cittadinanza attiva. È così: casi di cittadini encomiabili fermati dalle Forze dell’Ordine e a volte puniti per essersi presi cura, a beneficio di tutti, di parti del patrimonio comunitario, fanno clamore, indignano, ma poi – nei fatti – poco cambia.
Alleati per invertire la rotta
Allora c’è da chiedersi: perché questo pensiero diverso non fa massa, tessuto collettivo, logica e costume alternativi? La spiegazione può essere utilmente accompagnata da un testo di Fabrizio Barca, intellettuale da tempo impegnato – diciamo così – a connettere il sempre meno credibile mondo della politica tradizionale con il vivace e attivo mondo del sociale, che del primo, spesso, è disinteressato e scettico.
A conclusione di Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (a cura di Antonio De Rossi, Donzelli 2018), con un testo dal titolo Immagini, sentimenti e strumenti eterodossi per una svolta radicale, (p. 561-2), Barca scrive: «È dunque oggi necessaria una radicale inversione di rotta. Che faccia i conti in modo nuovo con i due nodi della conoscenza e del potere. Si tratta, da un lato, di riconoscere che l’emancipazione ha bisogno d’innovazione, produttiva e sociale, e che questa richiede un confronto acceso e aperto, un conflitto, fra le conoscenze incorporate nelle persone dei luoghi e fra queste conoscenze e la conoscenza esterna dei grandi centri di competenza. Dall’altro, di riconoscere che le classi dirigenti locali sono al tempo stesso parte indispensabile della soluzione, e, spesso, parte del problema, perché interessate al mantenimento dello statu quo, nel timore che il cambiamento le metta in discussione; e che dunque l’emancipazione richiede la destabilizzazione dell’equilibrio esistente di potere. Il volume (e quindi il progetto ndr) fornisce strumenti, metodi e immagini per affrontare questi due aspetti, lo fa rivolgendosi certamente allo Stato e alle sue politiche, ma anche all’azione collettiva delle organizzazioni di cittadinanza».
È una contrapposizione che, se ricollocata nelle giuste coordinate, può essere foriera di risultati positivi. Ossia: se i produttori di conoscenza (mettiamoci anche giornalisti e comunicatori) e amministratori locali, non si riconoscono reciprocamente legittimati a scardinare lo statu quo (e quindi a invertire la rotta generando innovazione sociale, che «destabilizzi l’equilibrio esistente»), è difficile fare passi avanti. E a maggior ragione meno si fanno se non si chiede a un terzo soggetto un coinvolgimento pieno e decisivo proprio per via delle «conoscenze incorporate nei luoghi e nelle cose», perché vissute, condivise, amate, forse anche sofferte, viste e riviste nei giorni dall’abitare, dell’attraversare, del goderne il beneficio o (al contrario) del patirne il degrado. Si tratta dei cittadini, attivi o meno, ma anche distratti o solo incuriositi, che si prendono cura dei Beni comuni.
Il regolamento per la Collaborazione tra cittadini e Amministrazione
E lo fanno non nel nome di una conflittualità spesso non solo improduttiva ma dannosa, ma piuttosto all’insegna di una condivisione istituzionalizzata – da poco tempo – anche in un “Regolamento per la Collaborazione tra Cittadini e Amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”, nato nel 2014 e poi man mano diffusosi in più di 200 comuni in Italia. A partire da regolamenti come questo, in primis adottato a Bologna e poi e ampliato e modificato secondo esigenze territoriali diversificate, sono stati attivati circa 2000 Patti di collaborazione tra cittadini, amministrazioni comunali e soggetti terzi, che danno concretezza a quella sussidiarietà orizzontale di cui parla l’art. 118 (ultimo comma) della nostra Costituzione.
Quindi è una vera e propria rivoluzione culturale che occorre intraprendere (meglio, rafforzare, perché sull’inizio del viaggio in molti sono d’accordo nel pensare che sia già avvenuto), per cambiare e riorientare l’idea che tra conoscenze e competenze ci sia sempre e comunque un attrito. Peggio ancora quando si ritiene che le une siano poste in capo a semplici cittadini, e le altre a organismi o personalità ufficiali (per professione, ruoli o incarichi acquisiti; più o meno correttamente, è un altro discorso). E se poi questo attrito, non trova la soluzione nella vita concreta delle persone, ecco, il danno si moltiplica.
E invece quel regolamento (tre anni dopo aggiornato sulla base dell’esperienza acquisita e dei successivi adattamenti) si basa (art. 3) su alcuni princìpi generali di fondamentale valore, per rigenerare non solo le comunità locali, ma anche, e soprattutto, quella nazionale. Sono: fiducia reciproca; pubblicità e trasparenza; responsabilità; inclusività e apertura; pari opportunità e contrasto delle discriminazioni; partecipazione dei bambini; sostenibilità; proporzionalità; adeguatezza e differenziazione; informalità; autonomia civica; prossimità e territorialità.
