Vania De Luca (2020)
Con la sua capacità di fare memoria, di stare nel presente e contemporaneamente di guardare al futuro da costruire, nell’omelia della messa quotidiana a Santa Marta del 28 marzo papa Francesco ha sottolineato il dramma che c’è quando avviene una spaccatura tra le elite dei dirigenti religiosi e il popolo. Vicinanza ha chiesto – raccomandato – sin dai primi giorni in cui la pandemia ha imposto –a tutti- le distanze.
E lui stesso ha voluto farsi ponte tra la terra e il cielo, con quell’ora di preghiera sul sagrato della basilica di san Pietro, venerdì 27 marzo 2020, dove è arrivato a piedi, da solo, all’imbrunire, da una piazza vuota, già bagnata dalla pioggia. Un momento straordinario, seguito in tutto il mondo, e iniziato con l’ascolto della Parola. Un’omelia, integralmente pubblicata su questo sito, da leggere e meditare, con l’invito – radicale, per tutti – a rivedere degli stili di vita che non reggono più.
Ero tra i pochi in diretta subito fuori la piazza, testimone inconsapevole di un evento storico eppure per me straniante. Ho seguito decine e decine di dirette da San Pietro e da tanti paesi del mondo, ma mai in una condizione così. Le uniche poche persone ammesse nell’area erano le forze dell’ordine, pochi operatori dell’informazione e qualche senza fissa dimora sotto il colonnato della sala stampa vaticana. Tutti con le mascherine, qualcuno con i guanti, ogni tanto occhi che si incrociano in cui leggi la paura, la compassione, la diffidenza, in qualche caso rigidità o fermezza. Dicono molto, in questi giorni, gli occhi che si incrociano.
Non avevo ritorno audio video, e – come mai mi era capitato – la diretta non era trasmessa dai maxischermo in piazza. L’ho accompagnata al meglio che ho potuto. Dopo un’ora sotto la pioggia, (l’ombrello riparava la telecamera) l’acqua mi era entrata nella giacca e lungo la schiena, poi dalle maniche fino ai gomiti, e dentro le scarpe. I fogli che avevo in mano si erano resi presto inutilizzabili, e si potevano strizzare. Mi è capitato qualcosa di simile a Nagasaki, quando l’operatore era perplesso dall’uscire sotto il temporale, ma mi imposi: “siamo qui, è storia, e ci saremo come possiamo”.
Mi ha impressionata, verso la fine della diretta, sentire le campane di san Pietro e le sirena di una o più ambulanze, non lontane, ma vicine, quasi più delle campane. Due suoni sovrapposti, come se l’uno entrasse dentro l’altro.
In redazione ho asciugato un po’ i capelli con la carta, e per fortuna avevo una maglietta di ricambio, estiva ma almeno asciutta.
Al montaggio del pezzo conclusivo ho recuperato un po’ di senso della realtà, e anche di quello che poco prima era avvenuto in piazza.
Ho ricordato al collega montatore che quello che stiamo facendo in questi giorni di resistenza non è solo il lavoro che alcuni di noi hanno amato, che hanno scelto o per il quale sono stati scelti. Quello che stiamo facendo è il nostro dovere, la nostra piccola parte quotidiana che ci inserisce tra quelle persone comuni citate dal papa nell’omelia di poco prima. Persone “che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia”.
Il papa ha citato “medici, infermieri e infermiere, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo”. Ci siamo anche noi giornalisti e operatori dell’informazione come questa parte di comunità. Personalmente sento come un privilegio, nel dramma collettivo, poter accompagnare in un palinsesto generalista la voce di presenza e di speranza del papa.
Nella prudenza che a tutti si impone i pochi che passano in redazione cercano di tutelarsi l’un con l’altro, e cercano di tutelare degli spazi di lavoro, gli studi, le salette di montaggio. Il lavoro fa parte della vita, resistere è vivere. E il nostro, lo sentiamo, non è solo lavoro.