Se alle prospettive di aumento del livello dei mari si combina il progressivo intensificarsi delle catastrofi naturali, come tempeste tropicali e inondazioni, si può facilmente immaginare quale sia la posta in gioco per le isole Maldive nell’Oceano Indiano o Kiribati, Tuvalu, le isole Marshall e Nauru nel Pacifico. Le previsioni non descrivono soltanto uno scenario di isole inabitabili, ma persino di “Stati sommersi”: che sorte toccherà a paesi di cui potrebbe non restare altro che il “territorio marittimo” della Zee (Zona economica esclusiva)?
Non può neppure esser data per surreale una situazione di separazione del territorio statale dal popolo e dal governo: Kamal Amakrane, direttore del Centro per la mobilità climatica alla Columbia University, avverte che potrebbero essere necessarie una dichiarazione ad hoc dell’Onu e appositi trattati tra Stati a rischio e “Stati ospitanti”, dei quali ciascuno sarà pronto ad accogliere un’intera comunità di rifugiati e il governo in esilio in sedi diplomatiche temporanee o permanenti. Si moltiplicano, intanto, i progetti ambiziosi di elevazione artificiale del territorio terrestre nelle isole minacciate dal cambiamento climatico e di realizzazione di intere città galleggianti.
Eppure, dinanzi al grido di indignazione dei paesi insulari, ci si potrebbe attendere molto di più di una risposta tecnica: un’autentica conversione ecologica che guardi oltre gli egoismi dei singoli popoli e aspiri a un nuovo modello di economia, che sia al servizio della cura della “casa comune”.

