Un passaggio intermedio, in una tensione positiva verso il nostro obiettivo, potrebbe essere quello di ascoltare “con attenzione”, sempre rispettosi dei fatti, oltre che delle idee e delle tesi degli altri. Senza voler prevaricare né primeggiare. Senza cercare il consenso ad ogni costo e senza inseguire clic e like. E senza ovviamente alterare la realtà perché “ci fa comodo”.
L’ascolto attento porta con sé alcuni vantaggi: il rispetto della verità, la correttezza dell’esposizione, l’empatia. Ci rende credibili, più forti.
C’è un altro risvolto del “buon ascolto”, secondo me. Il giornalista deve imparare ad ascoltare anche se stesso. A leggere i propri pezzi immaginandosi dalla parte delle persone di cui parla, a vedere e rivedere più volte le immagini che utilizza, a misurare il tono e l’enfasi delle parole. E anche a valutare bene l’impatto dei titoli (che finiscono per essere spesso l’unico cosa che la gente davvero legge).
Un’altra azione che possiamo fare è quella della selezione (certo oculata e ragionevole) delle notizie. Durante il suo discorso ai giornalisti dell’Ucsi, nel settembre 2019, il Papa rivolgeva un forte appello in questa direzione: «Non abbiate paura di rovesciare l’ordine delle notizie, per dar voce a chi non ce l’ha». Bene per esempio hanno fatto l’Avvenire e (pochi) altri giornali a dare conto con forza e con continuità dell’emergenza umanitaria globale che sta provocando la guerra: la carestia, la fame, soprattutto nei Paesi più poveri.
Anche questo è l’ascolto nuovo che ci fa crescere come giornalisti