Tutti princìpi declinati nella concretezza del “come”, che sono basati sulla possibile e necessaria coniugazione della reciproca e pratica convenienza con la visione ideale e lungimirante di un’idea alta di comunità.
Una guida per comunicare l’Amministrazione condivisa
Ma per poterla rendere – appunto – sempre più condivisa e performativa di mentalità e atteggiamenti, l’operatività dei comunicatori (giornalisti o altri…) deve basarsi, condizione necessaria seppure non sufficiente, innanzitutto sulle parole. O sulle “Voci”, che è poi il titolo di un’agile guida che il Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà) ha realizzato e messo a disposizione gratuitamente, per tutti quelli che per comunicare l’Amministrazione condivisa dei beni comuni hanno l’accortezza allo stesso tempo di collocare significati e significanti al posto giusto e allo stesso tempo non codificarli imbalsamandoli, ma piuttosto utilizzarli in modo vivo e propositivo. Parole/voci che siano intrise di concetti, di carne, di azioni, di orizzonti.
Delle trentaquattro voci riportate ne cito, ad esempio e in estrema sintesi, alcune come: Attività di cura, «il valore aggiunto prodotto dall’impegno civico dei cittadini (attivi), capace di generare coesione sociale, senso di appartenenza, integrazione e rinsaldare i legami di comunità»; o Ascolto Attivo, «la base per costruire rapporti di fiducia dove mancano, per trasformare le proposte divergenti e i conflitti in occasioni di reciproco apprendimento e di elaborazione di progetti più originali, creativi ed efficienti di quelli di partenza»; o proprio Beni comuni, definiti «al tempo stesso locali e globali e dunque soltanto la comunità nel cui territorio quel bene si trova può concretamente prendersene cura, innanzitutto per vivere meglio essa stessa, ma anche per consentire a tutti gli altri esseri umani presenti e futuri di godere eventualmente di quel bene». E poi Rigenerazione urbana, come «il valore che i cittadini sono in grado di dare ai luoghi a trasformarli in beni comuni, a rigenerarli nel senso di darli “nuovi usi, nuove prospettive”, a reintegrarli nel ciclo di vita della città.»
Lo sviluppo locale. Un progetto politico
Ce n’è una, infine, che mi sembra costruttiva di un disegno generale su cui in molti, a prescindere dalle personali visioni politiche, si possono ritrovare: è Sviluppo locale, a braccetto – appunto – con i beni comuni. Che cosa vuol significare, in concreto, quest’abbinamento di parole? Che l’insieme delle cosiddette “esternalità positive” (generate dalla cura costante dei beni comuni, ndr), «costituisce anche il “seme” di un nuovo tipo di sviluppo locale di quei territori. Questo perché:
1) si crea un “vantaggio competitivo localizzato”, una “cultura” locale dei beni comuni che rigenera e rimette in circolo risorse nascoste delle comunità e dei territori. Si viene cioè a creare/rafforzare una sorta di “comunità sociale” tra i produttori dell’intera catena del valore territoriale, capace di risolvere i problemi che si pongono nell’attività ordinaria di queste organizzazioni, sviluppando collaborazione e coordinamento, sinergie anche con i consumatori (…);
2) si creano così, per tale via, anche forme di “economie circolari”, valorizzando le filiere che si realizzano nella comunità (per esempio la filiera del cibo), i saperi e le storie dei luoghi, sviluppando la “coscienza dei luoghi”, con effetti tra l’altro culturali e di attrazione turistica;
3) e affinché questo salto di qualità possa avvenire sono necessarie le capacità “abilitanti” delle istituzioni: lentamente, ma progressivamente, trasformando una miriade di esperienze locali di cittadini attivi per la cura dei beni comuni, da frammenti a “sistemi” di cooperazione e di economia circolare, rafforzandoli e sperimentando specifiche politiche di amministrazione condivisa».
In sostanza un vero e proprio Progetto politico: un disegno generale di rilancio, condiviso e collaborativo, delle migliori risorse del nostro Paese e dei luoghi che abitiamo. E delle relazioni che in essi intrecciamo. No, rancore e sfiducia non sono la cifra inevitabile del discorso pubblico negli anni a venire: la passione e la cura dei beni comuni sono – se di qualità e significativi – “il miglior antidoto alla solitudine”. Essa sì, il vero convitato di pietra delle odierne pericolanti comunità cittadine.

